“Kafka sulla spiaggia” di Haruki Murakami: recensione balneare

Murakami Haruki, conosciuto anche come Haruki Murakami (in Giappone e a Reggio Emilia si dice sempre prima il cognome e poi il nome) nasce (tutti i dì, come il Sol levante) a Fushimi Ward, Kyoto, Prefettura di Kyoto, il 12 gennaio 1949.

Kafka sulla spiaggia di Haruki Murakami
Kafka sulla spiaggia di Haruki Murakami

È sposato dal 1971 (eh, tieni botta!) e ha due figli: Chiaki e Miyuki. È stato tradotto in 50 lingue ma purtroppo non ancora in reggiano. Confido però in Denis Ferretti, che ha già tradotto Casa d’altri di Silvio D’arzo. Se questo mio sogno s’avverasse, si potrebbe dire che è stato tradotto in più di 50 lingue. L’unico che può farlo senza eccessivi problemi è proprio lui, Denis. Ma prima dovrà imparare a gestire quegli strambi ideogrammi messi tassativamente in verticale.

Haruki Murakami, almeno fino a stamattina, non ha ancora vinto il Nobel, anche se tutti gli anni è lì lì, come lo fu, fino a morte compresa, Jorge Borges. Quando questo succederà ne sarò contento come una Pasqua Nipponica. Franz Kafka non lo vinse mai, per quei suoi tragici problemi di salute. Ma lo meritava più di tanti altri. Anche Moravia e un sacco di altri inclìti autori.

Kafka sulla spiaggia è la sua opera più citata nonché celebre (essendo la più citata). Giuro che, da parte mia, non citerò nella mia reazione né mia mamma, né Jiddu Krishnamurti, né Arthur Rimbaud, né Carmelo Bene, né Henry Miller, né Hugh Everett III, né Guido Morselli, né il mio quasi adorato personal thelogian, il solito fraticello Padre Aldo Bergamaschi; anche se, di fatto, l’ho appena fatto.

Secondo voi Haruki Murakami ha mai vinto il Premio Frank Kafka? Sì! Nel 2006, quattro anni dopo Kafka sulla spiaggia… dopo di cui (s’è dovuto aspettare un biennio) Kafka sulla spiaggia è stato tradotto in italiano. Si dice (ma io non lo penso) che questo romanzo sia la risposta banzai a Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Márquez, essendo entrambi i romanzi avvolti in una specie di magico realismo. Boh! Ovviamente nel romanzo si parla sia di Kafka, con numerosi accenni e riporti, che di una spiaggia, ma non è questo il punto.

Di lui ho letto Norwegian wood Tokyo Blues e Il mestiere dello scrittore. Dopo di cui, come anche dopo aver divorato con passione Confessioni di una maschera di Yukio Mishima, ho scoperto ma non compreso un fatto singolare: gli autori nipponici amano tanto la letteratura occidentale; per cui faccio fatica a capire perché io mi diletti così misteriosamente di quella orientale. Forse una ragione risiede nel fatto che ‘sto gianico ed escheriano pianetino è fatto a scale e io mi chiamo Pioli.

Come nel successivo romanzo dal titolo troppo lungo che ho pure letto, anzi come tutti i romanzi che abbiano almeno due capitoli, vi sono i dispari che narrano una storia e i pari che ne narrano un’altra. Questo capita anche a I Promessi Sposi, dove ogni capitolo è diverso dal precedente. Anche a Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana e al primo romanzo occidentale della storia (a parte il Decameron di Giovanni Boccaccio che narra di decine di storie a sé, più la cosiddetta cornice): Don Chisciotte della Mancia, che però è stato scritto mezzo millennio dopo La storia di Genj di Murasaki Shikibu.

Quando i nipponici non ci copiano significa che sono molto più avanti di noi. Ma qui (in Kafka sulla spiaggia) si tratta davvero di storie che poco hanno (che paiono aver poco) a che fare l’una con l’altra, a parte il fatto che è lo stesso autore ad averle scritte e che poi, forse, prima o poi si collegheranno. Fors-fortis per Cicerone e Plauto (per i latini in genere) era l’opportunità, che varia a seconda de Il caso e la necessità. Così pare garantire Jacques Monod.

