“La storia di Genji” di Murasaki Shikibu: il romanzo capolavoro dell’Anno Mille, scritto da una dama di corte giapponese
Opera dalle proporzioni immense. Genji, figlio adottato dell’imperatore e di una sua concubina, è il protagonista relativo di un romanzo corale. Quest’apparente ossimoro si spiega col fatto che tutto il mondo gira attorno a lui, ma è proprio tutto il mondo che occupa, relativamente a lui, e mentre quello gli gira intorno, l’intera narrazione.
La finalità principale del protagonista è innanzi tutto essere ciò che è, Sua Signoria e, in secondo luogo, incontrare e vagliare con oculatezza varie candidate ad essere la donna di Sua Signoria del momento: una privilegiata, scelta fra le tante, essendo, ogni volta, la più interessante, anzi, finché dura, l’unica. Nel Giappone del tempo è permesso, anzi, caldamente raccomandato, per le sole classi abbienti, intuisco, il concubinaggio.
Per Genji, la scelta muliebre non è mai definitiva, bensì suscettibile di successive e necessarie variazioni. La ricerca non ha mai fine e non s’interrompe nemmeno con l’eventuale fecondazione della donna e la nascita di un erede, anzi, questo è il momento più indicato per andare oltre (e altrove). E non ha limiti anagrafici. La prescelta di turno può essere più giovane, circa coetanea, abbastanza più anziana di lui, anche poco più che bambina: nel qual caso, ella sarà allevata dal suo futuro sposo, come se fosse una figlia adottiva, in attesa di crescere e diventare finalmente matura ad essere la nuova consorte a tutti gli effetti.
La ricerca della donna si basa su alcune regole e crismi, ma anche su qualità accidentali e imprevisti colpi di fulmine. La donna che infiamma Genij è sempre, ognuna a modo suo, particolarmente virtuosa: egli sa ogni volta aspettare e scegliere senza indugi eccessivi l’occasione che gli si presenta, prima o poi, inevitabilmente.
La ricerca svolta da Genji avviene in tutti gli ambienti, che sono per lo più pacati, come quando: “In un giorno ozioso mentre la pioggia d’estate cadeva tranquilla e monotona…”, anche se talvolta accade che: “una mattina poco prima dell’alba all’improvviso la pioggia cominciò a cadere a scrosci, mentre si scatenava un terribile temporale…”
L’ambiente è importante, come ogni sua componente. Tale è ogni ente o fenomeno narrato, ciascuno nell’identica e calibrata misura.
Ciascun personaggio è caratterizzato dall’appellativo relativo al titolo ufficiale, al rango amministrativo o gerarchico di Corte, che si trasforma nel tempo e che si trasferirà, quando sarà il momento opportuno, da una persona all’altra. È come se i vari attori si cambiassero la maschera, che in latino si dice, appunto, persona, da per-attraverso sonar-risonare: il tramite attraverso cui si esprimono i personaggi, i quali cambiano persona, quindi forza vocale, a seconda del momento in cui è narrato il fatto.
Le donne, dal canto loro, sono identificate per lo più con il loro nome di servizio, cioè il diverso rango di dama, o con il luogo di provenienza, che non muta.
Nel XIV capitolo la sacerdotessa di Ise, figlia della Signora di Rokujō diventa, su invito-raccomandazione-ordine di Genji, Consorte del Nuovo Sovrano Reizei, e sarà anche conosciuta come l’Imperatrice che ama l’autunno. Dal canto suo, Sua Signoria il Gran Consigliere (Genji) viene nominato Gran Ministro del Consiglio Imperiale.
Si assiste allo svolgersi composito delle scene come si fosse davanti a un acquario, dove ogni creatura acquatica naviga o per conto suo (mutando ogni tanto livrea), o assieme ad altre omologhe, secondo una logica che viene dispiegata, a poco a poco, frase dopo frase, capoverso dopo capoverso.
Il libro è estremamente complesso e descrittivo, con periodi lunghi e variegati, del tipo:
“Certo, era pur vero che una fanciulla di provincia, di umili condizioni, attratte dalle parole di qualche nobiluomo della capitale giunto da quelle parti per un breve periodo, poteva accettare un legame incerto e passeggero, ma per lei, convinta che comunque non sarebbe stata presa in considerazione, ciò avrebbe significato solo sofferenza, e anche i suoi genitori che, mossi da ambizioni troppo grandi, fintanto che la famiglia era ancora troppo giovani e senza legami, riponevano di certo le loro speranze nel futuro, curando varie attese, a loro volta sarebbero stati a loro volta delusi, e quindi, per tutto il tempo che egli era in quella regione le sarebbe stato sufficiente scambiare delle lettere con lui…” Ho interrotto il lunghissimo periodo a circa metà della sua lunghezza totale.
Ne riporto uno molto più corto, dal medesimo XIII capitolo:
“Il padiglione riservato alla meditazione era poco lontano e la voce della campana echeggiava al vento fra i pini, colma di tristezza: le radici degli alberi, aggrappate alle rocce, avevano una loro eleganza particolare.”
