“Anima Mundi” di Marsilio Ficino #18: Medicina del corpo, medicina dell’anima
“Dobbiamo quindi esporre le ragioni per cui Democrito, Platone e Aristotele affermano che alcuni melancolici sono dotati di ingegno superiore a tutti, al punto da non sembrare umani, ma piuttosto divini.” ‒ Marsilio Ficino
Diciottesima puntata della rubrica “Anima Mundi” che presenta il quinto capitolo della Parte Quarta Il tempo della magia suddivisa in: Anima Mundi; Il mondo delle immagini; Sui demoni; Fatalia; Medicina del corpo, medicina dell’anima.
Medicina del corpo, medicina dell’anima, quinto capitolo de Il tempo della magia, è a sua volta suddiviso in due sezioni intitolate De vita.
La rubrica Anima Mundi propone al lettore una selezione di brani come invito ad intraprendere la conoscenza di Marsilio Ficino, il “nuovo” Orfeo che, a differenza del suo “predecessore”, ebbe successo perché dal suo viaggio portò seco “numerosi tesori”. Il filosofo Marsilio Ficino (1433-1499) è ricordato come il primo traduttore delle opere complete di Platone, seguace del neoplatonismo commentò le Enneadi di Plotino in modo esemplare (si ringrazia Pico della Mirandola), equiparò Ermete Trismegisto a Zoroastro, Pitagora, Orfeo, Filolao, Zalmoxis: ogni sapiente del passato fu sul tavolo di lavoro di Marsilio Ficino, vero promotore del pensiero umanista ed influente esponente del Rinascimento. Giamblico, Porfirio, Avicenna, Averroè, Niccolò Cusano, Macrobio, Agostino, Apuleio, Dionigi Aeropagita, Lucrezio, Dante Alighieri (et cetera) sono solo alcuni dei nomi degli autori che Marsilio Ficino interpretò e promosse come menti illustri da osservare da vicino per riuscire a “cogliere le cose superiori senza trascurare le inferiori”.
In questa diciottesima puntata Medicina del corpo, medicina dell’anima si presentano due paragrafi dalla prima sezione del De vita intitolati “Quante sono le cause per cui i letterati sono o diventano melancolici” ed il successivo “Per quali motivi i melancolici sono uomini d’ingegno, e quali melancolici lo siano, quali no”.
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Estratto da “Quante sono le cause per cui i letterati sono o diventano melancolici” ‒ Medicina del corpo, medicina dell’anima
“Sono tre i principali tipi di cause che rendono melancolici i letterati. La prima è celeste, la seconda naturale, la terza umana. Ecco la celeste: gli astronomi classificano Mercurio, pianeta che incita all’indagine delle dottrine, e Saturno, che fa sì che perseveriamo in questa indagine e che ne conserviamo i frutti, quali pianeti freddi e secchi (e ponendo pure che Mercurio non sia freddo, tuttavia diventa spesso secchissimo per la vicinanza col Sole). Per i medici, la natura melancolica è anch’essa fredda e secca ‒ ed è proprio tale natura che Mercurio e Saturno accordano agli studiosi e ai loro seguaci sin da subito, e che conservano e accrescono ogni giorno.
La causa naturale invece sembra questa: per conseguire conoscenze, in particolare quelle ardue, è necessario che l’anima si rivolga dall’esterno verso l’interno, come dalla circonferenza verso il centro, e che, mente sta contemplando, permanga in modo stabile, per così dire, al centro dell’uomo. Ma il raccogliersi dalla circonferenza verso il centro e il permanere al centro sono caratteristiche proprie in più alto grado della Terra, cui la bile nera è in tutto simile. La bile nera, dunque, richiama costantemente l’anima a raccogliersi, a stare immobile, a contemplare.
L’anima stessa, simile al centro del mondo, muove a indagare il centro delle realtà particolari, ed eleva alla comprensione delle realtà più alte, poiché è in sommo grado conforme a Saturno, il più alto dei pianeti. La contemplazione, a sua volta, per un prolungato raccoglimento e per una sorta di compressione acquista una natura del tutto simile alla bile nera.
Ecco infine la causa umana, quella cioè che dipende da noi. Dato che l’inquietudine della mente causa una forte secchezza al cervello, una volta che l’umore, che è nutrimento del calore naturale, si è quasi del tutto consumato, anche il calore solitamente si estingue. La natura del cervello diventa così secca e fredda, qualità queste della Terra e dell’umore melancolico. Inoltre, per il costante procedere della ricerca, anche gli spiriti sono spossati, è necessario siano rivitalizzati dal sangue più sottile. Per questo, consumate spesso le parti più sottili e chiare, tutto il resto del sangue, di necessità, si fa denso, secco, fosco.
