“Confessioni di una maschera” di Yukio Mishima: il suicidio rituale
Ero poco più che un ragazzino quando scorsi in TV alcuni momenti del seppuku, suicidio rituale, di Yukio Mishima, autore di queste autobiografiche Confessioni di una maschera, non si sa quanto mitopoieticamente veritiere.
Non ricordo se si vide il gesto finale di quell’eroe autodistruttivo, ma solo il suo stare assiso a torso nudo di fronte al mondo che lo stava in cuor suo giudicando. Non esiste il cuore del mondo: è soltanto una mitopoiesi.
Amo l’io narrante poiché so che, fino alla fine della mia lettura del suo ultimo libro, egli mai non morirà, anche se magari minaccia di compier quel fatal gesto a ogni pagina sospinta. Quando però si tratta di epistolari c’è sempre la possibilità che terminino con una nota che va a illustrare la mesta dipartita dell’eroe, in genere per suicidio. Inutile che citi ora i due (o tre) esempi più famosi della letteratura europea.
Nel caso di Yukio Mishima, fin dalla più tenera infanzia, egli tendeva a vedersi come un essere incompreso dai grandi, che “”guardavano con astio la faccia pallida di quel fanciullino senza fanciullezza”: queste sono le allegre premesse. Accade raramente ma può sempre succedere che tu legga un romanzo scritto originalmente in giapponese e poi tradotto nel 1958 in America da Meredith Weatherby (Confessions of a Mask), e poi “tradotto dall’americano” da Marcella Bonsanti con Confessioni di una maschera. E poi che ti capiti di leggere: “e espellono” e “a agevolare”, a a, e e. Il più è farci l’orecchio e poi ci si abitua.
E che quella storia ti sommuova al punto di farti dire che, in una certa misura, è un po’ anche la tua, ovviamente cambiando i connotati delle persone, dei luoghi e delle azioni descritte, nonché del paese in cui essa si svolge. Si rivela per lo più tutt’altra faccenda rispetto alla tua umana vicenda, quella che hai vissuto quotidianamente, e può avvenire che quell’io narrante risulti all’improvviso troppo distante da te perché tu possa sentirti del tutto coinvolto dalle sue vicissitudini. Quindi passi, col cuore sollevato, a farti menare per il naso dal libro che si sta a te approssimando, e in tal modo si compie il destino tuo, dell’autore precedente e di quello successivo. Tutto non può che scorrere da tutte le parti, come un rivo strozzato che gorgoglia, o come un’impetuosa fiumana, almeno così dicono coloro che sanno solo quel che sanno.
Grazie all’amica Antonella vengo a conoscenza di un pensiero di Ferzan Özpetek: “Quando trovi il coraggio di raccontarla, la tua storia, tutto cambia. Perché nel momento stesso in cui la vita si fa racconto, il buio si fa luce e la luce ti indica la strada”: non ho capito se si tratti di un pensiero lirico o prosastico, ma poco o nulla cambia. Concordo con tanta acutezza. Scrivere è una forma di autosuggestione che ti porta a credere che quel che ti fece male, una volta che è stato riprodotto, diventa una parte da non temere più che attiene al passato, tempo che forse non esiste affatto, come pure il suo dioscuro gemello, il futuro, come quello che stai or ora vivendo, che suole dolerti per tutta la vita. Il dramma è che il tutto si può riprodurre fisicamente, hic et nuc, in uno degli infiniti (così hanno l’aria d’essere, ma trattasi di una sempiterna illusione) attimi che ti si presentano, davanti ai tuoi madidi occhi, uno appresso all’altro, nel corso della tua banale ed eroica esistenza.
“La mattina del 4 gennaio 1925 mia madre fu colta dalle doglie. Alle nove di sera partorí un bambino piccolissimo, che pesava appena due chili e quattro cento grammi.” – zia Wiki informa che Yukio Mishima è nato in quel mese ed anno, ma il 14: refuso? di chi? oppure trattasi di scelta volontaria dell’autore al fine di gabbare i suoi ipocriti lettori?
Il fisico Julian Barbour e il suo allievo Carlo Rovelli non fanno che dire che il tempo non esiste, ma c’è chi afferma che esso dev’essere accertato con la massima accuratezza, diversamente non si può compiere alcun esperimento scientifico.