Il testo in prosa è talvolta interrotto, abbellito e completato da immagini poetiche scritte ad hoc, che si riferiscono, in buona parte, a immagini tipiche della tradizione letteraria. Si tratta di pezzi di versi di poesie scritte da altri autori, riportati a parte, come evidente citazione (una alla volta, e sempre di un autore celebrato, per altro mai indicato, se non nelle note al testo). Non c’è soluzione di continuità fra il testo principale e l’inserzione poetica. Si tratta di un tutt’uno inseparabile e mirabilmente collegato.
Cito ora una delle poesie che sono invece staccate dal testo, nonché parti integranti del dialogo fra i personaggi. Questa è la prima che mi passa accanto, sforandomi con grazia:
“Anche se da lontano,/ vi raggiunge il mio ricordo/ ora che da una spiaggia/ sconosciuta sono approdato/ ad un’altra ancora più remota.”
Ne cito un’altra, sempre tratto dal capitolo suddetto:
“In questa notte d’autunno/ destriero del manto di luna/ vola nel cielo/ da colei che mi è cara/ così che la veda anche solo per un attimo.”
Il curatore spiega che l’autrice “gioca sull’omofonia esistente fra tsukige, ‘manto di color rosato, manto del color delle ali dell’ibis crestato’, e tsuki ‘luna’”.
Un’altra piacevole omofonia è racchiusa nel titolo del XIV capitolo: “Miotsukushi” tradotto: ‘acque profonde’; mi o tsukusu, dare tutto se stesso e miotsukushi i panali posti nelle acque dei canali, per segnalarne la profondità. Il titolo deriva dalle poesie che Genji e la dama di Akashi si scambiano. Le omofonie contengono sempre una nota allegra e ironica, ad esempio quella che, nel XXIX capitolo, accomuna i concetti un po’ divergenti di monaca e pescatrice, salinaia (“ama”): quest’ultima è l’omofonia più ricorrente nella Storia.
Ancora, riporto la poesia:
“Davvero un peccato/ che la giovane pescatrice/ sia rimasta nascosta/ fino al momento di indossare/ la gonna dal lungo strascico.”
Qui compaiono un paio di omofonie: mo è la lunga gonna pieghettata, parte dell’abbigliamento formale, ma anche l’alga; kazuku è pescare, raccogliere, ma anche indossare. Il verso si può leggere sia “fino al momento di indossare il mo”; sia “fino al momento di raccogliere le alghe.”
Accade che la poesia sia talvolta meno descrittiva, perché meno adornata di commenti psicologici della stessa prosa, che appare molto più particolareggiata.
La poesia esce ogni volta spontaneamente, come partorita dalla prosa: di cui è una conseguenza spontanea. Spesso viene bissata (parto gemellare), e mai commentata (se non nelle note del curatore). I versi sono per ognuna sempre cinque, e dicono tutto, affermando nulla di concreto, ma l’ineffabile. Sono giudizi, osservazioni, descrizioni. La Verità che presentano è tanto leggera, che pare soltanto sfiorare il lettore. Si tratta di una verità sempre relativa e mai assoluta.
Non si notano soverchie differenze nel tono e nell’anima in una narrazione dove il pathos sia del protagonista che delle altre persone, appare sì espresso, come se fosse trattenuto da un certo pudore da parte della narratrice.
L’io narrante c’è e appare quando meno te l’aspetti, come nella conclusione del XV capitolo:
“Mi piacerebbe anche raccontare di quanto fosse rimasta stupita la consorte del Governatore Delegato, al momento del suo ritorno alla capitale, e di quanto Jijū fosse stata felice, pur vergognandosi del proprio animo superficiale, per non aver saputo aspettare ancora, ma mi duole terribilmente la testa al punto che temo di non esserne in grado e quindi penso che, se ci sarà un’altra occasione, continuerò allora, raccogliendo meglio i ricordi.”
Qualcosa, in tutte le 1200 e rotte pagine (contando solo il nudo testo, e non l’introduzione, le note e l’essenziale glossario), accade, senza causare traumi emotivi al lettore, ad ogni piè sospinto. All’inizio del XVIII capitolo, si scopre che “… terminata la costruzione del palazzo orientale, egli vi portò ad abitare colei che era chiamata la dama del villaggio dove cadono i fiori. L’ala occidentale, dove ella risiedeva, era collegata attraverso passaggi coperti al padiglione principale e Sua Signoria aveva provveduto che vi fosse sistemato, come si conviene, il personale addetto all’amministrazione della casa. Aveva pensato di riservare l’ala orientale alla Dama di Akashi.”
