“Lettere” di Epicuro: non si è troppo giovani o troppo vecchi per la salute dell’anima

“Empio non è chi non riconosce gli dèi del volgo, ma chi agli dèi applica le opinioni del volgo. Perché non sono prenozioni, ma ingannevoli supposizioni i giudizi del volgo sugli dèi. Da ciò si attribuiscono agli dèi i più grandi danni e vantaggi. Essi in realtà, dediti soltanto alle virtù loro proprie, accolgono i loro simili, reputando estraneo tutto ciò che non è tale.” ‒ Epicuro

Epicuro citazioni
Epicuro citazioni

Epicuro (in greco antico: Ἐπίκουρος con il significato di “alleato” o “compagno, soccorritore”) nasce nell’isola di Samo nel 341 a.C. e muore ad Atene nel 270 a.C. Fu discepolo del filosofo scettico Nausifane.

Epicuro fondò a soli 32 anni una delle più fortunate e longeve scuole filosofiche diffusa dal VI secolo a.C. sino al II secolo d.C. per poi essere ripresa durante l’Umanesimo ed il Rinascimento sino ad arrivare a noi.

L’epicureismo è chiamato anche “filosofia da giardino” perché la casa che Epicuro aveva acquistato ad Atene era provvista di un giardino dove si seguivano le lezioni. Uomini, donne e persino schiavi potevano seguire le lezioni di Epicuro studiandone i suoi scritti. Teorizzò l’uguaglianza fra gli esseri umani ed entrò in polemica con le dottrine di Platone, Aristotele, con i cinici, con lo stoicismo con i megarici, con i cirenaici.

Ebbe in vita una grande fama che come spesso avviene procura anche molta invidia. Furono svariati i suoi detrattori che, oltre a calunnie verbali, arrivarono a pubblicare anche false lettere sotto il nome di Epicuro, tale è il caso dello stoico Diotimo e delle cinquanta epistole scandalose. Come riporta Diogene Laerzio (180 ‒ 240) ne “Vite dei filosofi” il filosofo Timone di Fliunte (320 a.C – 230 a.C.) così si espresse: “Ultimo dei fisici, il più porco e il più cane, venuto da Samo, maestro di scuola, il più ignorante dei viventi.” Ed ancora lo stoico Posidonio e Dionisio di Alicarnasso sostenevano che Epicuro andasse in giro con la madre per recitare formule espiatorie a casa della povera gente per una paga irrisoria.[1] Anche Epitteto lo denigrò chiamandolo “cinedòlogo” cioè “predicatore di sconcezze”.

Diogene Laerzio, dopo aver passato in rassegna nel Libro X i rivali di Epicuro, scrive:Ma la follia di questi critici è evidente. Perché il nostro uomo ha sufficienti testimoni della sua invincibile probità di sentimenti verso tutti: la patria che l’onorò con statue di bronzo; gli amici il cui numero fu tale che non potrebbero essere rintracciati e contati in intere città; tutti coloro che lo frequentarono intimamente, legati dalla catena del fascino ‒ quasi delle sirene ‒ della sua dottrina, […] l’ininterrotta continuità della sua scuola che, mentre quasi tutte le altre si sono spente, sempre dura e l’innumerevole schiera di discepoli che trasmettono l’uno all’altro lo scolarcato; […] Le parole non riescono a rappresentare la profondità della sua disposizione verso gli dèi e di amor di patria. E per eccesso di moderazione non prese neppure parte alla vita politica”.

Il filosofo del Giardino[2] Tito Lucrezio Caro (presumibilmente 94/93 ed il 50/49 a.C.), diventato suo fervente seguace, lo celebrò nel poema didascalico in sei libri “De rerum natura” nel quale si annunciano cose inaudite ed il guardare/vedere eventi atroci diventa “dolce” perché il filosofo, in stato atarassico[3] (ἀταραξία con il significato di “assenza di agitazione”, “imperturbabilità”) abita “gli elevati templi sereni” in autarkes (αὐτάρκεια, con il significato di “bastevoli a se stessi”) officiando la solitudine propria del motto epicureo láthe biósas (λάθε βιώσας, con il significato di “vivi nascosto”) lontani dal πόλεμος ‒ lotta, guerra, contesa ‒ tipica della società che cerca “senza meta la via della vita” con “gare di intelligenza” “per impadronirsi del potere”.

Dal libro “Lettere ‒ Sulla Fisica, sul cielo e sulla felicità” (Fabbri Editori) abbiamo selezionato un estratto tratto dalla lunga Lettera a Meneceo.

Estratto da Lettera a Meneceo

Epicuro saluta Meneceo.

