“Estate” poesia di Cesare Pavese: la fusione della stagione e della donna amata, Fernanda Pivano

Di seguito si potrà leggere la poesia intitolata “Estate” di Cesare Pavese ed una breve biografia del poeta e scrittore.

“Estate”

Cesare Pavese
Cesare Pavese

“C’è un giardino chiaro, fra mura basse,
di erba secca e di luce, che cuoce adagio
la sua terra. È una luce che sa di mare.
Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli
e ne scuoti il ricordo.

Ho veduto cadere
molti frutti, dolci, su un’erba che so,
con un tonfo. Così trasalisci tu pure
al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
come intorno accadesse un prodigio d’aria
e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale
nei tuoi occhi e nel caldo ricordo.

Ascolti.
Le parole che ascolti ti toccano appena.
Hai nel viso calmo un pensiero chiaro
che ti finge alle spalle la luce del mare.
Hai nel viso un silenzio che preme il cuore
con un tonfo, e ne stilla una pena antica
come il succo dei frutti caduti allora.”

***

Cesare Pavese © LAPRESSE Archivio Storico Anni '40
Cesare Pavese © LAPRESSE Archivio Storico Anni ’40

Era il 1934, Cesare Pavese insegnava, come supplente, letteratura al Liceo classico D’Azeglio di Torino. Fernanda Pivano è una sua allieva. Solo nel 1940 compare il suo nome nel diario “Il mestiere di vivere”. Fu una storia d’amore a senso unico che terminò con ben due rifiuti alle sue proposte di matrimonio (il 26 luglio 1940 ed il 10 luglio 1045).

Estate” è la seconda lirica de “Lavorare stanca” edito nel 1936. La descrizione è folgorante, un pomeriggio estivo lungo ed ozioso caratterizzato dal dominio del Sole. Odori, suoni e colori sono portati alla luce la cui stessa emanazione ricorda il mare. Nel quarto verso compare lei, la donna, che respira l’erba secca del giardino toccandosi i capelli.

Il 27 agosto del 1950 Cesare Pavese è a Torino, solo. È stata una estate calda, ormai agli sgoccioli, ma la città piemontese è ancora silenziosa e deserta. Cesare Pavese è solo in una camera d’albergo, ha con sé del sonnifero.

Decide di prenderne una quantità elevata, solo pochi giorni prima, il 17 agosto, ha scritto nel diario: “Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò”.

Lascia qualche frase sulla prima pagina de “Dialoghi con Leucò”: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. All’interno del libro un foglietto con una citazione tratta dallo stesso: «L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia»; ed una dal diario: «Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti» e «Ho cercato me stesso».

… No, Cesare, non sono pettegolezzi, è solo il bisogno di salutarti in questa estate afosa ed ormai agli sgoccioli…

***

“ἐδιζησάμην ἐμεωυτόν” (“Interrogai me stesso”) Eraclito

 

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