“Se non ora, quando?” di Primo Levi: gli ebrei più sono settari, più diventano universali
A pagina 270, in Cronologia della vita e delle opere di Primo Levi, leggo un commento di Saul Bellow: il grande scrittore americano dapprima confessa che lui “è sempre alla ricerca del libro necessario”, poi definisce questo di Levi “essenziale”. È senz’altro un’esagerazione, una finzione.

Se Primo Levi non avesse scritto Se non ora, quando?, il mondo non se ne sarebbe manco accorto; inoltre: cos’è l’essenza, se non l’esistenza che mai si può cogliere?
Questo, per quanto realistico, non è nemmeno un romanzo verità, quando è lo stesso autore che dice: “Non mi sono prefisso di scrivere una storia vera, bensì di ricostruire l’itinerario, plausibile ma immaginario, di una di queste bande.”
Parliamo allora di questa banda, essenzialmente necessaria e necessariamente essenziale. Chiedo scusa, ma ho appena letto il libro più necessario e meno essenziale della Storia (la maiuscola è soltanto un’irrisione): il Pentateuco gargantuesco e pantagruelico (così lo chiamo quando sono tra amici) di François Rabelais.
Il confronto fra le due opere è necessario (non per questo si può dire che sia essenziale). Mai due modi scrivere mi sono parsi più similmente divergenti: entrambi frutti del medesimo e impellente bisogno organico di espellere quella cogenza che parte dall’anima e che esce dal corpo.
Io, Stefano e non ricordo più il cognome: “… sono un disperso anch’io, non un disertore” – non è colpa mia; infatti, sono: “Un dei centomila duecentomila dispersi: c’è da vergognarsi a essere dispersi? E forse che si possono contare i dispersi? Se si potesse non sarebbero dispersi…” – io lo sono perché, leggendo ‘sto romanzo, ho dimenticato non chi sono, ma dove sono.
Comprai il volumetto a Inchiostro e nuvole il 7 febbraio 2015 e poi lo dispersi, ma pochi giorni fa me lo ritrovai casualmente in mano e iniziai a leggerlo. Ed è stato come “… una valanga che sta per seppellirti ma nessuno ti dice da dove verrà, e allora non sai neppure da che parte scappare…” – il mio caso è più semplice: era su una mensola, stretto tra i libri cogenti e quelli necessari, minacciato dal basso da quelli importanti e con, in un lontano profilo, l’assurda massa dei volumi interessanti.
“… un disperso è meglio se non parla: può solo parlare con un altro disperso…” – per cui ascoltami, rinuncia a leggere e va’ a vivere altrove. Oppure, rimani qua, ma stai, al momento, zitto zitto.
Un tramonto dorato, il sole che declina dolcemente, sfinito dopo una giornata identica a quelle che l’hanno preceduta: “Si sentiva la musica di pace delle gocce di pioggia che cadevano di foglia in foglia, e dalle foglie al suolo, come se la guerra non ci fosse, non ci fosse mai stata.” – oggi i nostri amici ucraini sono partiti, non ce la facevano più a sentirsi al sicuro, lontano da chissà che.
“Vedi non aver scelta è un vantaggio: io non ho scelta. Mi devo fidare di te per forza, e del resto sono stufo di vivere da solo.” – quando sei solo sei tutto tuo (dice Leonardo), quando sei con qualcuno appartieni a più destini (dice il sottoscritto).
Questo romanzo ha un difetto, poiché eccede in frasi memorabili: “Uno non mangia più di un altro quando è vivo, e non puzza più di un altro quando è morto.” – e non dipende da cosa ha buttato dentro prima di tirare le cuoia, tanto non esce più nulla. E noi, “noi siamo ebrei speciali; siamo ebrei affamati.” – e come il sazio lancia i suoi peccati, il digiuno s’affretta come un matto a raccoglierli.