Non aspetti il giovane a filosofare, né il vecchio di filosofare si stanchi: nessuno è troppo giovane o troppo vecchio per la salute dell’anima. Chi dice che non è ancora giunta l’età di filosofare o che è già trascorsa, è come se dicesse che non è ancora o non è più l’età per essere felici. Cosicché devono filosofare sia il giovane, sia il vecchio: questo perché invecchiando rimanga giovane nei beni, per il ricordo gradito del passato; quello perché sia insieme giovane e vecchio, per l’assenza del timore di fronte al futuro: bisogna dunque esercitare ciò che procura la felicità, perché se abbiamo questa, abbiamo tutto, ma se manca, facciamo di tutto per averla.

I precetti che ti ho continuamente raccomandato mettili in pratica ed esercitali, ritenendoli il principio fondamentale di una vita felice. Per prima cosa considera la divinità un essere immortale e beato, come la comune nozione del divino suggerisce, e non attribuire a essa nulla che sia estraneo all’immortalità o diverso dalla beatitudine: anzi, pensa riguardo a essa tutto ciò che possa conservarne la beatitudine congiunta all’immortalità.

Gli dèi esistono: perché la loro conoscenza è evidente; ma non esistono nel modo in cui i più li concepiscono, perché non conservano la nozione che ne hanno. Empio non è chi non riconosce gli dèi del volgo, ma chi agli dèi applica le opinioni del volgo. Perché non sono prenozioni, ma ingannevoli supposizioni i giudizi del volgo sugli dèi. Da ciò si attribuiscono agli dèi i più grandi danni e vantaggi. Essi in realtà, dediti soltanto alle virtù loro proprie, accolgono i loro simili, reputando estraneo tutto ciò che non è tale.

Abìtuati a pensare che la morte per noi è nulla: perché ogni bene e ogni male risiede nella possibilità di sentirlo, ma la morte è perdita di sensazione. Per cui, la retta conoscenza che la morte per noi è nulla rende piacevole che la vita sia mortale, non perché la prolunga per un tempo infinito, ma perché la libera dal desiderio dell’immortalità. Non c’è infatti nulla di temibile nella vita per chi ha la profonda convinzione che nulla di temibile vi è nel non vivere più.

Cosicché è folle chi asserisce di temere la morte non perché quando sarà presente gli arrecherà dolore, ma perché è l’attesa che gliene provoca. Ciò che non ci inquieta se presente, ci affligge infatti vanamente quando lo si attende. Il male, dunque, che più ci atterrisce, la morte, è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando c’è la morte noi non siamo più. Pertanto essa è nulla per i vivi e per i morti, perché per quelli non c’è, e questi non sono più. Ma la gente ora fugge la morte come il più grande dei mali, ora la cerca, come la fine dei mali della vita.

Il saggio invece non rifiuta la vita, né teme l’assenza della vita: perché non si oppone alla vita e non ritiene un male il non vivere più. E come cerca non il cibo più abbondante, ma quello più gradevole, così gode non del tempo più lungo, ma di quello più dolce. Chi invita il giovane a vivere bene e il vecchio a morire bene è stolto non soltanto per ciò che di piacevole vi è nella vita, ma anche perché l’esercizio del vivere bene e del morire bene è il medesimo. Ancora peggio chi dice: bello non essere nato, ma, una volta nato, al più presto varcare le soglie dell’Ade.[4]

Se è infatti davvero convinto di quello che dice, perché non abbandona la vita? Giacché questo è nel suo pieno potere, se così salda è per lui questa opinione; ma se scherza, è stolto a farlo in questioni che non lo richiedono.

Si deve poi ricordare che il futuro non è del tutto nostro, né del tutto non nostro, perché non ci illudiamo come se assolutamente si dovesse avverare, né perdiamo la speranza, come se non si dovesse avverare affatto.[5]

Analogamente bisogna credere che dei desideri alcuni sono naturali, altri vani; e di quelli naturali, alcuni son necessari, altri solamente naturali; e di quelli necessari, alcuni sono necessari per la felicità, altri per il benessere del corpo, altri per la vita stessa.[6] Una sicura conoscenza di essi sa infatti ricondurre ogni scelta e ogni rifiuto alla salute del corpo e alla tranquillità dell’anima, perché questo è il fine della vita felice. È in grazia di ciò che compiamo ogni nostra azione, per non soffrire e non avere turbamento.

E quando abbiamo raggiunto questo, ogni tempesta dell’anima si dissolve, perché l’essere vivente non ha più qualcosa da inseguire come se ne fosse privo, né qualcos’altro da cercare, con cui completare il bene dell’anima e del corpo. In quanto è allora che abbiamo bisogno del piacere, quando soffriamo perché il piacere non c’è; ma quando non soffriamo non abbiam più bisogno del piacere.

