“Vakhim” documentario di Francesca Pirani: la storia vera di una adozione in Cambogia
“Nel docufilm ho accennato come, dopo anni, abbiamo scoperto come le madri vengono ingannate, dicono loro che poi rivedranno i loro figli… in realtà tutti i soldi che uno manda a questi istituti vengono rubati dai direttori; motivo per cui l’Italia ha interrotto le adozioni in Cambogia.” ‒ Francesca Pirani
Presente alla Biennale di Venezia nella sezione Giornate degli Autori ed ancora visibile su Mymovies, il docufilm Vakhim, realizzato dalla regista Francesca Pirani, racconta un’esperienza di vita vissuta in prima persona.
Si può dunque definire narrazione autobiografica quella della Pirani, un film indipendente che tocca profondamente lo spettatore, mostrando, a dir poco, una realtà sconcertante. Che riguarda i bambini poveri di Phnom Pen ospitati presso una zona rurale in prossimità del Mekong, in un istituto per orfani abbandonati. O peggio ancora, figli di vittime dei cosiddetti ‘effetti collaterali’, persone saltate sulle mine dei residui bellici ancora presenti sul territorio.
In questo gruppo di bimbi, dall’apparente spensieratezza propria dell’infanzia, si trova Vakhim, in seguito figlio adottivo della regista e di suo marito. Con sequenze che iniziano quando la coppia raggiunge la Cambogia e per la prima volta vede il bambino; per concludersi quindici anni dopo, con un Vakhim ormai adulto.
È un racconto intimo, privato, quello realizzato dalla Pirani, ma al contempo presenta una visione d’insieme universale che si apre a una lettura su ciò che vuol dire essere famiglia, oltre che sul senso di appartenenza ad un nucleo familiare ben strutturato.
Come affermato dalla regista in un’intervista, uno dei motivi per cui la coppia non ha considerato un’adozione italiana ma ha pensato di andare all’estero, è dovuto anche al fatto che nel momento in cui un bimbo, in Italia, viene dato in affido, può essere però sottratto in qualsiasi momento alla famiglia di adozione. E, come sottolineato dalla Pirani, i genitori biologici sono pronti a intervenire, senza averne la competenza, nelle scelte dei genitori adottivi.
“Volevo solo raccontare una storia sulla perdita della propria memoria, del proprio passato e sul suo ritrovamento. Per gli aspetti giudiziari non c’era spazio e, in ogni caso, l’obiettivo non era quello di accusare qualche organizzazione o i tribunali dei minori.” ‒ Francesca Pirani
Dimostrando una buona dose di coraggio e di intraprendenza, dopo aver contattato un’organizzazione che si occupa proprio delle adozioni nei paesi stranieri, la coppia raggiunge la Cambogia, realizzando il loro desiderio genitoriale e compiere un gesto umanitario di notevole portata. Scelta, comunque difficile quella di adottare un bimbo proveniente da un paese straniero, passata per un cammino per nulla agevole e privo di difficoltà.
A quel punto, il piccolo Vakhim, di soli quattro anni, viene portato in Italia e adottato. Raggiunta Roma, loro città di residenza, la Pirani si impegna affinché il piccolo non dimentichi la sua lingua, e tantomeno le sue origini, in modo che non perda la propria identità. Nonostante fin da subito prenda dimestichezza con l’italiano. A differenza di alcuni genitori adottivi, che vorrebbero cancellare il vissuto precedente al loro primo incontro, la Pirani ha fatto in modo che Vakhim non dimenticasse nulla di ciò che ha fatto parte del suo passato. Lasciando che la sua memoria di fanciullo rimanesse in una certa misura integra e ancorata al suo paese.
Mentre Vakhim cresce serenamente, accolto e accudito con affetto e attenzione, diventando un giovane ben inserito nel tessuto sociale italiano, nove anni dopo la coppia riceve una lettera da parte della madre biologica che vorrebbe avere notizie del figlio e riabbracciarlo. Anche perché il piccolo le è stato sottratto senza che lei ne avesse consapevolezza.