È per questo che ho parlato di una specie di autobiografia, per stare sul sicuro.
“Fino dalla fanciullezza le mie idee in merito all’esistenza umana non si sono allontanate una sola volta dalla teoria agostiniana della predestinazione.” – teoria da cui io mi dissocio dicendo che anch’io, nel mio piccolo, predestino il resto del Kósmos, che vuol dire Ordine, fino a prova contraria, e agli ordini è concesso, semel in vita, trasgredire. Vorrei far notare che nei finali di parole io scrivo ì e ù. Feltrinelli in quel tempo si comportò diversamente, come già attestai in Einaudi.
“La mia passione per i travestimenti si acuí quando cominciai a andare al cinematografo. E durò segnatamente fin quando ebbi circa nove anni.” – la maschera, che deriva dall’arabo màskhara e che vuol dire burla. Mentre in latino maschera è persōna, da cui viene il termine personnage.
Non ho ancora capito (confesso che ho testé concluso la lettura della duecentodiciannovesima e ultima pagina del romanzo) se sono giunto ad amare (anche: a amare) quest’io narrante.
Nel contempo sto leggendo il romanzo d’esordio (datato 1966) di un altro, ancor più strambo, io che narra non credo la vita del suo autore, almeno ufficialmente, Luigi Malerba, ma che, in Il serpente, va a scrivere che un amico è tale anche se mal lo si sopporta, e se si giunge talvolta a odiarlo.
Amo Yukio Mishima? Di certo non lo odio. Arrivo forse a dirgli, in senso goldoniano: Come ti com-patisco, amico mio!
“Quantunque da piccolo leggessi tutte le fiabe su cui riuscivo a mettere le mani, le principesse non mi piacquero mai. Volevo bene unicamente ai principi; e tanto piú ne volevo ai principi uccisi o destinati alla morte. Bastava che un giovane perisse di morte violenta perché lo amassi perdutamente.” – a quell’età io leggevo (per mia fortuna) solo i fumetti del trio Essegiesse, i cui eroi (Capitan Miki e il Comandante Mark) erano sempre sani come pesciolini rossi in acquario e che erano maltrattati (di tanto in tanto) unicamente dalle loro fidanzate, rispettivamente Susy e Betty. Per quanto eroici agli occhi del mondo intero, formavano, in loco, una coppia di due di coppe in rifiuto quando è briscola bastoni, come argutamente dicono dalle mie parti.
L’io di Yukio in Confessioni di una maschera ora si diletta a raccontare delle morti tragiche di “principi trucidati”, ognuno dei quali “per fortuna il destino aveva decretato ch’egli dovesse soccombere”: fortuna, intuisco, nel senso di predestinazione agostiniana.
Qualora le loro sorti fossero meno truci e definitive del previsto, l’io di Yukio dice: “potevo benissimo leggere quel passo nascondendo sotto la mano.” – annullando l’effetto di quelle poco cruenti parti, e il gioco era risolto in una maliziosa contro-fiction.
Leggo ancora su Confessioni di una maschera, alcune pagine dopo: “… da cose troppo aspettate, troppo abbellite di speranzose fantasticherie, nulla mi resta da fare alla fine fuorché fuggire…” – il che si pone in contraltare all’amico Silverio, che rifugge gli orrori da leggere per non parlare del rischio di descriverli a sua volta, giungendo persino a dire che se proprio ha bisogno di scorgere delle atrocità gli basta accendere la TV, in trepida attesa del primo TG che incombe.
Yukio mio, come forse Colà ti hanno detto, a Napoli il tuo nome ha il medesimo suono di juch’io, gioco io… Yukio mio, la tua scrittura, perdonami la banalità, è pazzesca. Un esempio: “Questo cubo perfetto di notte vuota, che barcollava e sussultava senza sosta avanti e indietro, su e giú, regnava superbamente sul terso meriggio di prima estate.” – concetto che a ripeterlo viene da singhiozzare ancor prima d’iniziare.
T’innamori del San Sebastiano dipinto dal bolognese Guido Reni. E pensare che sono passato al tuo libro per reazione alla lettura di La fine del mondo-Il paese delle meraviglie di Haruki Murakami, che pur tanto m’ha inquietato, in quanto era fin troppo (e assai dottamente) colmo di citazioni di opere occidentali, salvo poi scoprire che il tuo esergo presentava una lunghissima citazione tratta da I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij; e poi, nelle prime pagine, colsi quel riferirti a quel scarsamente empatico (almeno per quanto mi riguarda) e assai condolente Sant’Agostino!