Il Kafka di cui si parla nei dispari si chiama Tamura Kafka, ma quale sia il suo nome e cognome lo so ma non voglio rivelarlo (sennò non leggereste il romanzo: vi prego, fatelo, e non limitatevi a guardare su zia Wiki). Mi ricordo che, per disperatamente fuggire dal suo destino, egli piglia un autobus. Anch’io lo facevo quando marinavo la scuola (a Reggio si dice far focaccia, ma il termine originale è fêr fugâsa, mentre a Salerno è fare filone, che dà pure entrambi i sensi, del pane e del darsela a gambe.

Tamura sta scappando da ciò che Qualcuno gli ha profetizzato, essendo sancito dal rio destino.

Il Destino, rispetto al Fatal Fato, dà sempre una possibilità di andare per i c…, ehm, per i fatti propri, ma tu pensi davvero che un ago vada volontariamente a finire in un pagliaio e che una pagliuzza abbia la sua bella libertà di scelta e di senso quando tira il vento? A Rèş, quando il vento è grosso e tira per almeno tre giorni, si dice che è ‘na vèinta, femmina. Il perché non so, ma ‘na s-ciâfa (sberlona) fa sicuramente più male d un s-ciâf (sberla semplice). Solo per i peti è esattamente e aulentemente il contrario: scurèşa, scurşòun.

Uno degli interlocutori di Kafka Tamura condivide la sua conoscenza con un suo doppio che si chiama Corvo (si sappia che in ceco kavka vuol dire taccola). A me un compagno di classe di nome Mario, per offendermi dato che avevo il naso più grosso del resto della faccia, mi chiamava sparviero, ma questo in seconda media quando leggevamo le favole di Fedro che avevano un accipiter per protagonista. Emilio invece lo chiamava pulcino. Mario divenne poi veterinario. Tanto per dire il rio destino.

Il suo primo rapporto sessuale (non di Mario, ma di questo Kafka) non si sa se ci sia stato davvero o se sia stato solo sognato, forse mezzo e mezzo. Il mio primo coito sono certo d’averlo sognato verso le tre di notte (o le quattro di mattina, non ricordo bene). Ricordo solo che mi giravano contemporaneamente le sclere e i cabasisi, ma no dai, sto scherzando. Non troppo, però.

In quelli pari (intendo i capitoli, non i cabasisi che solo Bartolomeo Colleoni si dice ne avesse un numero dispari) spicca la figura d’un anzianotto di nome Nakata, cognome o nome?, non ricordo o non c’ho badato.

A lui, come anche a me, è capito di sbattere la testa da piccolo, per cui pare un po’ ritardato. Io stavo andando a catechismo tredici giorni dopo che era nata la mia futura moglie, ora non più tale, quando fui investito da un’auto sbadata e sbandata, il cui autista poi si costituì, pur negando di andar forte, e questo mentre ero sulle strisce, e nell’attimo in cui, presumibilmente, un angelo mi suggerì quel colpo di reni che riuscì a salvarmi la pellaccia, poiché alla fine limitai gli effetti dell’impatto, per cui non ce la feci a trasvolare Lassù, ma sono ancora qui, e scrivo articoli, e mica ho tanti problemi neurologici (spero).

In realtà Nakata più che altro era stato picchiato dalla maestra, non era cioè malamente caduto (di nuca, che ho ancora il segno della cicatrice) come me, e la docente si sentì sempre in colpa per quanto accaduto. Forse anche quel guidatore distratto. Io ero quasi giornalmente battuto sulle nocche con una riga dal mio maestro, che però non credo si sia mai sentito in colpa, anzi, dovevamo dirgli grazie… ma adesso basta parlare di me, e sarà un po’ dura, conoscendomi!