Mendel si sentiva come un sacco vuoto: “aveva provato la sete della vendetta, non l’aveva appagata, e la sete si era attenuata fino a spegnersi.” – è così anche per la voglia di conoscenza, l’importante è non fare consuntivi. Ma ora, accorti, che arrivano i malvagi. “Videro i cacciatori di uomini che li perquisivano ridendo, li interrogavano e li allineavano contro il muro…” – di tutto ciò non si parlerà, perché “non è per descrivere stragi che questa storia sta raccontando se stessa.” – era stato detto che essa era necessaria (e cogente)!
Non è possibile, mi pare anche per legge, parlare male dei partigiani, per cui “ai partigiani non si fanno domande”. Non possono perciò essere accusati di nulla, né interrogati. È la negazione dello storicismo che occorre allorché la Storia si frantuma in un miliardo e più di pezzi.
Mendel dice: “… io, invece, credo che non abbia molto senso dire che un uomo vale più di un altro…” – anch’essa era appena una credenza, un pregiudizio da confermare; dipende anche da quello che si chiede a lui di fare. Io per esempio non so far da mangiare, ma so ingurgitare ogni specie di pietanza. Né so far la guerra, né mi piace leggerne, se non quando è a due passi, come lo era ‘sto romanzetto poco fa. Farei come quelli che non sparano ai nemici perché, dicono: “Non vede, signor capitano? Non sono sagome di cartone. Sono uomini come noi, se gli sparassimo, gli potremmo far del male.”
Qualcuno punta alla tempia di qualcun altro e fa fuoco: qualcuno altro lo tranquillizza (ci prova) spiegandogli: “È la prima volta? Non badarci: poi diventa facile.” – agli esodanti (che nome più umiliante non si può concepire), come incidente di percorso può capitare di tutto, anche di assaporare “più volte il cibo aspro dell’uccidere.”
Un difetto piccolo sopravvive alle tragedie come capitò a quegli accorti topini dopo l’estinzione dei dinosauri: “Il pettegolezzo è una forza della natura; rende sopportabili molto disagi, e prospera anche in mezzo ai pantani, alla guerra e alla neve in disgelo.”
“Tu sei giovane. È una malattia che guarisce presto, anche senza medicine, ma può essere pericolosa ugualmente. Finché ce l’hai addosso, abbiti riguardo.” – l’importante è che, pur guarendo, ti restino i sintomi: non tutti, solo i più dolorosi. Gli altri non servono a nulla.
A pagina 119 c’è la poesia col verso che dà il titolo al romanzo, da cui estrapolo i versi triplicati:
“Se non sono io per me, chi sarà per me?/ Se non è così, come? E se non ora, quando?”
È una canzone per gli ebrei, soltanto per loro. La loro tragedia consiste proprio in questo: più sono settari, più diventano universali. Che ne dici, Haim Baharier? Sono più scemo io o il tuo cappello?
“Tutti gli ebrei sono matti, ma noi siamo un po’ più matti degli altri.” – ciascun ebreo si crede più furbo o più matto degli altri: questa è la divisione che li caratterizza.
“Siamo stanchi di guerra e di cammino, abbiamo nostalgia dei lavori di pace.” – che non alienano nulla a chi non possiede nulla. Lavorare è un gioco fantastico per chi non possiede nulla. Diventa una punizione orribile solo se hai del tempo per far altro.
Gli eroici felloni credono che “… uccidere i nazisti sia la cosa più giusta che si possa fare oggi sula faccia della Terra…” – che si continuerà per sempre a schiaffeggiare. Fare oggi? Allora non esiste una guerra sacra e assoluta, ma sempre umana e transeunte! “Ammazzare è peccato sempre.” – sicuro? “Anche ammazzare un SS?” – this is the problem!
Scopro che “la Polonia è un triste paese. È un paese infelice da sempre, schiacciato da vicini troppo potenti…” – ecco perché quel papa polacco baciava sempre il terreno dove sbarcava, cercava di aggraziarselo. Quando planò sulla mia Reggio, una volta sceso dall’elicottero, si scordò. Forse perché l’asfalto del Campovolo era vagamente tinto di rosso. Ricordo lo sconcerto del telecronista.