Ora, parlando di una specie arborea che non mi vanto d’ignorare (“due grandi alberi di zelkova”), giungi a scrivere il quasi indicibile, cioè che “si drizzavano accosto, e le loro ombre, singolarmente slungate nel sole mattutino, tagliavano la superficie nevosa, conferendo un significato al paesaggio, dando luogo alla felice imperfezione con cui la Natura suol sempre accentuare la maestosità.” – ti paio forse scortese se ti confesso che non mi sento in dovere d’invidiare Marcella Bonsanti, traduttrice del tuo traduttore yankee? Chissà quante angosce ha dovute patire, poveretta! E poi termini la tua funzione religiosa (forse sto esagerando nell’ironia?) assicurando il lettore che “tanta era la quiete che perfino il sordo sdrucciolio della neve pareva spargere un’eco ampia e sonora.” – tót à fîn, diceva mamma, che quando una sua conoscente de-cedeva da quest’incerto mondo, si limitava a dire che l’éra gnûda la só ōra, ma dentro di sé la sighêva, piangeva così: ehhhh! ahhhh! ihhhh!, tanto da parere una sega, mentre fuori appariva serena. Tutto ha fine, Yukio mio, anche ciascuno dei tuoi capoversi! Anche la mia lettura! O no?
Ora confessi: “Fu allora che mi innamorai di Omi.” – un tuo compagno di scuola, più grande di te e di te assai più truce e grossolano. Ma quel sentimento non doveva durare: eravate troppo diversi.
“… fui sopraffatto all’improvviso da un malessere, un tormentoso e inesplicabile malessere…” – mentre quel ribaldo si esibiva in rischiose acrobazie: “doveva trattarsi d’una vertigine mentale, d’una irrequietezza in cui il mio intimo equilibrio rischiava di essere distrutto dalla vista di ciascun movimento pericoloso di Omi.” – il quale si sentiva a suo agio nel ruolo d’improvvisato funambolo. E, mentre la sua maschera, opposta alla tua, ardita volteggiava, due forze psichiche ti strattonavano: “Una era l’istinto di conservazione. E la seconda forza – che mirava, anche più profondamente, più strenuamente, alla totale disintegrazione del mio equilibrio interiore – era una spinta al suicidio, quell’impulso sottile e segreto a cui un individuo si arrende spesso inconsciamente.” – e non c’è bisogno che ti dica che, finché mi sarà consentito dal mai del tutto infame destino, io amerò la prima di tali penose energie; e mi chiedo come possa odiare la seconda, se ti appartiene, Yukio mio?
“La mia cieca adorazione per Omi era immune da qualsiasi elemento di critica cosciente.” – perciò cesso immediatamente di parlarne, non perché sia scandalosa, ché tutto e nulla lo è nella vita, ma in quanto lo dovrei leggere non so quante volte prima di capirci qualcosa.
Ti preferisco quando ti trasferisci nel banale generico (un giorno ti presenterò Salvatore Patriarca, acuto autore di Elogio della Banalità), e dici: “Per me l’amore altro non era che un dialogo di piccoli indovinelli che sempre restavano insoluti.”
Oppure quando parli di quella naturalità che, per fortuna, non ti manca: “… avevo avuto un’erezione fin dal primo momento in cui…” – e questa è la sua arguta funzione, agire in tuo nome d’impulso, quando meno te l’aspetti. E, quando essa occorre, non puoi far a meno di dirti: ecco, me l’aspettavo!
Prendo coscienza ora d’aver segnato in Confessioni di una maschera troppi passi da riportare, e a molti di loro ho ora deciso di rinunciare. Mi limito di consigliare la lettura del tuo fatale (ma io odio il maiuscolo Fato, gli preferisco il minuscolo destino!) romanzo a chi non è facile preda né di entusiasmi né di manie ipercritiche. A me interessa capirti, Yukio mio, o, se preferisci, gioco mio, amore mio.
