“Scissione”: la serie tv che passa dall’utopia alla distopia

“Il lavoro è solo lavoro, giusto?”

Scissione serie tv Ben Stiller
Scissione serie tv Ben Stiller

Merce di immaginari mondiali, canale di costruzione di una vera e propria rete di intrattenimento globale, le serie tv sono gli epigoni di un fenomeno che ha attraversato da sempre la produzione letteraria mondiale. Dalle chanson de geste ai  feuilleton di Dumas, Dickens, Balzac e Mark Twain, dai serial diffusi nelle sale cinematografiche tra il 1913 e il 1920 ai primi fumetti pubblicati dai quotidiani americani fino alle soap opera e le telenovelas degli anni ‘80, i racconti che procedono a tempo indeterminato e in senso verticale, da sempre soddisfano l’inesausta sete di storie di generazioni di umani, e fa niente se oggi la fruizione “binge watching”, maratona personalizzata senza soste e limiti temporali, con l’opzione di default “guarda il prossimo episodio”, ha ormai sabotato il sottile piacere dell’attesa dell’éra pre streaming, quella dei telefilm e delle serie tv con l’uso del cliffhanger (personaggio o situazione lasciata in sospeso per la puntata successiva).

Serialità, quindi. Ma anche autorialità, alla luce della valorizzazione sia contenutistica sia estetica dei prodotti, non tutti, offerti dalle piattaforme. E se è vero che c’è un prima e dopo “Lost nelle serie tv (con la sua ineguagliata fusione tra temi esistenziali e dinamiche quotidiane), alcune produzioni non smettono di sperimentare, alla ricerca di un ideale podio nella classifica dell’originalità.

Come nel caso di “Scissione”, trasmessa sulla piattaforma Apple Tv, con quei richiami a certe atmosfere sci-fi anni ’60 che sanno tanto di “English surrealism” (si pensi a telefilm come “The Avengers” e “The Prisoner”).

Cerca di non portarti il lavoro a casa.

Chi almeno una volta nella vita non si è sentito rivolgere questo frusto suggerimento? Prendere le distanze dalle pressioni quotidiane, magari anche dagli obiettivi da raggiungere a ogni costo e dagli inevitabili conflitti. Insomma, la cosiddetta sindrome da corridoio, quando manca una scissione tra lavoro e casa e lo stress e il nervosismo dell’ambiente lavorativo vengono riportati fra le mura domestiche. Facile a dirsi, meno a realizzarsi.

A meno che non si lavori per la Lumon Industries, sembra suggerirci l’ideatore della serie Dan Erickson, una multinazionale che ne ha fatto una delle sue mission al punto di installare chirurgicamente un microchip nel cervello di alcuni dipendenti allo scopo di dividere i loro ricordi professionali da quelli personali, trasformando quello che poteva essere solo un wishful thinking in qualcosa di effettivo.

Interessante, no? Allo scoccare delle 17:00, l’ora canonica di fine turno, Marc, Helly, Dylan e Irving, i quattro impiegati che si sono volontariamente sottoposti alla frattura della propria identità personale, escono dagli uffici e dai loro panni di ossequiosi rifeiner di un fantomatico reparto microdata, per rientrare in quelli dei privati cittadini che sono sempre stati, salutando l’io di dentro per riabbracciare l’io di fuori, ignari l’uno dell’altro.

Ora, non si è sempre sostenuto che le aziende guardano solo dentro se stesse mortificando e disumanizzando così le persone che ci lavorano? Che si disinteressano del benessere psicofisico dei loro dipendenti, che mancano di capacità empatica mirando solo al mero profitto? Ecco, Kier Egan, il padre fondatore della Lumon, ha escogitato il modo per sottrarsi a questa critica: è il benessere, a contare.

Si dirà: finalmente una leadership riflessiva, aperta a nuovi scenari e a immaginazioni più ricche, un filosofo più che un manager, uno che cerca l’anima all’interno dell’organizzazione, capace di rispondere a quella domanda angosciante e quotidianamente trattenuta negli ambienti di lavoro: “Che ci faccio io qui?”, e allora la scissione è l’ultima frontiera di una vision che fa di lui una sorta di guru.