“La guerra non finirà mai. Da questa guerra nascerà un’altra guerra, e sarà guerra sempre. Gli americani e i russi non saranno miei amici…” – davvero? Si è tentato di distruggere il paese. I russi “non volevano che la Polonia avesse un’anima…”.
Atroce verità: “La Russia di Stalin è la Russia dello Zar.” – e di qualcun altro, a parer mio.
Torna in mente una frase “che Dov aveva gridato a Mendel a Novoselki”: “Stiamo combattendo per tre righe nei libri di storia.” – se si arriva a dieci si vince un peluche.
“Che la guerra finisca, Signore a cui non credo. Se ci sei, fa’ finire la guerra.” – se non ci sei, mettiti davanti, che mi fai da paravento, grazie. Poiché “ognuno è l’ebreo di qualcuno” – io lo sono di tutti gli altri popoli, essendo io l’unico popolo eletto dal mio io.
Un buon partigiano “non deve dubitare: il dubbio te lo ritrovi sul mirino del fucile, e ti devia il colpo peggio della paura.” – dubito ergo (in otio) spiro.
Un esempio di razzismo: “Il russo lo guardò come se un cavallo avesse parlato” – hinnitus ergo rido.
“Ecco, io vorrei scrivere la tua storia, perché non vada perduta” – il problema è: “non so se ci riuscirò…” – il quale è un ottimo motivo per non iniziare nemmeno tale ingrata fatica. Scrivere è donare i propri peccati mischiandoli ad arte a quelli degli altri.

“Esiste una vendetta giusta? Non esiste; ma sei uomo e la vendetta grida nel tuo sangue, e allora corri, distruggi e uccidi. Come loro, come i tedeschi.” – è come la febbre, una difesa dell’organismo che si può abbassare con la tachipirina, che non toglie il male, che poi torna a colpire con ancor più virulenza.
“Il sangue non si paga con il sangue. Il sangue si paga con la giustizia.” – che è la fantasia che ci illude che non siamo bestie. A questo possiamo giungere: “Se il tuo nemico cade, non rallegrarti; ma non aiutarlo a rialzarsi.” – e, se proprio devi, sparagli con calma a una tempia.
L’ennesima rivelazione: “le due lingue, storicamente sorelle, appaiono ai rispettivi parlatori l’una la caricatura dell’altra, così come a noi uomini le scimmie appaiono come le nostre caricature (e certo noi appariamo tali a loro).” – si sta discorrendo del tedesco e dello jiddish.
È appena morto un violino, un proiettile è entrato nel suo cuore: “il ponticello era rientrato, sfondando il ventre delicatamente convesso dello strumento e penetrandogli dentro: le corde pendevano ignobili e lente.” – l’infame fu gettato dal carro.
Dopo tanti chilometri (mille, un milione?, in un anno, in diecimila?) alla domanda “Voi da dove venite?” – non si può rispondere che in maniera confusa.
“… ma una cosa è certa, in Italia gli stranieri non sono nemici.” – una cosa è certa: panta rei.
“… Partoriti, espulsi. La Russia ci ha concepiti, ci ha nutriti, ci ha fatto crescere nel suo buio, come in una matrice; poi ha avuto le doglie, si è contratta, e ci ha gettato fuori, e adesso eccoci qui, nudi e nuovi, come bambini appena nati.” – il cosmo ri-sorge ogni volta grazie a un’evacuazione o a un parto, che è la stessa cosa. Chiamalo anche esodo, se proprio vuoi. O fuga. O anche liberazione.
Io non confido nella Resurrezione, la do per scontata.
E Primo Levi dice che questa storia è vera e finta al contempo, nascendo da cose reali ma rimaneggiate dalla sua fantasia.
Esiste qualcosa che non sia similmente siffatta?
È quel Dio che aleggia senza far mai ombra?
O Colui che fa ombra senza mai aleggiare?
Scopriremo un bel giorno la Verità?
Esiste domanda più ignobile?
Che senso ha aspettare?
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Primo Levi, Se non ora, quando?, Einaudi, 2014