Geniale, questo Genji…
A metà del XXI capitolo, un pronome mi colpisce, nella frase: “Il giovane superò senza fatica uno dopo l’altro gli esami, a cominciare di quelli che si chiamano – mi sembra – Aspirante Letterario.” Quel mi causa in me un certo stupore per la verecondia manifestata dall’autrice. Poco dopo la stessa, parla di “una consorte appartenente ai Genji”: il cognome del protagonista. Il nome non è ancora pervenuto e forse non lo sarà mai.
Un’altra frase significativa: “… In fondo, mi sembra persona affidabile, tenendo conto che Sua Signora non dimentica mai una donna di cui a suo tempo si è innamorato.” Quindi Genji è uomo fedele, nel senso che non tradisce mai nessuna donna che ha avuto, cessando di esserle devoto.
Le poesie presentano sempre un’allegoria di tipo paesaggistico o zoologico, oppure, come in questo caso, botanico, ovvero di altro tipo. L’immagine gira attorno a un particolare e poi si ferma, come una farfalla, che sa, più degli altri insetti, sempre dove dirigersi.
La poesia che spunta dal nulla sul finire del XX capitolo semplicemente dice:
“Ora lo ignorate/ ma vi basterà chiedere per sapere/ che gli steli dei giunchi/ cresciuti alla baia di Mishima/ parlano di un legame indissolubile.”
Sua Signoria (Genji) così dice:
“Chi ha trascorso/ mesi e anni languendo/ nell’attesa di un incontro/ possa almeno oggi ascoltare/ il primo canto dell’usignolo.”
Al che la bimba risponde, collegandosi tramite lo spezzone di un verso “Nel villaggio dove non si ode la sua voce…”:
“Sono passati gli anni/ da quando se n’è andato/ ma l’usignolo/ potrà forse dimenticare/ il pino da cui è partito?”
Più oltre, Sua Signoria legge un messaggio:
“Quale sorpresa/ dal suo asilo fiorito/ di albero in albero/ l’usignolo è venuto dalla valle/ al suo nido di un tempo.”
Come si vede, l’azione non manca in questo lunghissimo e assai psicologico romanzo, così fine e maturo. La traduzione, almeno, lo mostra tale. La narrazione è ad ogni passo così completa ed esaustiva che non prospetta nessuna mutazione genetica imprevedibile, tale da far dire sovente al lettore: che (pur piccola) emozione inaspettata! Tanta profondità psicologica, tanta raffinatezza descrittiva, l’ho rinvenuta soltanto in un’ugualmente immensa opera scritta in Francia, novecent’anni dopo, da un tale di nome Marcel.
A un certo punto, poiché la “stagione delle piogge fu quell’anno insolitamente lunga e nelle ore d’ozio senza uno sprazzo di sereno le signore che vivevano a Rokujō trascorrevano il tempo dedicandosi ai racconti illustrati.”, le damigelle discettano e discorrono sull’argomento finzione narrativa. In definitiva, quelle storielle, pur mistificanti, producono piacere e recano sollievo dalla noiosa vita quotidiana. Dice Genji: “Del resto, queste storie immaginarie contengono episodi molto convincenti, capaci di attirare profondamente il lettore, quasi descrivessero fatti realmente accaduti, e anche se siamo consapevoli che si tratta di discorsi privi di fondamento ne siamo commossi e quando leggiamo di una graziosa fanciulla travolta dal dolore, il nostro cuore, sia pure solo in parte, non può non esserne peso…” e la disamina, che diventa anche gentil diatriba con una fanciulla (la figlioletta della dama di Akashi), che è tanto appassionata della buona letteratura, continua ancora per un bel po’. Alla fine, il lettore ha il piacere di incontrare, per la prima volta dal vivo “la Signora del murasaki”, (“Murasaki no ue”), eroina protagonista-autrice dell’opera, che esclama: “Come sono belli questi disegni!”
Verso la fine del XXX capitolo una frase esemplifica qual era la condizione della donna in quel tempo in Giappone. “Sappiamo che una donna è tenuta alle tre obbedienze.”: la nota spiega: sottoposta prima al padre, poi al marito e infine ai figli. Questo capitolo termina con due belle poesie.
La prima viene dal “Capitano della Guardia della Scorta Imperiale, figlio del principe Capo dell’Ufficio del Cerimoniale e quindi fratello della Prima Consorte di Sua Signoria”, ed è inviata alla Fanciulla dell’Ala Occidentale, indicata poi come Prima dama delle Stanze Interne, figlia di Tö no Chūjō e della Dama degli yūgao, conosciuta come il Tralcio Prezioso (Tamakazura), che pare destinato ad altri, nella fattispecie al Secondo Comandante e Capo della Cancelleria. Mah vedremo.
La penultima poesia del capitolo è questa:
“Per quanto cerchi/ di dimenticarmi di voi/ tale è la mia pena/ che non so come potrei fare/ e in che modo potrei agire.”
Al che lei osa replicare, tramite un messaggero:
“Nemmeno l’elianto/ che pur si volge verso il sole/ di sua volontà/ potrebbe dimenticare/ la brina che si posa all’alba.”
