“De Sanctis, Gramsci e i pro-nipotini di padre Bresciani” di Raul Mordenti: leggere è scegliere
Fra le colpe che poco orgogliosamente mi riconosco è l’aver finora rimandato la lettura di Gramsci, mentre almeno fino a pochi minuti fa, a poche pagine fa, non provavo l’identico rincrescimento per non aver mai nemmeno sfogliato la “Storia della Letteratura Italiana” dell’irpinate De Sanctis, che pur campeggia su uno scaffale della libreria che ho nel corridoio.

Quest’ultimo sentimento è ancora titubante. Il primo invece sta quasi ex-agerando, La prossima lettura che farò, dopo Raul, sarà Antonio. Di Francesco non so. Può essere che rimanga per sempre sospeso nel quasi-rammarico, che in genere si sublima nel solito, banale ma sempre efficace: “Non si può mica leggere tutto nella vita!”.
Leggere è scegliere, come si fa con un amico, salvo poi rimpiangere (senza rinnegare in toto!) la scelta. La conseguente delusione è spesso cocente, per quanto riguarda gli amici, per i libri no, forse non lo è mai.
Quando lessi il più orrido dei libri, “Le centoventi giornate di Sodoma” dell’infetto Marchese, giunsi a questa conclusione: ogni capoverso mi ha fatto ribrezzo, ma sono contento che l’orrore stia scemando dentro di me. Resta il fatto che è ancora qui, nel mio pertugio più intimo, sì, proprio quello, che ancora non vuole uscirne, né mai forse lo farà. Dovrei forse scriverne, ma non ce la faccio.
“Dunque convincere che il passato non sia mai esistito è un gesto essenziale per sopprimere il futuro, affinché tutto resti così come è, perché ‘tutto continui come prima’”.
Mirando col binocolo dello schioppo in direzione non tanto dell’Infame, quanto della sua opera più funesta e per fortuna grandemente incompiuta, resto così indeciso se un giorno varrà la pena di parlarne.
Raul cita Walter (Benjamin): “La storia è oggetto di una costruzione, il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dall’adesso…” E poi: “… Lo storico è un profeta rivolto all’indietro.” Frase che rammenta un po’ la borgesiana: “Ogni autore crea i suoi predecessori”.
È un camminare alla Dio Giano, che bifronte, re-inizia sempre dal punto che è appena esploso sotto i suoi divini occhi, scatenando quell’energia necessaria per rinascere e riformare il mondo, uno Shiva-Visnù concentrato in un’unica figura.
Estendo: chiunque pensa qualcosa ri-utilizza il pensato per ri-pensare.
Estendo ulteriormente: chiunque viva ri-utilizza il vissuto per ri-vivere.
Che non significa solo ricordare, riportare alla luce, ma farlo diventare Altro, senza rinnegarlo. L’azione passata permette l’azione futura. Che non riuscirà mai a non mutare l’oggetto studiato, ricreandolo. Lo assicura, questo, l’idea sottesa alla meccanica quantistica: ogni osservazione muta la particella osservata, procurandole una nuova esistenza.
L’osservazione è un mero scostare un velo, che non può non urtare, riflettendolo, in tale modo l’oggetto esaminato, che si unifica prodigiosamente al soggetto esaminatore. Allora ha senso parlare di fenomeno creatore di una nuova realtà.
In altre parole: avviene, una volta per sempre, l’atto artistico, fondato su quell’attimo eterno.
Finalmente posso così citare, per la milionesima volta, il verso che più m’è entrato nell’anima: “A thing of beauty is a joy for ever” di John Keats.
Mi spaventa il lungo elenco che Raul produce, partendo da Dante Alighieri e giungendo a Pier Paolo Pasolini, delle persecuzioni sistematiche esercitate dal potere politico contro chi ha osato ri-pensare il già pensato.
Quest’ingiustizia storica ha permesso e favorito la creazione di quel che si chiama il museo diffuso, che adorna questo strano villaggio italico in un inimmaginabile e incommensurabile giardino d’arte. Non è più il pane e il circense che ha sfamato il nostro popolo: è l’arte, che è talmente onnipresente che si finisce per ignorarla.