Un tipo che ha il nome di un wiskey ama rapire i gatti per succhiar loro l’anima. Invece nel mio condominio, negli anni ‘70, c’era un tipo che chiamavamo al magnagât e indovinate un po’ di che amava cibarsi…

Non voglio però dir più nulla intorno la trama del romanzo di Haruki Murakami a dir si voglia, per non fare altri spoiler, ma anche perché è un casino, credetemi. Accenno soltanto a un’innocente (ma criptica, essenziale ed esiziale) banalità: la profezia alla fine s’avvera. Quando le profezie s’avverano non ci sono né santi né madonne e si giunge ogni volta a una pur provvisoria e occasionale fine (detta sosta fatale).

Avendo appena letto quest’opera disordinata ma accurata, accuratamente disordinata cioè, dove la stessa entropia, un po’ ex-agerata, è posta in un ambito ben circoscritto (che consta di poco più di un mezzo migliaio di pagine scritte fitte fitte), ho deciso di dare una certa dirittura, non solo etica, a questa mia reazione.

Inizio coi dati biografici e temporali. Ah, scusate, già li avevo scritti! Che stupido! Come quel vecchietto, insomma: a sûn propria caschê dal scranòun da cèch! E po’ ânca dla scrâna nurmêla! Nurmêla as fa per dîr! Insomma, a me mi ha rovinato la forza di gravità, ma anche l’entropia non mi ha risparmiato più di tanto.

Che dire di Kafka sulla spiaggia di Haruki Murakami, immenso e variegato chö (dai, amigo, va’ pure a cercare sullo zietto traduttore!) d’un immenso e variegato quartiere di Tokio? Forse soltanto che appare ciò che appunto è: un immenso e variegato “chö” (ora forse capirai, o forse no: dipende da te ormai), di un immenso e variegato quartiere di Tokio.

Haruki Murakami citazioni
Haruki Murakami citazioni

L’opera pecca di sintesi. Eccede in analisi. L’autore dice tanto, ma esso non è (affatto) tutto e non è (affatto) definito. Evoca. Non definisce, ma si limita a stabilire contorni, in cui il Tutto è contenuto. Descrive ogni cosa nei suoi estremi particolari. Non ne tace alcuno. Non può farlo. Significherebbe scegliere. Dividere ciò che vale da ciò che non vale.

Non è il libro più bello che abbia mai letto. Né è il più brutto. Poco ha a che fare con i presunti e non assunto obbligo di dover giudicare tutti i libri e tutte le attività umane, dividendoli (assai arbitrariamente) in belli e brutti, in buoni e cattivi, in bianchi e neri.

Il romanzo in parola non ha etica, né estetica. È una costruzione di un edificio abitato da esseri che (generalmente) non si pongono al di qua del bene e del male, del bello e del brutto. Ma nemmeno al di là. Questi concetti appaiono appena, ma sfumano immediatamente nell’ineffabile. Il tutto è ridotto a un immenso e variegato chö di un immenso e variegato quartiere di Tokio. Il personaggio più significativo del libro, il vero eroe, è un essere vuoto, a suo stesso dire, un hollow man direbbe Thomas S. Eliot. Il quale ignora il concetto stesso del ricordo. Che non esprime opinioni, giudizi. Perché non ne ha. Mah! La faccenda è però un po’ dubbia… Il dubbio, per fortuna, non m’abbandona mai: esso mi ama!

Il compito di decidere spetta, ma solo se vuole, al (prossimo) lettore. Io mi astengo, però. Cui prodest? Nescio.

E soprattutto rinnego tutto quanto ho appena sapidamente segnalato. Lo giuro. Giura spergiura che la m…a è dura! Rôsp infiê. A i ò béle giurê!

E sono davvero contento che sono stato finalmente capace di scrivere una vera recensione, sintetica, non troppo p(i)olissa, scevra di eccessive piolate, e soprattutto priva di piolistici riporti!

Oh no! Uno alla fine c’è: quel maledetto, intricatissimo, intrigantissimo “chö” di un maledetto, intricatissimo, intrigantissimo quartiere di Tokio!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Haruki Murakami, Kafka sulla spiaggia, Einaudi, 2013

 

Info

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