Un tuo… chiamiamolo così: amico… gentilmente t’informa: “Tu morrai certo prima di compiere vent’anni.” – un po’ così mi diceva la mamma quando entravo in caso pieno di ecchimosi e botte in ogni parte del corpo, dovute più alla mia sregolatezza che a colpe altrui. Pensa che, a sette anni, mentre attraversavo la strada sulle strisce, nel recarmi a catechismo, andai sotto una macchina, tanto che, se fossi morto, sarei trasvolato all’istante in Paradiso. Per cui due o tre volte mia mamma mi disse: t’ mōr prést – senza per altro immaginare che, avendo creduto alla sua profezia, limitavo davvero al minimo l’attenzione ai pericoli esterni.
Se permetti un’illazione, la tua confessata omosessualità pare una specie di idealismo, come probabilmente ogni specie di forma d’amore. Di più non so, né mi va di dirti.
“La vita è un palcoscenico” – e dici che per te lo è di più. Anche qui non so che altro aggiungere. Questa mia ammissione d’impotenza è la cosa più azzeccata che mi viene da dire di te.
Ti chiedi ora: “Potrà capire chi legge?” – intanto intendo almeno udirti, e quel che dici resterà per anni covato nell’alveo del mio cuore, credimi. In garage ho altri due o tre libri tuoi, che pria o poi diverranno miei.
Quando affermi che stai diventando “una macchina di falsità” – capisco che pochi scrittori sono stati sinceri come te. Come nessun poliziotto parigino fu più onesto e scaltro dell’ex ladro Vidocq.
“… rabbrividivo d’una strana delizia all’idea della mia morte.” – anch’io, della tua; alla mia non mi va ancora di pensarci con la necessaria serietà.
“… mi difettava in via assoluta qualsiasi forma di voglia carnale per l’altro sesso.” – c’è di peggio, t’assicuro: recare del male al prossimo, chiunque egli o ella sia.
Al lettore che tu temi possa dubitare delle tue franche parole, quel che io non sono, giungi a dir che: “… l’atto di scrivere è diventato un’inanità fin dal principio: egli crederà ch’io dica una data cosa per il semplice motivo che voglio dirla in quel dato modo, senza riguardo per la verità, e che qualunque cosa dica passerà liscia purché io conferisca una parvenza logica alla mia narrazione.”
Io la vedo così, gioco mio: ogni scrittura si basa su una parte fissa, eterna, veritiera e un’altra fallace, caduca, che progredisce, verso l’alto e verso il basso, a destra e a manca. Il vero autore non è chi sa gestire ogni eventualità, ché nessuno, nemmeno Zola e Hugo riescono a farlo, ma che è in grado di conviverci fino alla morte sua e di chi lo sta ora leggendo. Chiamasi destino, amor mio.
Arriva ora sul palcoscenico la maschera “Sonoko”, una graziosa ragazzuola di cui ti innamori, senza capire né come né quanto. E anch’io faccio fatico a seguire la tua esposizione di fatti e misfatti. La storia è covata lì, nelle pagine del tuo romanzo, per cui invito chiunque a leggerla! E se non la comprenderà a sufficienza in prima battuta, la dovrà rilegga a oltranza!
“E ancora, più che mai, mi sorpresi profondamente avvinto al desiderio di morire. Era nella morte che avevo scoperto l’autentico ‘scopo della mia vita’.”: ‘sto ragionamento, l’ho compreso da Dio!
La tua folle speranza era “che una bomba mostruosa, quale nessuno aveva mai concepito, mi avrebbe ucciso scovandomi anche nel rifugio più remoto… Poteva essere un presentimento della bomba atomica che non doveva tardare a colpirci?” – sì, quella diversamente belva che è l’uomo ne gettò un paio sul tuo sconfitto e nobile paese, al fine di dimostrare ai suoi antagonistici se stessi di essere la più atroce e potente nel novero delle fiere più sanguinarie!
Dici che ogni tanto hai “disgusto di me stesso” – e pensa allora che quell’immonda bestia di cui sopra non ce l’ha mai. Esistere è un costante rischio di diventare sempre più pavidi e tremolanti.