Chissà quanti reggiani DOC conoscono l’origine del monumento dei Concordi, inclita tomba di famiglia borettiana, allocata presso i ben più rinomati cessi pubblici dei Giardini Municipali. Del resto è nemmeno un secolo che è lì. Non abbandonata, anzi, riccamente illustrata da pregevoli didascalie, ma per lo più ignorata dalla massa di miei concittadini, che passa indifferente alla Storia che in essa è sottesa.
Raul: “… l’amore per la mia città non mi impedisce di vedere che la sua bellezza gronda di sudore e lacrime e sangue.” A Reggio (che ha adottato il simbolo romano S.P.Q.R.) la faccenda non cambia, ma è assai ridotta.
1.De Sanctis e padre Bresciani
La diatriba fra i due pensatori, di per sé interessante, permette di scorgere una delle conseguenze negative del problema italico. La cultura diventa ciò che è già all’origine: un fatto politico, più che ideologico, e propagandistico, più che (in)formativo. Non vedo l’ora di leggere il tanto deprecato “Ebreo di Verona”, scritto dal Gesuita, e tanto vituperato dal critico.
“Questo è… (diceva Totò esibendo all’interlocutore un ombrello, il primo oggetto che si ritrovava fra le mani) ovvio!”
Questo è… l’affascinante rischio che accompagna ogni lettura: ne fa scatenare altre, non tutte gloriose. Leggendo “Orlando furioso”, ho sentito il desiderio, ancora non soddisfatto, di approcciarmi al precedente “Innamorato”, a cui farebbe seguito senz’altro la “Chanson de Roland”… e poi? Ogni libro ha una sua anima e tutte prima o poi s’affratellano. Oppure la mia è un’illusione non so quanto pia?

Seguendo la catena e partendo dal “Cantico delle creature” del Poverello, potrei mai giungere a “Mein Kampf”? Sì, sento che sarebbe un percorso arduo ma praticabile, purché si abbia a disposizione l’eternità. E rimane ora da scegliere: seguo un itinerario fantomatico e tortuoso, oppure decido a scatti, di volta in volta, passando da “Dissipatio H.G” di Guido Morselli a “Politiche dell’amicizia” di Jacques Derrida, passando attraverso l’intermediazione diretta, ma a dir vero poco amicale, di Arthur (Rimbaud)?
Leggere è scegliere o far scegliere: chi comanda? Io o il libro che ho in mano?
Nel caso del gesuita Bresciani, quale opera è giusto mirare, la prima versione impura o quella resa ortodossa dall’inclemente censura clericale? È come domandarsi, mutatis mutandis ac peregrinis, se è preferibile una liberata “Gerusalemme” o una conquistata? entrambe sarebbero una parte della soluzione ottimale, ma che spreco di tempo!
Forse…
“Naturalmente De Sanctis prende parte a quella battaglia politica con i suoi strumenti, che sono quelli della critica letteraria.”
Raul distingue tra finezza critica per quanto riguarda la disamina letteraria, e maggior debolezza per quanto attiene la valutazione politica. De Sanctis, già vittima della politica, ora ambisce ad essere implacabile giudice dell’avversario di turno, nella logica del duello personale che, esercitata sulle reminiscenze classiche è la più praticata dalle nostre bande. Per farlo, Francesco “non teme di spingersi sul terreno dell’avversario…”. Prontamente imitato da padre Bresciani. Per questo forse non si troveranno mai e la pugna sarà scongiurata.
2. Gli esilii del professor De Sanctis
Asor Rosa: “Non esiste un tempo al di fuori dello spazio.”
Concetti che non si possono solo rovesciare, ma semplicemente unire, secondo la teoria relativistica. Lo spazio e il tempo sono in maniera omogenea dimensioni caratterizzanti di ogni fenomeno. Almeno oltre uno spazio innominabile e insondabile, quindi religioso, che (non) esiste al di sotto della dimensione minima, cosiddetta di Planck. Quest’essere tutto relativo, permette di meglio comprendere non solo il capitolo, dedicato agli esili (mi permette di amputare una i, Prof?) di Francesco, ma anche per comprendere gli esili stessi. Quando uno scrittore si occupa della vita, cioè dell’insieme degli eventi conosciuti di un uomo, occorre sempre essere consapevoli che si tratta di due fenomeni diversi. L’osservazione di un evento muta la sua esistenza. Senza osservazione, quest’osservazione sarebbe sepolta nell’oblio. Ad emergere è l’esistenza del biografo e, con quella, quella del biografato.