Così fra waffle party con sottofondo di musica sui generis e fotografie ad immortalare l’evento, sessioni di benessere (in cui vengono date notizie positive sui sé “esterni”) e obiettivi trimestrali da raggiungere, la vita all’interno del reparto macrodata sembra procedere in un clima di placida produttività, sotto lo sguardo carezzevolmente vigile dell’ambizioso capo reparto Milchick e la supervisione della responsabile Harmony Cobel (spesso in contatto via telefono con un fantomatico consiglio di amministrazione), e fa niente se il lavoro dei nostri rifeiner si snoda in astrusi setting  con numeri “da salvare” scelti fra le migliaia che compaiono sullo schermo dei loro pc.

Poi però capita che Pity (il precedente coordinatore dei rifeiner, licenziato per non meglio precisati motivi di insubordinazione) si faccia vivo nel mondo di fuori con il Marc esterno (suo successore al reparto macrodata), aprendo a lui e ai suoi tre colleghi oscure prospettive sull’effettiva natura del loro lavoro alla Lumon, e allora è un attimo passare dall’utopia alla distopia, insinuare il dubbio di essere vittime di qualche complotto, e quando poi Dylan si intrufola nella stanza della sicurezza riuscendo a rimuovere i controlli che impediscono ai quattro di conoscere la propria identità al di fuori del lavoro, risvegliandoli in tal modo nel mondo delle loro personalità originali (un assaggio di raggiunta liberta? Scoprire chi è la propria metà che vive al di fuori del lavoro, non è forse questo il risveglio?), il sabotaggio conduce ad alcune sconcertanti rivelazioni: Mark scopre di non essere davvero vedovo, Helly realizza di essere l’impietosa figlia dell’amministratore delegato dell’azienda, mentre Irving si rende conto che Burt, l’amore della sua vita nel luogo di lavoro, è sposato con qualcun altro.

Ma, si sa, a ogni mareggiata segue una fase di bonaccia, preludio a nuove riforme. E allora ecco nuovi snack, permessi di uscita in abbondanza, una stanza degli specchi tutta ridisegnata e un nuovo gioco, “addenta l’ananas”. Sarà l’inizio di una nuova éra? Riusciranno i quattro rifiner a darsi una risposta su “cosa avviene veramente alla Lumon?”

E soprattutto: riusciranno a creare una connessione virtuosa fra l’io di fuori e l’io di dentro, riuscendo in definitiva a metabolizzare il dolore che li ha condotti ad accettare una pratica estrema come la scissione?

Premiata con il Writers Guild of American Award come miglior nuova serie tv, premio come miglior design di una sigla (Oliver Latta Teddy Blanks) e colonna sonora (Theodore Shapiro) nonché candidata in numerose sezioni al Primetime Emmy Award, scritta a più mani e diretta da un ispirato Ben Stiller, “Scissione” è un prodotto ambizioso che si avvale di un cast importante (da Adam Scott a Britt Lower, da Christopher Walken a John Turturro e Patricia Arquette) e di una scenografia sempre in bilico sul sottile crinale che separa il reale dal surreale, con quella serie di interminabili corridoi bianchi illuminati a led, che finiscono in altri corridoi che piegano ad angolo retto a sinistra ma anche a destra, con porte tutte uguali che viene da chiedersi come facciano i personaggi a trovare sempre quella giusta.

Metafora della disumanizzazione negli ambienti di lavoro e dell’illusione manageriale di pretendere cosa è il bene per l’azienda e i suoi dipendenti, ragionando con le sole categorie “interne” al sistema separandole dall’ambiente esterno che è la vita sociale, “Scissione” è anche una riflessione sul concetto di risorsa umana, dove la risorsa viene  pervicacemente scissa dalla propria umanità, la ricerca di un senso (“Che ci faccio io qui”) boicottata a favore della velocità imposta dai tempi della produzione e il dolore individuale nulla più che una leva funzionale al sistema. Una produzione intelligentemente originale, che intriga e risponde in modo affermativo alla domanda che tutti si pongono dopo una visione seriale: “C’era veramente bisogno di una serie come questa?”

 

Written by Maurizio Fierro

 

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