Ed è questo punto che nel docufilm si inserisce una digressione, una questione piuttosto scabrosa, di cui la regista è venuta conoscenza tempo dopo aver adottato il piccolo. Che riguarda la vendita di bimbi sottratti in maniera clandestina alla loro famiglia d’origine. Persone estremamente povere e vittime dell’analfabetismo, a cui si faceva credere che a breve avrebbero rivisto i loro figli.
Le notizie, che uscivano come un fiume in piena accompagnate da foto, creavano nella coppia il timore che il loro figlio scoprisse quella verità in modo clamoroso. E per evitare qualsiasi tipo di turbamento hanno iniziato a parlare dei fatti che si manifestavano in tutta la loro scabrosità.
Ovvero, che i piccoli cambogiani erano stati sottratti alle loro famiglie, e poi separati fra loro per darli in adozione, ingannando i genitori. Anche la madre di Vakhim era stata fotografata con i suoi quattro bimbi fra le braccia, poi adottati in Italia.
Nel frattempo, Vakhim e i suoi genitori adottivi entrano in contatto con Maklin, sorella di Vakhim anche lei adottata da piccola e residente in Italia. Che si dice disposta a parlare senza alcun pregiudizio dell’argomento, stabilendo con la nuova famiglia del fratello un legame duraturo nel tempo.
Dopo aver ricevuto la richiesta di riabbracciare il figlio, da parte della madre biologica di Vakhim, ecco nascere nella regista e in suo marito il bisogno, e al contempo il dovere, di raggiungere la Cambogia per far incontrare Vakhim, accompagnati anche da Maklin, con la donna che gli aveva dato la vita.
“Volevo solo raccontare una storia sulla perdita della propria memoria, del proprio passato e sul suo ritrovamento.” ‒ Francesca Pirani
Il documentario si sviluppa attraverso un intenso lavoro filmico in parte amatoriale, con riprese effettuate in Cambogia, e ricomposto grazie ai ricordi di Vakhim e di sua sorella Maklin. Elementi, che nel contesto narrativo assumono un carattere cinematografico, grazie anche alle descrizioni visive dello stato d’animo dei due ragazzi, che in un racconto carico di emozioni dà al docufilm assoluto realismo. Durante il quale viene raccontato il primo struggente incontro con la madre.
Sono due i piani narrativi che passano dalla realtà del passato cambogiano al presente italiano; apparentemente non c’è continuità fra loro, in realtà assumono i connotati di una verità, che non è lineare, ma flessibile, la quale contempla un mix di ricordi e di associazioni visive che restituiscono allo spettatore l’immagine di una realtà dalle numerose sfaccettature. Che in parte ricorda un diario di viaggio, accompagnato da una voce fuori campo, dove materiali di repertorio e nuove riprese sono sapientemente amalgamati fra loro.
“Sono soprattutto gli amici ad aver insistito perché realizzassi il film: mi hanno sempre detto che la storia di Vakhim andava raccontata.” ‒ Francesca Pirani
Francesca Pirani, aiuto regista di Marco Bellocchio, ha realizzato film e documentari. Ma questa sua esperienza è stata diversa, perché racconta del suo privato con il marito, della sua scelta di adozione, mettendosi in gioco in un lavoro importante della sua storia che ha visto la separazione di un bimbo dalla sua terra, alla difesa della sua identità, cogliendo il senso dei legami più ancestrali come di quelli affettivi. Un lavoro questo, come da lei dichiarato, che l’ha gratificata enormemente.
“Più che soffermarmi sul tema sull’adozione in sé, volevo capire meglio qual è il prezzo che pagano questi bambini che vengono da Paesi lontani e che nel giro di tre mesi perdono la loro lingua madre, sfumando la propria identità. Qual è il sacrificio che fanno per questo adattamento così veloce? Qual è il costo umano? Non volevo che nella vita di Vakhim, che oggi ha 19 anni, ci fossero delle zone buie. E così sono partita pensando di raccontare i suoi primi anni di vita per ricostruire la sua biografia, ma dopo è venuto anche tutto il resto di lui racconto nel film: dal grande scandalo sulle adozioni internazionali alla comparsa della madre biologica di Vakhim.” ‒ Francesca Pirani
Written by Carolina Colombi
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