Nel particolare, quello che interessa Raul è verificare quanto Francesco, italiano, sia mutato dall’esperienza dapprima italiana (anch’essa intesa come esili) e quindi europea. Quella italiana è caratterizzata da una povertà tutto sommato serena, stante anche certi particolari biografici ed affettivi (non eccessivamente vissuti, ma presenti), e dalla sua frequentazione di altri napoletani: cosa già allora non rara per chi veniva dalla Campania. Quella svizzera fu più ricca di riconoscimenti e di piccole, ma assai patite, idiosincrasie. Francesco si lamenta un po’ di tutto, in primo luogo della cattedra intesa come oggetto ingombrante, scomoda, pericolosa, di tipo medievale. Tanto che egli preferiva insegnare, camminando su e giù il limitare dei banchi, a quelle “crasse intelligenze, non avvezze alla meditazione”.
Se un giorno incontrassi o potessi interloquire con Raul, gli chiederei ragione di una frase “E c’è persino una composizione poetica, fortunatamente perduta, intitolata Teresa.” Teresa De Amicis è stata un amor perduto, a dire il vero mai ritrovato, di Francesco: una delle ex allieve torinesi a cui l’esiliato si dilettava a scrivere lunghe e affettuose lettere. Ma perché mai gioisce, Prof, della scomparsa dell’ode scritta con l’animo colmo di sentimento dal tenero Francesco?
Anche il Marvasi, chiunque egli sia, lo ammoniva che troppo tempo passava in quell’occupazione sentimentale: “Voi sprecate il vostro ingegno a scrivere lettere lettere e lettere, ed a baloccarvi con delle bambine.” Che del resto erano ormai sedicenni, ma già impossibili.
“… sia l’esule che l’emigrante, nel momento stesso in cui esportano (magari involontariamente) la loro cultura nazionale, assorbano anche la cultura del luogo che li ospita; tuttavia (al contrario dell’emigrante) l’esule tiene sempre volo lo ‘sguardo’ alla sua terra, alla quale aspira sempre di tornare, e tornando aspira a portare in patria la cultura del paese straniero, ma finché si trova all’estero non può non avvertire anche la necessità dell’operazione inversa, cioè di far conoscere agli stranieri la cultura del proprio paese.”
Francesco si accorge con sgomento che l’amatissimo Leopardi era ivi completamente sconosciuto, se non da qualcuno come filologo, da altri come figlio di Monaldo, mentre invece erano, pur malamente, rinomati Dante, Foscolo e Monti.
Simpatica la scenetta narrata da Francesco stesso, che era ammaliato dalla musica di Liszt, paragonato a una sorta di Paganini e di Manzoni del pianoforte, e che, in quanto napoletano, due dame si aspettavano che da un momento all’altro si mettesse a intonare una melodia. Gli irpinati sono mezzi montanari, più serrati, anzi, come dicono a Castelnovo ne’ Monti, più strict.
Qui l’analisi di Raul ha una perdonabile pecca consapevole, poiché ammette di non sapere (come forse nessun altro mai) se Francesco abbia poi soddisfatto tali richieste.
Il capitolo si chiude con un particolare che apre a sua volta, anzi, spalanca scenari e pone interrogativi ben più terribili: “Il 6 agosto 1860 – precedendo di un mese l’arrivo di Garibaldi vittorioso – sbarca a Napoli, accompagnato dagli amici di sempre…” La seconda domanda che vorrei porre a Raul, ben più grave della precedente, è: si sa cosa vide? Conobbe, o almeno li vide da lontano, Liborio Romano e Salvatore De Crescenzo alias ‘Tore ‘e Criscienzo?
3. La composizione della storia della letteratura italiana
La discussione verte inizialmente su cosa abbiano in comune e diversifichi due storiografi della letteratura, da una parte il nostro Francesco e dall’altra Cesare Cantù. Francesco critica in Cesare tutta una serie di errori (costui confondeva, ad esempio, taluni aspetti della letteratura, fraintendendoli, e disprezzava Ludovico Ariosto, in quanto povero, a suo dire, d’immaginazione e anche Niccolò Machiavelli, per motivi moralistici). In comune hanno il terreno dello scontro, e il contrapporsi dei giudizi (facendo eccezione per Dante), per cui “l’uno colloca in alto quello che l’altro mette in basso.”
