“L’apocalisse di Lucrezio” di Ivano Dionigi: vedere l’invisibile
“La lezione dei classici è chiara: la tecnica non salva, invoca la necessità della politica. Noi ci siamo oltremodo allontanati dalla loro lezione: la politica è ridotta a scala locale e si confronta con la tecnica che è globale. Avremmo bisogno di un governo mondiale e di uno ius mundi e invece balbettiamo ancora su ius soli e ius culturae.” ‒ “L’apocalisse di Lucrezio” di Ivano Dionigi
Ivano Dionigi, nel capitolo Dedalo: la natura o l’uomo? del saggio “L’apocalisse di Lucrezio” (Raffaello Cortina Editore, 2023), invoca la necessità di uno ius mundi per riuscire a sopravvivere alla Τέχνη che, oggi, si identifica con l’intelligenza artificiale. Come non essere in accordo? La tecnica è ormai a livello globale, ne consegue che anche la politica debba poter ambire al globale soprattutto in vista delle regolamentazioni indispensabili per la salvaguardia della “creatività” e della “sapienza” dell’essere umano.
“È il pensiero umanistico la struttura dura, l’hardware che fa girare i programmi dei saperi scientifici. Tutto il resto è software.” ‒ Ivano Dionigi
Come si evince dal titolo “L’apocalisse di Lucrezio” il volume è incentrato sul poeta e filosofo epicureo Tito Lucrezio Caro che visse presumibilmente tra il 94/93 ed il 50/49 a.C. e di cui è stato tramandato il celebre “De rerum natura”, poema didascalico in sei libri, composto in esametri, per un totale di 7415 versi. Celebre per noi lettori moderni ma, come sottolinea Ivano Dionigi nell’avvincente capitolo Hanno detto di lui, l’opera è scomparsa per circa un millennio, anche a causa della falsa notizia trascritta da “san Girolamo riguardante la pazzia e lucidità intermittente di Lucrezio, culminante nel suicidio”.
“Io annuncio cose inaudite”: Lucrezio è stato sconfessato dai contemporanei, furono pochi e talvolta in forma privata ad omaggiarlo, ad esempio ne troviamo traccia in una lettera dello stoico Cicerone: “I versi di Lucrezio rivelano molti lampi di ingegno, ma anche una grande abilità artistica”. Ma in generale gli autori latini preferirono oscurare la dottrina delle res novae di Lucrezio per salvarne la poetica: Stazio lo definì doctus, Quintilliano elegans et difficilis, Ovidio sublimis, Marco Aurelio parlò dei suoi versi come eúphona et hadrá (armoniosi e gagliardi).
Fu solo grazie alla scoperta dell’umanista Poggio Bracciolini nel 1417, e successivamente con la prima edizione a stampa del 1473, che il poema poté ricevere la dovuta attenzione. Poeti e filosofi ne rimasero estasiati, ma in questo caso non solo per l’audacia dei versi bensì anche per la dottrina insita negli stessi. Fra gli estimatori si ricorda: Marsilio Ficino, Niccolò Machiavelli, Giordano Bruno, Michel de Montaigne, Jean-Jacques Rousseau, Denis Diderot, Voltaire, Johann Wolfgang von Goethe, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Henri Bergson, Anatole France, Albert Einstein, Alberto Moravia, Albert Camus, Mario Luzi, Primo Levi, Italo Calvino et cetera.
Il filosofo del Giardino[1], fervente seguace del greco Epicuro (Samo, 341 a.C. ‒ Atene, 270 a.C.), si vantò di essere il primo latino a scrivere un’opera filosofica lamentandosi però della penuria di parole della lingua madre come ostacolo per il trasferimento a Roma degli insegnamenti del proprio maestro. Sentì la necessità di creare verba nova per poter diffondere le idee nuove, inaudite.
Raddoppio della parola, geminazione, paronomasia, espansione nella stessa etimologia, palindromi e forme di cui non fu più trovata menzione altrove come serescunt (si asciugano) e clinamen (parola architrave della filosofia di Lucrezio con il significato di “una lieve declinazione degli atomi”). Altre forme che non avranno fortuna postuma sono naturae species ratioque (la visione e la scienza della natura), anxius angor (angoscia straziante), mors immortalis, la coppia dira cupido e dira libido (dira con il significato di “orribile” che contraddice l’epicureismo in quanto è stato considerato patologico l’amore ma non l’atto sessuale visto per l’appunto come un piacere naturale: “Chi evita l’amore non rinuncia al frutto di Venere”).
“Dolce, quando i venti sconvolgono le distese del grande mare,/ contemplare da terra l’affanno grande di altri, non perché il tormento di qualcuno ci procuri soddisfazione e piacere,/ ma perché è dolce vedere da quali mali tu non sei afflitto./ Dolce è anche guardare le grandi contese di guerra/ ingaggiate in campo aperto, senza che tu incorra in alcun pericolo./ Ma nulla è più dolce che abitare gli elevati templi sereni/ saldamente fortificati dalla dottrina dei sapienti,/ da dove tu possa abbassare lo sguardo sugli altri e vederli errare/ qua e là smarriti e cercare senza meta la via della vita,/ fare gare di intelligenza, sfidarsi a chi è più nobile,/ sforzarsi notte e giorno con fatica straordinaria/ per giungere al colmo della ricchezza e impadronirsi del potere/ […]” ‒ Lucrezio
Il proemio del secondo libro del “De rerum natura” è stato uno dei brani più apprezzati ed interpretati per la sua spinta di serenità egoistica che muove il filosofo a contemplare in modo distaccato ciò che avviene nella sfera sociale: disgrazie, come ad esempio una nave in balìa di forti venti, oppure contese di guerra.