Per questo diciamo che il piacere è principio e fine della vita beata. Sappiamo infatti che il piacere è il bene primo e a noi connaturato: da questo muoviamo per ogni scelta e ogni rifiuto e a esso facciamo riferimento, giudicando ogni bene in base alle affezioni prese per norma.

E poiché questo è un bene primo e innato, non scegliamo ogni piacere, ma può essere che ne tralasciamo molti, quando da essi provenga un fastidio maggiore; e riteniamo molti dolori preferibili ai piaceri, quando ne consegua un piacere maggiore, perché per lungo tempo abbiamo sofferto dolori. Tutti i piaceri sono dunque un bene, perché sono per natura a noi congeniali, ma non tutti sono da scegliere; così come tutti i dolori sono un male, ma non tutti sono tali da dover essere fuggiti. Conviene certo giudicare tutte queste cose in base a una visione opportunatamente commisurata dei vantaggi e degli svantaggi. Perché in certe circostanze il bene può essere per noi un male, e viceversa il male può essere un bene.

E crediamo che l’indipendenza dai desideri sia il bene più grande, non perché dobbiamo accontentarci sempre soltanto del poco, ma perché se non abbiamo il molto, sappiamo farci bastare il poco; profondamente convinti che trae massimo godimento dall’abbondanza chi non ne ha bisogno e che è facile procurarsi ciò che serve ai bisogni naturali, difficile invece ottenere il superfluo; i cibi frugali dànno un piacere identico a un vitto sontuoso, quando sia affatto eliminata la sofferenza del bisogno, e pane e acqua dànno piacere altissimo, quando ne riceve chi ne ha bisogno.

[…]

Medita dunque queste cose e quelle dello stesso genere giorno e notte, in te stesso e con chi è simile a te, e non avrai mai turbamento nel sonno, né da sveglio, ma vivrai come un dio fra gli uomini: perché in nulla è simile a un mortale un uomo che viva fra i beni immortali.”

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Lettere di Epicuro
Lettere di Epicuro

Per continuare la lettura in modo proficuo e con attenzione si consiglia di distogliere gli occhi dal computer o dal cellulare e di recarsi nella propria libreria per cercare il libro tra gli scaffali impolverati; se non si possiede il volume in casa si consiglia di acquistarlo (rigorosamente in cartaceo).

Leggere è un compito importante, la carta è di grande ausilio rispetto al formato digitale non solo per la concentrazione necessaria all’atto della riflessione e comprensione ma anche per instaurare un rapporto fisico con l’oggetto-pozzo che conserva amorevolmente le considerazioni degli esseri umani del passato, in questo caso di Epicuro.

 

Note

[1] Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza, 1976, X,4.

[2] La scuola del Giardino, di matrice epicurea, si distingueva dalla scuola del Portico, di matrice stoica. Uno degli scontri più accesi fra le due scuole fu in ambito politico: mentre gli epicurei seguivano i precetti Recede a re pubblica e Láthe biósas (Non fare politica e Vivi in disparte), gli stoici seguivano Accede ad rem publicam (Fa’ politica).

[3] Il termine ἀταραξία è stato usato da Democrito ma adottato pienamente da Epicuro e non solo: fu, infatti, fondamento anche per la scuola stoica e scettica. Gli autori latini ‒ che tradussero la parola con tranquillitas ‒ come Crisippo, Cicerone, Seneca, Plutarco, Marco Aurelio consigliarono un atteggiamento atarassico per un retto vivere. Oggi questa parola viene associata alla schizofrenia ma l’atarassia comprendeva una lunga pratica nella quale l’anima si identificava con la perfetta pace grazie alla volontà di dominio sulle passioni giungendo, dunque, ad una liberazione dalle stesse per una unificazione con il Tutto ‒ l’Uno-Molti di Plotino ‒, mentre la mancanza di legami affettivi tipica della schizofrenia non è principalmente dettata da una ferrea pratica filosofica e non è assimilabile alla serenità prodotta da tale attività della mente.

[4] Motivo poetico nato dalla leggenda di Sileno e Mida.

[5] Questa è una polemica contro i Cirenaici per i quali l’unico piacere è quello in atto (piacere cinetico, in moto) e non il ricordo dei piaceri del passato oppure l’attesa di quelli del futuro.

[6] Epicuro ritiene necessario e naturale quel desiderio atto all’eliminazione del dolore, come ad esempio bere per la sete; ma ritiene naturali e non necessari quel desiderio proiettato verso il solo piacere, come ad esempio avere sempre ricche vivande; infine ritiene non naturali e non necessari desideri quali corone e statue celebrative.

 

Bibliografia

Epicuro, Lettere ‒ Sulla Fisica, sul cielo e sulla felicità, curato da Nicoletta Russello, traduzione di Francesco Adorno, Fabbri Editori, 1994

 

Info

Leggi la recensione su “L’apocalisse di Lucrezio” di Ivano Dionigi

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