Raul però dice, seppur a mezza bocca, che Cesare fu un compilatore di analisi altrui, quasi accusabile di plagio, però di grande successo editoriale, mentre Francesco dovette sudare le proverbiali sette camicie, col rischio di cadere in taluni svarioni, per giungere alla fine a una formulazione storica della sua letteratura. Oggi Francesco, che ha scritto col suo proprio sangue, è ancora letto e studiato, mentre l’ineffabile Cesare probabilmente lo sarà sempre di meno.
La politica in senso lato che, secondo Benedetto Croce, uccise l’ingegno di Francesco, gestiva l’azione delle case editrici: l’una riusciva a convivere in qualche modo con la sua opposta, avendo fini politici divergenti e quindi paradossalmente compatibili nello stesso panorama letterario.
Questa presenza inquietante e insidiosa della politica nel mondo delle lettere è uno dei temi principali dell’opera di Raul.
La “Storia della letteratura italiana” di Francesco, risulta presentare dei caratteri anomali: il Trecento occupa più di un terzo della narrazione; la figura di Dante è debordante anche all’interno del medesimo Trecento, e permea tutta l’opera. Narrazione, appunto. Pur essendo la storiografia letteraria una “continuazione della politica”, cioè un vero strumento della politica”, è anche l’oggetto di un raccontare una Storia.
“Ma se la narrazione serve sempre a dare un senso alle cose del mondo, questa narrazione serviva a fondare una nazione.”
L’Italia anche divisa è sempre stata una nazione “perché capace di produrre cultura e soprattutto letteratura.” Inseguendo un primato che paradossalmente convive con la miseria sociale ed economica, tanto che fa dire a Francesco, in chiusura della sua opera: “E da’ nostri vanti s’intravede la coscienza della nostra inferiorità.” Si tratta di un parto gemellare, a livello di consapevolezza: “letteratura nazionale e nazione italiana…”
Da quel che posso intuire e che sarebbe il terzo quesito che porrei a Raul: si può definire Francesco il primo critico esistenzialista della nostra storia letteraria?
4. La storia desanctisiana come fondazione della nazione

Prof, ho deciso di sintetizzare al massimo la sua lezione, sennò si allunga troppo il brodo e non ci si viene fuori. Se poi mi scappano le consuete piolate, pazienza! Francesco narra storicamente “l’illimitato e sfuggente universo della produzione artistica-culturale della parola italiana, in tal modo – in un certo senso – inventando la letteratura italiana.”
Inventa il suo senso, il suo scorrere storico. Per fare ciò, delimita linguisticamente (solo l’italiano e quindi l’idioma dialettale, anche se espresso ai massimi livelli da Belli e da Porta; ignorando altresì il francese del Casanova, Goldoni ecc.) e come genere (poesia e letteratura d’invenzione e nulla più) tale cosmico italico scritto.
Prima di accusare Francesco di abusi, frena, compagno lettore… Raul prima o poi spiegherà ogni cosa. L’opera storica di Francesco nasce da una scelta cogente, perché attuale, che determina una selezione apparentemente arbitraria dei soggetti esaminati: “Non fo una storia e meno un trattato di filosofia. Scrivo la storia delle lettere.” (sottintendendo: italiane).
La Storia narrata da Francesco ha una direzione dotata di entrambi i sensi: passato e futuro, secondo un significante religioso, che prevede la storica caduta dopo un principio felice, senza mai cessare l’augurio di un definitivo riscatto. La Storia è anche un romanzo con buoni e cattivi, con un plot e una conseguente morale della favola, dove ogni saggio è un capitolo della medesima narrazione, che “vive di un continuo e organico ‘va e vieni’”.
“Il tema posto viene prima definito e svolto, poi fatto oggetto di un contrappunto oppositivo, infine temporaneamente abbandonato, per essere però, di norma, ripreso, a distanza di poche righe o di molti capitoli, ma sempre riconoscibile (e vitale).”
Ludwig van Beethoven quindi, eh, Prof?
“Ci sono tratti linguistici e lessicali (di solito aggettivi, singoli o in endiadi) che fungono da marche del tema e che costituiscono il Leitmotiv di un autore-personaggio, o di un periodo o di un movimento.”