Aggiungi che la natura, tutta assorbita, durante la contemplazione, nel cervello e nel cuore, abbandona stomaco e fegato. Per questo i cibi, in particolare più grassi e duri, sono mal digeriti, e così il sangue diventa freddo, spesso e nero. Infine, causa uno stato di profonda inattività, le cose superflue non sono espulse e i vapori grassi e foschi non vengono esalati.
Tutte queste cose, solitamente, rendono lo spirito melancolico e l’anima mesta e pavida ‒ dato che le tenebre interiori affliggono e atterriscono l’anima molto più di quelle esteriori.
Tra tutti i letterati, la bile nera opprime maggiormente coloro che, assorbiti interamente nello studio della filosofia, distolgono la mente dal corpo e dalle realtà corporee, e la congiungono alle realtà incorporee ‒ e questo, tanto perché un compito così difficile richiede una maggiore concentrazione della mente, quanto perché, nella misura in cui congiungono la mente alla verità incorporea, sono spinti a separarla dal corpo. Il loro corpo è così talvolta reso esanime e melancolico. Cosa che il nostro Platone indica nel Timeo, quando afferma che l’anima, nel contemplare di frequente e con grande intensità le realtà divine, nutrita di ciò si rafforza a tal punto, e diventa tanto potente da oltrepassare il suo corpo più di quanto la natura stessa del corpo possa sopportare, e talvolta essa stessa, con i suoi più tumultuosi movimenti, fugge in qualche modo dal corpo, talaltra sembra quasi dissolverlo.”
Estratto da Per quali motivi i melancolici sono uomini d’ingegno, e quali melancolici lo siano, quali no ‒ Medicina del corpo, medicina dell’anima
“Basti fin qui aver mostrato per quale motivo i sacerdoti delle Muse nascono melancolici, o melancolici diventano per studio, e questo in primo luogo per ragioni celesti, in secondo luogo per ragioni naturali, in terzo luogo per ragioni umane. Aristotele lo conferma nel libro dei Problemi; dice infatti che tutti gli uomini eccezionali, non importa in quale settore, furono melancolici. Una conferma, questa, di quanto affermato da Platone nel Teeteto, ossia che gli uomini d’ingegno sono d solito impetuosi e furiosi. Democrito sostiene che nessun uomo può essere di grande ingegno se non quelli eccitati da un certo furore. Cosa che il nostro Platone, nel Fedro, sembra approvare, quando dice che invano si bussa alle porte della poesia senza furore. Sebbene Platone qui faccia riferimento a un furore divino, tuttavia per i fisici un simile furore infiamma solo i melancolici.
Dobbiamo quindi esporre le ragioni per cui Democrito, Platone e Aristotele affermano che alcuni melancolici sono dotati di ingegno superiore a tutti, al punto da non sembrare umani, ma piuttosto divini. Lo affermano senza dubbio Democrito, Platone e Aristotele, anche se non sembrano spiegare a sufficienza la ragione di una cosa tanto importante.
Bisogna però osare, e, con l’aiuto di Dio, cercare le cause.
La melancolia, cioè la bile nera, è di due tipi. Una è chiamata dai medici «naturale», l’altra invece sorge per adustione (adustio). Quella naturale è null’altro se non la parte più densa e secca del sangue. Quella adusta si divide in quattro specie; deriva infatti dalla combustione della melancolia naturale, o del sangue più puro, o della bile, o ancora della flemma salata.
In ogni caso la melancolia che nasce da adustione è nociva al giudizio e alla sapienza. Certo, quando quell’umore si accende e arde, esso rende solitamente impetuosi e furiosi, condizione che i Greci chiamano «mania», noi invece «furore». Ma una volta svanito, dissipate ormai le parti più sottili e chiare, e rimasta unicamente tetra fuliggine, ci si ritrova stolidi e stupidi. Questa disposizione viene da loro definita, in senso proprio, «melancolia», e anche «follia» e «pazzia».
Solo la bile nera che abbiamo definito naturale giova al giudizio e alla sapienza, ma non sempre. Senz’altro, se è sola, offusca lo spirito con una massa nera e densa, atterrisce l’anima, fiacca l’ingegno. Se invece è mescolata alla flemma semplice, allorché «sangue freddo» si pone «attorno al cuore», proprio per tale freddezza induce pigrizia e torpore. Quando tale melancolia si raffredda, essa si porta verso il punto di freddezza più alto ‒ poiché questa è la natura di ogni materia che sia in sommo grado densa. In un tale stato svanita è la speranza, tutto spaventa e «viene a noia guardare la volta del cielo»[1]. Se la bile nera, semplice e mista, imputridisce, provoca la febbre quartana, gonfiori della milza e molte cose simili. Dove si trova in eccesso, che sia sola o congiunta alla flemma, rende gli spiriti più densi e freddi, affligge l’anima con un tedio senza fine, istupidisce l’acume della mente e non sale «il sangue attorno al cuore agli arcadi».[2]
Occorre però che la bile nera non sia così poca da far mancare un freno al sangue, alla bile e allo spirito, cosa che renderebbe un ingegno instabile e la memoria debole, ma nemmeno tanto grande da far sì che, come schiacciati da un ingente peso, sembriamo cadere nel sonno o necessitare di sproni. Deve dunque assolutamente essere sottilissima, per quanto può la sua natura. Se infatti verrà di molto assottigliata, ma sempre nei limiti della sua natura, potrà esservi in abbondanza, senza con ciò causare danno, e potrà persino essere tanta da pareggiare la bile, almeno quanto al peso.