“Al Principe quei pallidi tratti di pennello parvero straordinari: sembrava che ella avesse mostrato di comprendere la sua pena e anche quelle poche parole bastarono a renderlo felice. In tal modo, può senza conseguenze degne di nota, ella riceveva numerose lettere piene di rammarico da parte di numerosi corteggiatori. Dicono che Sua Signoria e Sua Eccellenza giudicassero il suo comportamento degno di essere preso a modello.”
Cosa dico io? Che tutto pare un gioco complesso come quello degli scacchi, o della dama cinese, e che occorre conoscerle assai bene quelle regole per poter vincere quella sposa, conquistarla, relegarla nel proprio carniere, rispettandola e servendola per l’eternità, purché la regola delle tre obbedienze sia da lei rispettata.
Nel XXXI capitolo, si tratta una questione diversa, che però s’intreccia con quella dell’obbedienza della donna all’uomo:
“Il Principe Capo dell’Ufficio del Cerimoniale venne a conoscenza della situazione.”
“Sarebbe troppo umiliante che mia figlia seguitasse a vivere relegata in un angolo di quella casa dove verrà accolta una donna più giovane e graziosa…”
La suddetta, ormai, “appariva fragile e indifesa, emaciata, mentre i suoi capelli che un tempo erano lunghi e bellissimi si erano assottigliati e impoveriti…”
“… smunta com’era, sembrava aver perduto ogni attrattiva…”
Il Primo Comandante non vuole che lasci la casa e le dice:
“Io non mi dimenticherò mai di voi, neppure se doveste tornare alla vostra famiglia d’origine…”
“… i miei sentimenti non cambierebbero, ma andandovene vi coprireste di ridicolo e anch’io sarei mal giudicato…”
Al che la tipetta risponde:
“La vostra crudeltà non ha molto importanza. So che la mia infelice situazione è un assillo anche per mio padre e ora il pensiero di quanto soffrirebbe sapendomi derisa e umiliata mi rattrista al punto che non so come potrei presentarmi a lui…”
L’uomo le scrive una poesia:
“In una notte di neve/ dove anche il cuore/ sembra turbinare/ si ghiacciano le maniche/ di chi dorme solo.”
La dama Moki “non poté trattenersi”:
“Dalla Sofferenza/ di un cuore lasciato solo/ divampano, io credo/ le fiamme di una lunga,/ intollerabile pena.”
Al che, lui così reagisce:
“Quando una tale sventura/ turba i miei pensieri/ ancor più numerose/ si levano nubi di fumo/ di un bruciante rammarico.”
Talvolta una donna, pur di rango elevato, appare perplessa, angosciata e disgraziata, quando è costretta a scegliere a chi obbedire. Finanche quando si decide a dire: “‘Anche nei racconti di un tempo lontano, avviene che un padre amorevole, seguendo il mutare dei tempi e i suggerimenti altrui, trascuri i propri figli. A maggior ragione, una persona che non serba tracce d’affetto ed è padre solo di nome come potrebbe essere un punto di riferimento in futuro?’ disse loro singhiozzando.” Loro sono le reali ed essenziali nutrici.
Nel XXV capitolo colgo un passo significativo Genji: “si rivolse alla Terza Principessa: ‘Potremmo organizzare un concerto di sole donne, accostando il suono del vostro kin, che la Signora dell’ala orientale è così desiderosa di ascoltare, a quello di altri strumenti, come il biva e il sō no koto, suonati, suonati dalle varie signore della casa. Credo che neppure i più famosi musicisti dei nostri giorni siano all’altezza delle persone che vivono qui. Benché io non abbia ricevuto un’istruzione particolare nei segreti della musica, fin da quando ero bambino ho pensato di voler conoscere tutto ciò che era possibile, e ho cercato di apprendere i segreti di tutte le persone più esperte, i maestri che il mondo ritiene tali e i virtuosi delle maggiori famiglie, ma fra di essi non ho trovato nessuno la cui competenza fosse così profonda da mettermi in soggezione. A differenza di quel tempo, oggi i giovani tendono a seguire la moda, a dirsi grandi arie di intenditori con il risultato che la loro musica appare superficiale.’”
Mi arrogo di affermare che tale discorso mi è apparso più simile ai nostri odierni che a quelli tipici dell’Europa letteraria del XI secolo (che, sinceramente, ignoro in toto), dove la cultura era costretta al ristagno in immoti e papeschi lidi. Nel corso dell’intero romanzo, il lettore occidentale prova l’ammirazione che sorge in chi si accorge della propria inadeguatezza culturale. La civiltà qua rappresentata è del tipo lentamente ma inesorabilmente in fieri, in posizione più avanzata rispetto al recente passato e più arretrata, si intuisce, che all’immediato avvenire. E continua:
“… quando mandò a chiamare il figlio, le varie signore si prepararono con un certo disagio a suonare in sua presenza. Con la sola eccezione della Dama di Akashi, erano tutte state fra le sue allieve predilette e quindi non avrebbero fatto brutta figura anche in presenza del Primo Comandante, si disse Sua Signoria. Per la Consorte Imperiale non vi erano problemi, essendo ella abituata a suonare insieme ad altri, anche alla presenza di Sua Maestà, ma per ciò che riguardava il koto giapponese si sentiva un po’ in ansia, dal momento che pur avendo questo strumento una gamma limitata, non esistevano modelli prefissati di esecuzione, e una donna avrebbe potuto trovarsi in difficoltà, e inoltre, poiché all’inizio dell’anno nuovo gli strumenti a corda venivano suonati in concerto, temeva che il suono del koto giapponese potesse risultare stonato.”