Endiadi, Prof: “Figura retorica per cui si disgiungono due parole l’una delle quali sarebbe il complemento dell’altra: per es. “Notte e ruina” (Leopardi), per ‘tenebrosa rovina’; la notte e il buio invece che ‘la notte buia’”.
A Francesco interessa delineare il processo di costruzione della lingua e dell’unificazione degli Italiani, delle cosiddette “persone civili”. Il peccato originale è stato l’aver sgranocchiato la mela della vicenda cavalleresca, che tanto ha causato il distaccarsi della poesia dalla vita nazionale.
Questo decadimento appare nella poesia dei ceti colti, e in essa s’impantana anche il Boccaccio, il Caino della situazione è Pietro l’Aretino, mentre il ruolo di Abele è svolto da Jacopone da Todi.
Il miracolo salvifico è però compiuto da Dante che già nel Convivio scelse la democratica lingua volgare, accogliendo fra i suoi lettori anche i poco scolarizzati, ma che con la Commedia riuscì a unire le due Italie, quella dei primi e quella degli ultimi: i ricchi di cultura e i meno ricchi. I poveri-analfabeti erano purtroppo ancora esclusi, in quanto non esistevano gli audio-libri. Il capolavoro di Dante diventa quindi il patrimonio di quasi tutti (scelti fra quelli che sapevano leggere e che avevano il tempo di farlo).
La Commedia è la Bibbia, intesa anche come Genesi della letteratura italiana e mondiale.
Il nuovo Caino fu Francesco Petrarca, che riportò la letteratura a un ambiente disincarnato e immaginativo, dove il reale viene definito “falso dolce e fuggitivo”.
Quarto quesito, Prof: cosa sarebbe del Canzoniere senza la Vita Nova?
“Si diparte così da Petrarca la vena più preziosa e vistosa nel marmo delle nostre lettere, la linea della poesia individualistica, disimpegnata, idillica, musicale…”
La simpatia non so quanto subliminale che Francesco rivolge alla riforma luterana, mi pone nella condizione di rivolgerti un quinto quesito, Prof (ma da bar questa volta): è immaginabile il concepire una pur parziale rivalutazione di quel Martin da parte della Chiesa Romana?
Tiremm innanz!
Giungiamo ora a quel Niccolò Machiavelli che ebbe l’ardire di scender “dal piedistallo”. Il quale “ha svolto, e ha fortemente amato un’attività politica al servizio della politica.” Ritornando a guardare in faccia le cose, fondando la “prosa moderna” e la “scienza dell’uomo”.
Francesco fa anticipare con Niccolò l’idea scientifica di Galileo: e in questo prefigura l’unico tema liceale che mi fece meritare un 7 e mezzo, io che veleggiavo, con l’altro Prof, il Dante (Grazioli), intorno al 6 meno meno e che, come un mio compagno di studi, un certo Luigi Pirandello, mi onorai di un 5 in italiano scritto, nel primo anno di liceo!
“Sia Gloria al Machiavelli.”
Un cenno, anche più di uno, al per me sconosciuto Paolo Sarpi. Uno storico che sa essere pratico, comunicativo, sincero, tranquillo.

E cito Sarpi, citato da Francesco, citato da Raul: “Se la restaurazione cattolica fosse stata vera e ragionevole restaurazione, cioè a dire conciliazione, come volea Sarpi, e come fantasticava Campanella, si sarebbe assimilato il nuovo in ciò che era pratico e compatibile. Ma la storia non si fa co’ ‘se’, né col senno di poi. Il movimento era ancora nella sua forma istintiva, nel suo stato violento e contraddittorio…”
Il movimento, mi permette l’allegoria, Prof?, è il gettare un seme che morendo rinascerà piante e frutto.
Alessandro Manzoni incarna il limite dell’ideale, che concilia illuminismo e romanticismo, pensiero cattolico e liberale, “verso cui tende l’intero impianto della Storia.” Ciò che più è presente in essa è l’insieme delle sue assenze, come fa notare Gianfranco Contini. Il contenuto del Terzo Volume, che non fu mai realizzato, fu però ampiamente scritto altrove: nei “Saggi Critici”.
Anche l’iniziale sconfitta storica della “Storia” la fece, per la precedente analogia col seme, diventare paradigmatica. Per cui essa è oggi ritenuta la “Storia della letteratura italiana” per eccellenza.