[…]
Occorre dunque che la bile nera sia opportunamente temperata. Essa, quando è moderata al modo in cui abbiamo detto, e mescolata con bile e sangue, poiché è secca per natura, e poiché si ritrova in una condizione tanto sottile quanto permette la sua natura, facilmente viene infiammata dai due umori. E poiché è solida e molto compatta, una volta accesa, arde per lunghissimo tempo. Poiché poi è molto potente per l’unità della sua compattezza e secchezza, s’infiamma con grande impeto, come accade nel dar fuoco a legno e paglia assieme, che ardono e risplendono così di più, e più a lungo. Del resto, da un calore prolungato e violento sorgono un potente fulgore e un movimento impetuoso e prolungato. A questo accenna il detto di Eraclito: «Luce secca, anima sapientissima».[3]“
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Nella prima puntata della rubrica si è scelto di pubblicare un brano estratto dall’introduzione di Raphael Ebgi, nella seconda si è presentata una delle due lettere presenti nel primo capitolo intitolato Un circolo lucreziano all’amico, poeta e suonatore di lira Antonio Serafico; nella terza si è optato per la pubblicazione di un estratto dalla Epistola sul divino furore all’amico e studioso di eloquenza Pellegrino Agli; nella quarta ci si è soffermati su un estratto tratto da Trattato di Dio et anima ed uno tratto da Le quattro sette dei filosofi; nella quinta puntata si è preso in oggetto un estratto della lettera all’amico Antonio Canigiani presente nel capitolo Virtù e fortuna; nella sesta puntata si è presentato il primo capitolo Platonismo e repubblicanesimo della Parte seconda del volume intitolata “Firenze Atene”; nella settima lo spazio è stato riservato ad un estratto dal secondo capitolo Pietas et sapientia della Parte seconda intitolata “Firenze Atene”, capitolo suddiviso in sei sottocapitoli; nell’ottava puntata si è scelto di sottoporre una selezione tratta dal terzo capitolo della Parte seconda intitolato Poeti platonici: Argomento allo «Ione» di Platone; nella nona si sono presentati due estratti dal capitolo De miseria hominis; nella decima Misteri d’Amore si presentano due estratti da El libro dell’amore e dalla Lettera ai confilosofi ed a Ermolao Barbaro; nell’undicesima Del bello o della grazia un estratto da Argomento all’«Ippia maggiore» di Platone; nella dodicesima Immortalità e resurrezione un estratto da Argomento al «Fedone» di Platone; nella tredicesima Il regno dei nomi un estratto da Argomento al «Cratilo» di Platone; nella quindicesima Il tempo della magia si presenta un estratto dal primo Commento alle «Enneadi» di Plotino; nella quindicesima Il mondo delle immagini un estratto da Parafrasi del «De mysteriis» di Giamblico; nella sedicesima Sui demoni un estratto da Lettera a Braccio Martelli, nella diciassettesima un estratto da Fatalia.
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Per continuare la lettura in modo proficuo e con attenzione si consiglia di distogliere gli occhi dal computer o dal cellulare e di recarsi nella propria libreria per cercare il libro tra gli scaffali “impolverati”; se non si possiede il volume in casa si consiglia di acquistarlo (rigorosamente in cartaceo).
Leggere è un compito importante, la carta è di grande ausilio rispetto al formato digitale non solo per la concentrazione necessaria all’atto della riflessione e comprensione ma anche per instaurare un rapporto fisico con l’oggetto-pozzo che conserva amorevolmente le considerazioni degli esseri umani del passato, in questo caso di Marsilio Ficino.
Note
[1] Virgilio, Eneide, IV, 451.
[2] Virgilio, Eneide, X, 452.
[3] Il frammento (118 per Diels) viene tradotto da Giorgio Colli (fr. A52) ne “La sapienza greca – Eraclito” (Adelphi) con “Anima riarsa di sete è la più sapiente, che eccelle”, da Angelo Tonelli (fr. 114) ne “Dell’origine” (Feltrinelli) con “Anima secca la più saggia, la migliore”. E si apre il solito discorso sulla differenza tra la via secca e la via umida in alchimia.
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