In effetti si tratta di problemi esistenziali mica piccoli.
Io sogno l’impossibile, che potrebbe realizzarsi in un mondo migliore di questo: la realizzazione di un manga semi-infinito ispirato dalla “Storia di Genji” e del conseguente anime (e poi scopro, ovviamente, che sono stati realizzati anni fa, nella millenaria ricorrenza dell’uscita del romanzo), che dovrebbe durare decine di anni e accompagnare la vita di una persona dall’infanzia all’età matura, da non sorbirsi affatto in una full immersion non stop performance, che smorzerebbe impietosamente ogni resistenza umana, ma un quarto d’ora al giorno, o alla mattina presto o poco prima di addormentarsi (meglio la prima ipotesi).
Esempio: una singola puntata si potrebbe concludere alla fase della storia da dove escono queste parole: “Le persone magnanime godono di una fortuna generosa, quelle di mentalità ristretta hanno un destino adeguato e anche se conquistano posizioni elevate non trovano spazio sufficiente, le persone impazienti non conservano a lungo i risultati raggiunti, mentre invece quelle serene e tranquille sono favorite da una lunga vita,” così “disse Sua Signoria proclamando davanti a divinità e Buddha quanto i suoi meriti sono eccezionali e leggero il carico delle colpe passate.”
Verso la fine del manga, cioè del XXXV capitolo, una serie di immagini rutilanti e leggerissime: “Essi avrebbero preso posto nel passaggio coperto che conduceva al Padiglione della Pesca sul lato sudorientale, e quando avanzarono lungo il giardino principale, partendo dal lato sud della collina artificiale ed eseguendo il brano chiamato Sen’yūkai, il volteggiare ormai leggero di qualche fiocco di neve ricordava che la prima vera non era più molto lontana, mentre i primi fiori di susino cominciavano a sbocciare.”
In conclusione del XXXIX capitolo, una scelta decisamente erotica sorprende un lettore incantato dalle più suadenti levità: “L’interno era avvolto nella penombra, ma un po’ di luce filtrava rivelando che ormai il sole era sorto, ed egli scostò la veste sotto cui ella si era nascosta, le accarezzò i capelli penosamente in disordine e infine poté guardare il suo volto.”
In Occidente dovremo aspettare altri sette secoli per competere con tanto ardore letterario e non solo tale, con quell’immenso artista che pochissimi hanno letto, Giacomo, il libertino veneziano, di cui il Primo Comandante e lo stesso Sua Signoria Genji sono gli illustri precursori, di cui il Casanova è un altrettanto degno epigono.
Sua Signoria è molto sensibile alla bellezza: “… e mentre si scambiavano queste parole le due donne apparivano di una bellezza così perfetta, così ideale che egli si augurò che quella scena potesse durare mille anni, ma ben sapendo che ciò era impossibile, si disse con infinito dolore che non vi era mezzo di trattenere la vita umana.”
Sono d’accordo con te, caro il mio Genji, ma ricordati sempre l’immenso, incommensurabile, insuperabile, infinito, eterno e mai abbastanza celebrato verso di John (Keats): “A thing of beauty is a joy for ever.”
Nel corso del XL capitolo, la signora del Murasaki (Murasaki no ue) ci lascia, recandovi dove molti l’hanno preceduta, causando grande dolore ala comunità e al povero Sua Signoria Genji. Il quale, nel suo star male, rimugina le sue colpe: “… ricordava come talvolta ella si fosse sentita offesa da qualche sua storia d’amore, che pure non sarebbe durata a lungo, e allora si chiedeva perché mai avesse dimostrato tanto interesse per altre donne – sia che si trattasse di un gioco, sia che fosse una storia intensa e dolorosa – e per quanto ella, sensibile com’era, avesse intuito i suoi pensieri più nascosti, non aveva ai mostrato rancore, ma nonostante ciò, senza dubbio si era chiesto ogni volta cosa ne sarebbe stato di lei e questo pensiero in qualche modo l’aveva tormentata; e mentre egli rifletteva su tutto ciò con amarezza e rimpianto, gli sembrava di non poter contenere nel cuore la sua emozione.”