Raul, tu sottolinei il pathos che trapela dalle pagine di Francesco: è per questo che insisto a dire che esso mi pare esistenzialista, come già l’opera del quasi coevo Søren Kierkegaard, forse più ironico e leggero, ma non meno angosciosamente esistenziato. Ma che fatica, Prof, ad arrivare in fondo al capitolo!
5. L’‘eredità diffusa’ da De Sanctis a Gramsci
Raul ribadisce il concetto: la lezione dell’irpinate unisce indissolubilmente “all’aspetto critico-letterario un aspetto etico-politico, cioè un modo di essere, di rapportarsi con gli altri e di vivere la storia.”
Il secondo eroe della narrazione, l’oristanese Antonio Gramsci, allievo di quel Umberto Cosmo che fu persona eroica e perseguitata dal fascismo come pochi, e grande allievo, pur non diretto, di Francesco, paragona quest’ultimo al più famoso santo con quel nome: il poverello d’Assisi. Entrambi, pur in modi diversi hanno riconsegnato al popolo quello che era suo, facendogli rivivere nell’animo l’ebbrezza, l’uno quella religiosa, l’altro quella che proviene dalla cultura.
Il capitolo è parecchio interessante, trattando la faccenda dei nipotini del trentino Antonio, a cui sono ascritti personaggi immensi come Ignazio Silone (che scopro qui quale bieco delatore fascista, quando si palesava come sincero comunista) e Riccardo Bacchelli.
Ignazio tentò anche una difesa d’ufficio dell’opera del gesuita, autore “del tutto dimenticato, benché fosse un letterato d’indubbio talento e scrivesse un italiano limpido e forbito.” Nella nota n. 83 Raul specifica che “per ‘riabilitazione’ mi riferisco esattamente a un’operazione ‘etico politica’, e non a una disamina “sul terreno specificatamente letterario”. Se devo farti una piccola osservazione, Raul, è che tu non ti esprimi sotto quest’ultimo aspetto. Mi spingi pertanto a cercare di far mio quel deprecabile libro, che diversamente poco mi avrebbe attratto.
Interessante, invece, il confronto fra le opinioni di Antonio e Francesco, su quel terzo Francesco, il Guicciardini, in rapporto a Niccolò. Il passo del nostro Francesco è criptico, e lo capisco a metà, per cui lo cito interamente: “La razza italiana non è ancora sanata da questa fiacchezza morale, e non è ancora scomparsa dalla fronte quel marchio che ci ha impresso la storia di doppiezza e simulazione. L’uomo del Guicciardini vivit, imo in Senatum venit, e lo incontri ad ogni passo. E quest’uomo fatale ci impedisce la vita, se non abbiamo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza.” Qui sarebbero d’uopo, quando ci incontreremo, due parole di commento.
Secondo Antonio, Francesco Gucciardini è più realista e provinciale, Niccolò più utopico ed europeo. Anche qui, due parole non guasterebbero.
6. Che cosa sono e come sono scritti i Quaderni del carcere

Non riporto l’elenco delle malattie, tutte perniciose, alcune letali, che stanno avvilendo il buon Antonio, mentre in carcere invoca dei libri, una penna e della carta per poter finalmente scrivere le sue 2868 pagine, che tante ne contano i “Quaderni”.
La sua storia si assimila nella mia mente a quella di Giacomo Leopardi, che s’era ridotto in schiavitù volontaria, e il pensiero vola, quando colgo la frammentarietà significativa degli scritti dell’oristanese, a quelli di Giacomo, che vennero poi raccolti nello “Zibaldone”.
Ma non riesco a non estrapolare il ricordo di Gustavo Trombetti: “La giornata di Gramsci passava sempre uguale: leggeva, scriveva, quando le forze glielo consentivano passeggiava concentrato nei suoi pensieri. Poi, all’improvviso, si fermava, scriveva ancora poche righe sul quaderno e riprendeva a camminare.”
Questa è la mia vita, con troppo meno eroismo e costrizione, alternata con altri più terreni momenti. Quando da anni stavo imitando, pur senza saperlo, i movimenti di Antonio, non percepivo quella luce che ora invece credo di scorgere. La differenza fra noi due, caro Antonio? I miei sono attimi dovuti a scelte che hanno una fin troppo rispettabile e libera durata. I tuoi no, erano le tragiche conseguenze di una condanna mostruosa.