Aggiungi, e non oso darti né ragione né torto, che: “sarebbe stato meglio morire piuttosto che diventare un individuo di tiepidi sentimenti, uno smidollato, qualcuno che non scorge chiaramente le proprie simpatie e antipatie, che ambisce soltanto a essere amato senza saper amare.” – questo non finirà mai in croce, come te, e come tanti eroici martyres, testimoni di quell’Umano Orrore che giudica sé come l’Anarchico Assoluto, il Sacerdote del Dio Potere e null’altro. Chissà se ti è capitato di affrontare l’argomento con l’altro amor mio Pier Paolo Pasolini, che ora vive dalle tue parti, mi auguro. Quel Potere Assoluto ambisce alla completa, infame e propria libertà, anche d’uccidere, se ciò gli giova, ed è la negazione dell’amore, ed è l’affermazione del sacro valore della guerra, che è il peggior cancro possibile, che colpisce da sempre l’umanità.
Tu sembri santificare “i metodi deduttivi”, quando dici: “Io solo ho preferito basarmi sul metodo induttivo, e per questa ragione sono stato bocciato.” – era anch’esso destino, ammesso che ciò sia vero. Com’è che oggi, mezzo secolo dopo dalla tua dipartita, c’è ancora un pazzo che ti sta leggendo? In quel destino c’era anche la tua mano assassina, che non sei stato riuscito a bloccare.
Ti poni delle questioni che sono fondamentali, seppur paradossali: “… è mai possibile ch’esista al mondo un uomo geloso della donna da cui è amato, proprio a causa dell’amore che le ispira?” – quando trovi la risposta offrila a quel Pier Paolo che, se vorrà, con calma, un bel dì me la verrà a comunicare.
“… dovevo fuggire Sanoko appunto perché l’amavo.” – Denis De Rougemont, inclìto autore de L’amore e l’Occidente, sarebbe d’accordo con te. Perché non ne parlate da bravi (miei) amici quali ormai siete?
Ogni tanto ti scappa la mega-similutidine-metafora: “Ma la mia sofferenza era uno strazio curiosamente cristallino, non sfocato rimorso; come essere costretti a guardare dall’alto d’una finestra il cocente riflesso della luce estiva che spacca la strada in un contrasto abbagliante di sole e d’ombra.”
Questa invece rinuncio a capirla: “Ma poi si affacciò un altro pensiero: ammesso che la passione umana abbia la virtù d’innalzarsi al disopra di ogni assurdo, come si può sostenere che non abbia anche quella d’innalzarsi al di sopra dei propri assurdi?” – è come dire che, qualora la materia sia davvero composta da atomi e gli atomi di particelle quantiche, come può essere che… no… scusa… mi sono perso in tanta astratta minutaglia!
L’unica cosa assurda, in quanto inconcepibile per l’uomo, è quel che (forse non) accade al di sotto dello spazio di Planck, di cui nessuna scimmia nuda sa dir alcunché se non le proprie vane ciance.
“Le emozioni non hanno simpatia per l’ordine fisso: anzi, simili a particelle infinitesime dell’etere, svolazzano liberamente di qua e di là, fluttuano alla ventura, e preferiscono ondeggiare in perpetuo…” – (i puntini sono tuoi), chiamala se vuoi interazione elettromagnetica, che è quella che ti permise di suicidarti. Tu, io e tutti quanti siamo degli immani insiemi di vuoti solcati da quasi infinite animelle che, nel loro reciproco e spesso antagonistico interagire, creano l’illusione del pieno: perciò sei illusoriamente morto, amor mio! Quell’abbaglio chiamalo, se vuoi, kam’a, cioè sanscrita passione, da cui derivano le parole amore e amicizia. Che può assumere anche la forma di quel “gas che esiste quando credi nella sua esistenza e si dilegua quando la metti in dubbio.” – tu dici, ma io la metto in questi fin troppo piatti termini: pare esistere e pare dileguarsi.
E tu non cesserai ormai più di pensare a “quel corpo rude e selvaggio, ma di bellezza incomparabile” e, inesorabilmente, “a un pugnale acuminato che squarciava quella fascia, trafiggeva quel torso. A quella sudicia fascia mirabilmente tinta di vermiglio. Al suo cadavere lordo di sangue rappreso che veniva deposto su una barella improvvisata con una persiana, e riportato lì dentro…”.
Forse quell’altro amor mio, giunto anche lui a questo fatal punto, direbbe: A thing of death is a joy for ever!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Yukio Mishima, Confessioni di una maschera, Feltrinelli, 1986