Con tale rimpianto termina la vita dell’autrice del libro, ma non dell’intera storia da lei narrata, che continua per altri quindici capitoli. Un simile onore non spetta mai a un autore occidentale. Potenza del taoismo e dello shintoismo sacralmente uniti!
Tra il XLI capitolo e il XLII muori tu, mio vagheggiato e variegato amico, Sua Signoria Genji. Il titolo del XLI<>XLII è “Nascosto dalle nubi”. Solo questo rimane. Né si sa se fu mai scritto e se andò irrimediabilmente perduto.
In tale caso R.I.P. sia Sua Signoria che il Suo Molto Onorevole Capitolo Fantasma.
Gli ultimi capitoli riguarderanno l’amicizia antagonistica fra Niou (figlio di Kinjōtei, imperatore in carica), nominato a sua volta Principe Capo degli Uffici degli Affari Militari e Kaoru, ritenuto da tutti figlio del defunto Genji e della Terza Principessa, che fu invece fecondata dal Capitano della Guardia di Palazzo Kashiwagi.
Scorrendo la presentazione del XLIV, noto quello che non avevo ancora focalizzato del tutto il fatto che le donne hanno nomi di tipo residenziale-abitativo, tanto per capirci: la Prima Dama delle Stanze Interne; la Principessa del Padiglione del Glicine; la Signora dell’Ala Nord, oppure un titolo che indica un potere che si intuisce di origine maritale: Imperatrice che ama l’autunno, che ovviamente è soltanto coniuge di Principe; la Consorte del Sovrano in ritiro.
Gli uomini hanno per nome un titolo onorifico che indica il loro grado di potere: Il Gran Consigliere (figlio del Gran Ministro in ritiro, consorte della figlia del Gran Ministro Higekuro), che diventa Gran Ministro della Destra, nonché Primo Comandante della sezione Sinistra; il Sovrano del Reizhen (Imperatore in ritiro); il Gran Ministro della Destra, poi nominato Gran Ministro della Sinistra, padre del Gran Funzionario della Cancelleria e Terzo Comandante della Guardia Imperiale, poi nominato Secondo Comandante; l’Ufficiale del Quarto Rango di Corte, poi nominato Secondo Comandante della Sezione Destra, quindi, Secondo Consigliere; il Secondo Comandante della Sezione Sinistra della Guardia Imperiale; il Secondo Sovrintendente della Destra.
A conti fatti: una donna è quello che le viene concesso (magnanimamente) d’essere. L’uomo è quanto gli viene delegato avere in quanto Portatori di Funzione e di conseguente Potere: quello che gli viene imposto di comandare.
Per dare una forse più chiara idea, colgo questo brano nel capitolo suddetto: “Anche i figli della Prima Dama – il Secondo Comandante della Sezione Sinistra della Guardia Imperiale, il Secondo Soprintendente della Destra e l’Ufficiale di Corte – s’incamminarono assieme a Sua Eccellenza il Gran Ministro della Destra e la magnificenza di quel corteo era davvero eccezionale.” Va da sé che l’unica funzione connessa alla prima dama era stata di partorirli.
In vari punti del racconto, viene commiserato chi non ha figli o ne ha al massimo un paio. L’uomo è tale se è padre, la donna è tale se è madre. All’uomo però spettano ben altre cariche e onori. Noto che, scomparso Sua Signoria, sembra che il libro poco aggiunga o, meglio, poco mi faccia reagire. Ogni tanto la consueta perla, tratta dal XLVII capitolo: “… perché quella casa, così angusta, non avrebbe offerto alcun rifugio al fiore di yamanashi.” Nella nota della straordinaria curatrice-traduttrice Maria Teresa Orsi, la sorpresa: il tutto deriva da un’antica poesia.
“Yo no naka o/ ushi to iitimo/ izuko mi ka/ mi o ba kakusamu/ yamanashi no ama”
“Anche se questo mondo/ può sembrare odioso/ in quale luogo/ potrà trovare rifugio/ il fiore di yamanashi.”
Ma le sorprese non sono ancora fuoriuscite del tutto da quell’aulente fiore: lo yamanashi è una specie di pero montanaro, d’alto fusto, che produce a primavera piccoli fiori bianchi a cinque petali. Yamanashi è anche, e qui sta il bello nel bello, omofono di yama nashi: “non vi è montagna, non vi è luogo, non vi è rifugio”
Poco oltre, una frase ben poco femminista: “Comunque sia egli è così splendido che al solo vederlo le rughe dei nostri volti sembrano spianarsi, e perché mai la nostra signora dovrebbe tenere a distanza una simile persona? Non sarà per caso vittima di quella spaventosa divinità di cui spesso si parla?” – la curatrice spiega che, secondo la diceria popolare, una donna matura non sposata era posseduta da un demone malevolo. Questi demoni, fatto che si coglie in vari punti della Storia, colpisce, invariabilmente, solo le creature femminili.
Una giovane donna è un prezioso, splendido e agognato animale da (sontuoso e idealizzato) corteggiamento, da monta, da fecondazione, da, pur previdentemente protetto, abbandono.