Antonio: “Sono proprio deciso a fare dello studio delle lingue la mia occupazione predominante; voglio sistematicamente riprendere, dopo il tedesco e il russo, l’inglese, lo spagnolo e il portoghese, che avevo studiacchiato negli anni scorsi; inoltre, il rumeno…”
Raul, nella disamina di come siano stati concepiti e realizzati i Quaderni, sei così preciso (cme un dî in d’al cûl) ed estenuante, che oso dire che solo questo capitolo vale la metà del libro (occupandone circa un quarto). Tralascio una sinossi, perché basta leggere con attenzione il libro e lì c’è tutto; una sola domandina, Prof (sesta, mi pare), dice Antonio: “… se voglio scrivere devo fare della calligrafia a disegno…”. Detto alla romana: “Che vor di’?”
Sintetizzo la tua esegesi sul significato dell’opera. Si tratta si “una grande, originale e incompiuta ricerca intorno al problema e la storia degli intellettuali.” Ad Antonio interessa il ruolo di Lenin quale rivoluzionario, “rivoluzione intesa come conquista dello Stato” e “correlando con quello della soggettività della classe operaia.”
Si assiste a “una curvatura del marxismo di Gramsci, che, essendosi nutrito di idealismo, aspira poi a negarlo e a superarlo (dall’interno) portando alle estreme conseguenze quella identificazione tra filosofia e storia che i filosofi idealisti avevano enunciato, estendendola però al rapporto tra storia e politica.”
Il marxismo è, per Antonio, “filosofia della praxis”, indipendente dalla filosofia stessa, coi suoi concetti di idealismo e di materialismo, secondo gli insegnamenti di Arturo Labriola. Il marxismo attinge da essi, ma non serve nessuno. La storia è un perenne conflitto fra due cesarismi, quello progressivo e quello regressivo, che cede il terreno.
Purtroppo, e Antonio lo pagherà col suo sangue, il cesarismo moderno vincente è di tipo “non politico, ma poliziesco”, e per sconfiggerlo non resta che responsabilizzando e informando le masse proletarie. Si tratta di una lotta per l’egemonia, a cui è destinata a soccombere la classe operaia, se non si provvede a un suo rinnovamento culturale (che non può avvenire che partendo dall’esterno verso l’interno).
La lotta di classe è innanzi tutto di tipo intellettuale: da qui nasce lo sforzo ammirevole di Antonio di discorrere il più sovente possibile con gli operai, in modo diretto ed esclamativo, in maniera da creare un’empatia anche polemica, ma costruttiva. Il suo modo di fare è capace di entrare nella mente e nei discorsi anche di chi è più restio a parlare. Antonio rimane il maestro, ma scende in campo con i suoi alunni dal colletto blu.
In maniera simile, ma diversa, si comportava Francesco, quando evitava la scrivania e scendeva vicino ai banchi dei discenti, ma sempre al di qua, spiacendosi se alla fine questi non applaudivano il loro mentore, dopo non aver nemmeno preso appunti del suo dire. Era peripatetico a metà, Antonio lo è del tutto, coram populo, e rimanendo ben saldo in mezzo ad esso, nonostante le menomazioni fisiche.
Per Antonio la subalternità degli operai è intesa come un accidente momentaneo, da superare al più presto, secondo una dialettica che prevede tempi e modi precisi, all’interno di una strategia.
Il folclore popolare è una “concezione del mondo e della vita”, un’arma potente da utilizzare, da parte dell’insegnante, per favorire lo sviluppo di quello che in nuce esiste già.
Raul: non è chiara la differenza fra senso comune e buon senso. Intendo, ma forse erro: il primo è quello che scende dall’alto, dai piani nobili e filosofici, il secondo è quello che nasce dalla praxis, dall’esperienza esistenziale. Non so, Prof, attendo lumi. Forse il senso comune che Antonio auspica è che diventi buon senso.
“Tuttavia il punto di partenza deve essere sempre il senso comune, che spontaneamente è la filosofia delle moltitudini che si tratta di rendere omogenee ideologicamente.”