Guardare/vedere eventi atroci diventa “dolce” perché il filosofo, in stato atarassico[2] (ἀταραξία con il significato di “assenza di agitazione”, “imperturbabilità”) abita “gli elevati templi sereni” in autarkes (αὐτάρκεια, con il significato di “bastevoli a se stessi”) celebrando la solitudine propria del motto epicureo láthe biósas (λάθε βιώσας, con il significato di “vivi nascosto”) lontani dal πόλεμος ‒ lotta, guerra, contesa ‒ tipica della società che cerca “senza meta la via della vita” con “gare di intelligenza” “per impadronirsi del potere”.
Lucrezio opera nel disvelamento. Ivano Dionigi in apertura del coinvolgente capitolo Il velo e il vero cita Søren Kierkegaard: “Giungerà l’ora della mezzanotte in cui ognuno dovrà smascherarsi”. Smascheramento, disvelamento, alétheia (ἀλήθεια, con significato di “eliminazione dell’oscuramento” dal composto di alfa privativo e λέθος) ed apokálypsis (ἀποκάλυψις, da ἀπό e καλύπτω ‒ Calipso ‒ con il significato di “rivelazione”, “andare oltre il nascosto”) per concepire la differenza che intercorre tra il “credere” ed il “pensare/capire”, perché l’atto del credere è cieco e fisso ‒ oscuro per il λόγος ‒ mentre l’atto del pensare è vedente e variabile ‒ luce per la parola.
“L’analisi non lascia scampo: politica, religione e amore sono costruzioni della mente, sovrastrutture che noi perseguiamo invano (nequiquam), perché non rispondono a bisogni iscritti nelle leggi di natura; la morte, per noi così innaturale e scandalosa, è una forma di giustizia. Così come ci appaiono e come si sono affermate, queste forme e pratiche antropologiche sono tutte forme di alienazione e di inganno; facce che celano, non volti che svelano segreti e verità.” ‒ Ivano Dionigi
Ivano Dionigi, con una narrazione appassionata, trascina in una lettura che traccia l’antipolitica intesa come otium, il tetrafarmaco[3] di Epicuro, il confronto di innovazione linguistica tra Lucrezio e Dante Alighieri, l’illusione del potere, l’ideale di vita da perseguire per raggiungere la felicità, la visione della morte, l’inutilità della guerra e gli infiniti mondi.
“Ciò che è possibile e accade per tutto l’universo/ nei diversi mondi in diversa forma creati,/ questo io insegno.” ‒ Lucrezio
“Osserva infatti, ogni volta che i raggi penetrano/ e infondono la luce del sole nel buio delle stanze./ vedrai molti corpi minuscoli vorticare/ in molteplici modi nel vuoto proprio nella luce dei raggi/ […]/ Da ciò puoi figurarti quale sia l’eterno/ agitarsi dei principi primi delle cose nell’immenso vuoto/ […]” ‒ Lucrezio
Written by Alessia Mocci
Note
[1] La scuola del Giardino, di matrice epicurea, si distingueva dalla scuola del Portico, di matrice stoica. Uno degli scontri più accesi fra le due scuole fu in ambito politico: mentre gli epicurei seguivano i precetti Recede a re pubblica e Láthe biósas (Non fare politica e Vivi in disparte), gli stoici seguivano Accede ad rem publicam (Fa’ politica).
[2] Il termine ἀταραξία è stato usato da Democrito ma adottato pienamente da Epicuro e non solo: fu, infatti, fondamento anche per la scuola stoica e scettica. Gli autori latini ‒ che tradussero la parola con tranquillitas ‒ come Crisippo, Cicerone, Seneca, Plutarco, Marco Aurelio consigliarono un atteggiamento atarassico per un retto vivere. Oggi questa parola viene associata alla schizofrenia ma l’atarassia comprendeva una lunga pratica nella quale l’anima si identificava con la perfetta pace grazie alla volontà di dominio sulle passioni giungendo, dunque, ad una liberazione dalle stesse per una unificazione con il Tutto ‒ o l’Uno-Molti di Plotino ‒, mentre la mancanza di legami affettivi tipica della schizofrenia non è principalmente dettata da una ferrea pratica filosofica e non è assimilabile alla serenità prodotta da tale attività della mente.
[3] Il Tetrafarmaco di Epicuro è riassumibile con i quattro fondamenti della felicità: “La morte non provoca sensazione”, “La divinità non è da temere”, “Il bene è facilmente procurabile”, “Il male è facilmente sopportabile”.
Bibliografia
Ivano Dionigi, L’apocalisse di Lucrezio, Raffaello Cortina Editore, 2023
Info
Leggi “Anima Mundi – Un circolo lucreziano”