Sua Signoria non si scorderà mai delle sue pregresse amanti.
Nel XLIX capitolo la Consorte Imperiale, (ex Signora del Reikeiden, dal nome del padiglione della casa che l’ospitava) madre di una sola figliola, viene paragonata all’Imperatrice, ch’era adornata da una molteplice prole: “Ella si era profondamente rammaricata del proprio infelice destino che aveva voluto fosse messa in ombra…”
La Principessa Aoi, nel IX capitolo, dando alla luce il figlio di Sua Signoria, si spegne, posseduta dallo spirito maligno della dama Rokuiō, antica e gelosissima pregressa amante di Sua Signoria: queste o analoghe erano le consuete spiegazioni le morti avvenute in seguito a gravidanza. Nel XXXV capitolo il capitano della guardia sogna il gattino prediletto della Principessa e si preoccupa: sognare un animale significa che presto nascerà un bebè. L’elemento romantico e quello bestiale qui s’incrociano magicamente.
Nel XXXIX capitolo, Kokōshō “… in cuor suo sperava che egli facesse quella sera una seconda visita, ma ora, vedendo che forse non sarebbe venuto, fu presa dall’ansia.” Da ricordarsi che solo se per tre notti un uomo (in questo caso Sua Nobiltà il Primo Comandante), il rapporto non era ancora ufficializzato: la donna era in nero e in attesa di essere regolarizzata. La donna doveva essere sempre pronta alla bisogna (già dalla prima sera; poi doveva solo sperare). Nel capitolo XXXIX capitolo si legge ancora che il Primo Comandante “… si sentiva un po’ come il fagiano della montagna…”, il quale normalmente dorme fuori dal nido della sua femmina. Le femmine, quelle umane soprattutto, devono rimanere, specie di notte, presso il focolare.
Nella prima metà del XLIX capitolo, un periodo interminabile che stupisce e inebria il lettore. E non so se ce la farò a scriverlo tutto, tanto è immenso:
“Fin da quando erano bambine, lei e la sorella avevano condotto un’esistenza infelice, affidate solo alle cure di un padre che sembrava non avere alcun legame con il mondo, e avevano trascorso lunghi anni in quel villaggio sperduto tra le colline, ma nonostante la solitudine e la malinconia, ella non aveva così profondamente avvertito l’amarezza della vita, e poi quando erano sopraggiunte, una dopo l’altra, quelle disgrazie che mai si sarebbe aspettata, si era convinta che non avrebbe potuto vivere un solo istante di più e che nulla era paragonabile al dolore e alla nostalgia che provava, eppure era sopravissuta fino a quel momento, fino a condurre un’esistenza del tutto normale, più di quanto la gente mai avrebbe immaginato – anche se ciò non sarebbe durato a lungo, ne era certa – e fintanto che erano assieme, Sua Altezza si era mostrato così premuroso e gentile che poco per volta i suoi timori si erano attenuati, ma ora, dopo quello che era successo, la sua infelicità era tale che non vi erano parole ed ella non riusciva a pensare ad altro se non che era ormai la fine di tutto, e se in passato aveva creduto di poterlo incontrare sia pure di tanto in tanto – a differenza di quanto avveniva con il padre e la sorella, scomparsi per sempre – quella notte, dopo essere stata abbandonata in quel modo, ogni cosa, il passato e il futuro si confondevano nella sua mente e la sua desolazione non trovava conforto: era troppo crudele!”
Pfuii! Che fiatone!
Anche Joyce avrebbe sicuramente incominciato ad ansimare a leggere l’intero passo, ad alta voce e senza far pausa. Che dire, se non che l’autrice era mille anni luce avanti, rispetto alla migliore letteratura del mondo occidentale del suo tempo!
Verso la fine del XLIX capitolo, una piccola sorpresa, colei che sta scrivendo il romanzo afferma, a proposito di opere mediocri e all’antica: “… non mi è sembrato valesse la pena di trascriverle tutte…” Più tardi, a proposito della solita, sublime poesia: “Quest’ultima probabilmente era stata scritta dall’adirato Gran Consigliere, ma forse potrei aver capito male. Comunque, sembra che fossero poesie di scarso interesse.”
Non so se nel testo originale si possa evincere il sesso di chi sta ora scrivendo, immagino sia sempre una donna, non certo defunta, però. Se mi capitasse d’incontrare un giorno la traduttrice Maria Teresa Orsi, glielo domanderei senz’alcun dubbio.
Il XLII capitolo, come i precedenti, tra un pianto e l’altro, per vari motivi, fra cui la morte di una delle due non troppo felici sorelle, si assiste alla “lettura e ai riti dedicati giorno per giorno alla memoria di Sua Signoria Genji e alla Signora del Murasaki”, autrice forse anche di queste pagine, che furono “particolarmente solenni e grandiosi.”
