Donne contro il Femminicidio #17: le parole che cambiano il mondo con Roberta Andres

Le parole cambiano il mondo. Attraversano spazio e tempo, sedimentandosi e divenendo cemento sterile o campo arato e fertile.

 

Femminicidio

Per dare loro il massimo della potenza espressiva e comunicativa, ho scelto di contattare, per una serie di interviste, varie Donne che si sono distinte nella lotta contro la discriminazione e la violenza di genere e nella promozione della parità fra i sessi.

Ho chiesto loro, semplicemente, di commentare poche parole, che qui seguono, nel modo in cui, liberamente, ritenevano opportuno farlo. Non sono intervenuta chiedendo ulteriori specificazioni né offrendo un canovaccio.
Alcune hanno scritto molto, raccontando e raccontandosi; altre sono state sintetiche e precise; altre hanno cavalcato la pagina con piglio narrativo, creando un discorso senza soluzione di continuità.

Non tutte hanno espresso opinioni univoche, contribuendo, così, in modo personale alla “ricerca sul campo”, ma tutti si sono dimostrati concordi nell’esigenza di un’educazione sentimentale e di una presa di coscienza in merito a un fenomeno orribile contro le donne, che necessita di un impegno collettivo.

Oggi è il turno, per “Donne contro il Femminicidio“, di Roberta Andres, insegnante e scrittrice che vive a Pescara. Ha vinto alcuni concorsi di narrativa e ha partecipato, con un racconto, al progetto Eva non è sola, antologia contro la violenza di genere. Insegna Scrittura creativa presso la Facoltà di Psicologia a Chieti; ha collaborato con riviste di letteratura, didattica e psicologia e curato la rubrica “Letteratura e psicologia” sul sito di Pagineblu.

 

Femmina

Questa parola mi è sempre piaciuta, non l’ho mai trovata di per sé offensiva, anzi, mi sembra attinga alla parte più vera e viscerale di una donna: la sua sensualità, la sua potenzialità di dare la vita, la sua forza, forse irrazionale, ma legata a quel che di più naturale esiste. Il suo essere legata alla Natura, all’energia creatrice e nutrice, all’alternarsi delle stagioni, dei cicli lunari che determinano il ciclo mestruale. Mi ha sempre dato molto fastidio chi considera questo epiteto un insulto, un ridimensionamento. Mi ci sono sempre sentita molto, anche se è solo una parte dell’essere Donna che sento come qualcosa di più completo, una parola più vasta che integra anche la razionalità. Sempre rimanendo nelle questioni private, ricordo con gioia immensa il momento in cui mi hanno annunciato che il mio secondo bambino era, appunto, una femmina. Forse è così perché vengo da una famiglia in cui questo elemento è stato preponderante: una famiglia di “femmine” fortissime, indipendenti, volitive… vere forze della Natura.

Femminismo

Esiste in quanto c’è il problema del riconoscimento della donna, della sua essenza con pari dignità dell’uomo. Posto che non mi è mai piaciuto nelle sue manifestazioni più estreme e che ad esempio le “quote rosa” mi mettono tristezza, riconosco l’importanza del fenomeno, della sua storia, delle sue battaglie, vista la società in cui viviamo. Spero in un domani in cui non ci sia bisogno di femminismo e femministe: quello sarà il momento della vera parità.

Femminicidio

Roberta Andres

È l’annichilimento, la distruzione, l’uccisione di una donna-femmina. Il collegamento con la parola da cui deriva è fortissimo: questo fenomeno nasce dall’odio ed ha il fine di cancellare la forza della donna, il suo potere di autodeterminarsi e vivere in maniera autonoma. Non a caso, si tratta di delitti che scaturiscono dall’espressione della volontà della donna di decidere con chi accompagnarsi, dall’affermazione di non appartenere a qualcuno ma a qualcun altro o a se stessa. Purtroppo, è la dimostrazione della estrema debolezza del maschio e della sua difficoltà di accettare e di confrontarsi con una volontà altrui. Il fenomeno, sempre più visibile eppure ancora in sinistra espansione, richiederebbe ore e ore di riflessione, non solo sull’identità e sui comportamenti maschili ma anche su quelli femminili: perché le donne accettano i primi segnali (e spesso anche i successivi e ahimè gli ultimi) di violenza?