Una frase che, come tante altre, pare caduta dal cielo per puro caso mi fa compiere un ragionamento: la somiglianza fra quel mondo lontano e il nostro, fra la loro e la nostra Storia è che panta rei, tutto scorre, e si evolve. Quel che diverge è l’intensità e la frequenza del mutamento. La cultura greca è stata raccolta, salvaguardata e, al contempo, modificata da quella romana, poi capitò l’accidente cristiano che portò ai secoli oscuri che precedettero l’anno Mille, poi sorse, come d’incanto, un dolce stil novo, da cui scaturì l’umanesimo e il Rinascimento, poi il Manierismo, il Barocco, ove ogni artista e poeta gareggiò con i suoi Maestri e andò oltre, compiendo balzi, e a volte procurandosi cadute rovinose, poi tornò il Classicismo, che venne stroncato dal Romanticismo, dal Simbolismo, tanto che viene da chiedersi non se Petrarca e Rimbaud siano stati colleghi, ma addirittura esemplari della stessa specie animale. Glisso sulla successiva arte e poesia moderna, citando solo due nomi, Edoardo Sanguineti e James Joyce, che un po’ si assomigliano nell’espressione e nei tratti del viso. Non aggiungo altro perché, diversamente, dovrei raddoppiare quanto finora scritto. In Giappone ogni cosa muta, ogni mattina, aspetto, ma con una certa qual grazia e un doveroso rispetto verso il passato, anche se: “Gli altri strumenti tacquero ed ella, convinta che ciò avvenisse perché ciò avvenisse perché si potesse ascoltare meglio la sua musica, continuò a pizzicare le corde con il plettro in un modo del tutto antiquato, mormorando: “Takefu, chicri, chichiri, teritana.” Modo antiquato, ma rispettabilissimo.
Alcuni mesi fa lessi la “Vita Nuova” di Dante che, al confronto, pur geniale, mi pare una, per fortuna corta, serie di balbettii. Dante, poi nella “Commedia” andò mille miglia oltre, perché era un genio, ma nell’opera suddetta, evidentemente, come Troisi, cominciava veramente da tre.
Questa non sintetica ma spesso icastica “Storia di Genji”, si conclude senza più in essere sia il protagonista, sia l’autrice, però allorché si compie un miracolo, che più raffinato non può essere e che occorre leggere soltanto le 1235 pagine del testo per poter cogliere: lo consiglio a chiunque disponga di un lungo tempo, è un’esperienza davvero straordinaria!
Di quello che accadde dirò soltanto l’essenziale: c’entra anche qui una donna e, conseguentemente, un demone “qualche tengu o qualche spirito del bosco deve averla stregata e condotta laggiù”. Laggiù, in fondo alla storia, che mi accompagnato per non più di sessantotto, quasi eterni, giorni. L’ho finito l’8 marzo 2020.
Riporto, a mo’ di concia, solo alcuni titoli dei capitoli: “L’arbusto di saggina, La spoglia della cicala, il fiore di yūgao, La giovane pianta del murasaki, La festa delle foglie d’autunno, la festa delle foglie di aoi, l’albero di sakaki, e per ultimo, Il ponte dei sogni”.
In tutto sono XLIV, alcuni, pochi, brevissimi, altri quasi interminabili.
Chi scrisse tale inaudita opera fu, forse, una Femmina nata in Giappone nella seconda metà del X secolo. Se non lei, chi? La traduttrice è, repetita iuvant, la magnifica Maria Teresa Orsi, a cui porgo la mia personale nonché infinita stima.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Murasaki Shikibu, La storia di Genji, Einaudi, 2012, a cura di Maria Teresa Orsi
Info
Il Genji monogatari (源氏物語 lett. “Il racconto di Genji”) è un romanzo dell’XI secolo scritto dalla dama di corte Murasaki Shikibu vissuta nel periodo Heian, considerato uno dei capolavori della letteratura giapponese così come della letteratura di tutti i tempi. I critici letterari si riferiscono ad esso come al “primo romanzo”, il “primo romanzo moderno” o il “primo romanzo psicologico”. Grandi scrittori giapponesi di ogni epoca si rivolsero al Genji Monogatari come fonte d’ispirazione letteraria prettamente nazionale; anche alcune tra le opere più conosciute del Teatro Nō traggono il loro tema dal romanzo (come ad esempio Aoi no Ue, La principessa Aoi), e divenne presto oggetto di commenti filologici e critici da parte dei maggiori autori e studiosi giapponesi. In epoca moderna sono stati numerosi gli scrittori di primo piano che hanno rivalutato l’opera apprezzandone modernità e complessità e si sono dedicati alla sua traduzione in giapponese moderno; tra di essi Akiko Yosano, Enchi Fumiko, Jun’ichirō Tanizaki e Yukio Mishima. Fonte Wikipedia.
4 pensieri su ““La storia di Genji” di Murasaki Shikibu: il romanzo capolavoro dell’Anno Mille, scritto da una dama di corte giapponese”