 

Educazione sentimentale

Come si educa un figlio maschio a non perpetrare una società sessista e discriminatoria, e una figlia femmina a non chinare il capo, a sentirsi prima di tutto individuo degno di rispetto, a non sentirsi in obbligo di abbozzare, accomodare, sopportare sempre, soltanto per il fatto di essere donna?  Nel mio lavoro di insegnante ho avuto modo di vedere infinite volte i riti di formazione di individui  che ne determinano una psicologia di genere: i comportamenti, le reazioni, il modo di muoversi, parlare, relazionarsi. Noi tutti che lavoriamo ogni giorno in una classe abbiamo visto questo processo di crescita, ma purtroppo ci è capitato anche di notare molte volte il nascere di stereotipie, formalismi convenzionali, imitazioni di adulti problematici di riferimento. Sono stata costretta a riflettere a lungo su come spiegare ad alunne che ridere al palpeggiamento del compagno di classe non era un modo efficace per fargli capire che non vuoi essere toccata e che lui deve smetterla! E anche, parallelamente, ho dovuto cercare di far capire ad alunni che le ragazze non sono né matte né “puttane” perché prima ridono e poi vanno a denunciare l’accaduto alla Preside. Dire a chiare lettere quel che vuoi e quel che non vuoi, comunicare efficacemente, chiamare la realtà con il loro nome: sappiamo farlo? Sappiamo insegnarlo? Da questo problema personale in fondo discende il problema sociale della mancata denuncia di molte di queste violenze quando la spirale potrebbe ancora essere fermata prima della tragedia. C’è stato anche, nella mia carriera di insegnante, un bruttissimo momento, in cui una ragazza   mi ha raccontato di veri e propri abusi da parte del suo ”fidanzato” o quello che lei riteneva tale, e da parte di alcuni suoi amici a cui lui la “prestava”. «Perché accetti?» le ho chiesto. «Perché lo amo» mi ha risposto.  La ragazza in questione aveva 14 anni, un grande amore e nessuna consapevolezza di sé, del proprio corpo, e dei sentimenti. Come glielo spieghi che il suo corpo, la sua sessualità e la sua volontà sono parte fondamentale del suo essere e che quello non è amore? Chi e come la può tirare fuori da questo agghiacciante equivoco che spinge anche donne più mature, adulte, a credere che sia amore quello che le unisce al loro carnefice? E chi e come le può spiegare che lei non è un oggetto ma un essere umano?  C’era già in lei, mescolato e confuso, tutto il peggio degli stereotipi di genere: “tanto i maschi sono tutti uguali, pensano solo a una cosa”; “ma io gli voglio bene”; “ma in fondo mi vuole bene”;”ma cambierà” per finire con “io lo cambierò, io lo salverò”: io, vittima, picchiata, vessata, umiliata, coi lividi addosso, lo salverò e mi salverò, perché l’amore vince su tutto. Ecco appunto, l’amore, se fosse amore! L’altro problema educativo è quindi la totale incapacità di riconoscere i sentimenti; e questo forse serve più di tutto: una educazione sentimentale. Imparare a capire cosa proviamo e cosa prova l’altro, imparare quindi a empatizzare; imparare, se sei donna, anche ad accettare la frustrazione, la delusione di ammettere che non siamo onnipotenti e non possiamo cambiare chi è malato; e, se sei uomo, a accettare che l’altra non sia oggetto di nostra proprietà ma possa smettere di amarci, lasciarci, non volerci più accanto, senza che questo sia un motivo valido per scatenare la violenza. In definitiva di cosa stiamo parlando? Di cose come la capacità di vedere la realtà fuori di noi ma anche dentro, la consapevolezza dei nostri sentimenti e il saperli comunicare efficacemente,  la capacità di riconoscerli negli altri. Cose che sembrano semplici, alla portata di tutti gli individui adulti, “normodotati”: eppure molte delle donne vittime di questo crimine sono adulte, normodotate, a volte anche colte, intelligenti, più della media. E allora? Non ho risposte, ovviamente, non le ha nessuno. Nella mia vita quotidiana di madre e di insegnante però quel che mi sembra pressante è insegnare a riconoscere le situazioni, chiamarle col proprio nome, parlarne, denunciarle senza paura, riflettere insieme. Quando si hanno le parole per nominare la realtà, si hanno anche gli strumenti per trasformarla.

 

 

Written by Emma Fenu

 

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