Per te, ma non per me, Raul, Antonio è l’Anti-Croce. Per Benedetto l’arte è educatrice in quanto arte, punto. Dire arte educatrice diventa perciò un pleonasmo. L’arte, per lui, è un quid che esiste là, in alto, e per andarci occorre saper librarsi in cielo. E gli altri? Questa è la ragione di Antonio: occuparsi di chi ancora non sa ancora volare.
In Italia nazionale e popolare non sono sinonimi, diversamente da altri paesi, dove al popolo è stato concesso d’imparare. L’inglese di Geoffrey Chaucer fu linguaggio del Popolo, poiché si contrapponeva all’idioma francese in auge presso le classi aristocratiche, mentre il volgare di Dante rimase un immenso patrimonio di proprietà solo di alcuni, non di tutti. Dante fondò una lingua letteraria italiana, Chaucer un linguaggio compiutamente nazionale.
Lo stile di Antonio, in quest’opera immensa e complessa, è particolare: tende a sorprendere, a tenere sempre sveglio il lettore, secondo uno stilema ricco di parole e concetti chiave (come ad esempio brescianesco), destinati talvolta a dissimulare elementi verificabili dalla censura a cui viene sottoposto ogni scritto in uscita, per cui Lenin diventa Iliĉ, o Ilici o Vilici.
Gramsci non parla di sé e del momento critico che la nazione sta vivendo, quanto di tutti gli argomenti intellettuali (storia, politica, linguistica, filosofia, economia, sociologia). La sua forma incompiuta non è dissimile dall’incompiuto novecentesco, che tenta di rappresentare “quel gran mare concitato da’ venti”, che ricorda in una qualche modo i guicciardiniani “Ricordi”.
Per quel che ne so, Antonio ha fallito la sua missione: la sua opera è sconosciuta ai più, meno in Italia che all’estero, e destinata all’intellettuale mosso da pruriginoso interesse (come sono io, ad esempio) e non certo alle masse. Questo non significa che la sua lezione fosse infondata o scorretta. La classe dei discenti è (rimasto) il problema. Molti miei conoscenti possiedono l’opera completa di Antonio.
Il settimo quesito che ti pongo è: l’avranno letta, e in che misura?
Vorrei farti ora una critica: non ha senso porre Antonio contro Benedetto, o viceversa, a meno che non sia per mera tattica dialettica, di cui non sono certo di scorgere il lato positivo, che forse ci sarà. Equivale per me a dire che Martin Heidegger parla di aria fritta rispetto a Karl.
Quando lessi un giorno che, secondo Benedetto, i canti dottrinali del Paradiso dantesco non erano poesia, ebbi una reazione leggermente scomposta. Ma lo perdonai: se la vede così, mi dissi, peggio per lui.
Ti informo del detto arsan (celebre nella mia terra reggiana, dove molti vecchi, morti da pochi decenni si chiamavano Nullo in omaggio a Michail Bakunin, che pascolò cercando seguaci nelle nostre lande, specie nella bassa): “Ogni caiòun a ga’ la so pasiòun”.
7. “Il canto decimo dell’Inferno” di Gramsci
A parte tre piccolissimi refusi, non c’è nulla di sottolineato, anzi, di sottolineabile. La disamina di Antonio verte sull’argomento: a chi appartiene maggiormente il canto, a Farinata degli Uberti o a Guido Cavalcanti. Al secondo, anzi, no, a tutti e due, risponde Antonio: “… il vero punito tra gli epicurei delle arti infuocate, perché, trattandosi della perdita del figlio, non può reagire alla notizia eroicamente, a differenza di Farinata, di cui Cavalcanti era genero.”
Inoltre: “… la legge del contrappasso per cui erano dannati era la stessa…”
Metaforicamente c’è chi intende sottolineare l’analogia fra la coppia di affini e la coppia Palmiro-Antonio. Fra questi non mi pare ci sia tu, Raul, che difendi il ricordo di una collaborazione, tenuta segreta, fra i due capi comunisti. Per il resto, rimane poco da dire, se non che in questo capitolo sei più cavilloso del solito, ma essendo assai breve, ti basta il mignolo.
8. Il “rovescismo” dei pronipoti di padre Bresciani

In cosa consiste, ‘sto rovescismo, se non nella menzogna che rovescia la verità, ben più di qualsiasi revisionismo?
Antonio è “il pilastro su cui si è storicamente costruita in Italia (e non solo) la piena legittimazione ideologica e l’autonomia cultural-politica e morale del movimento operaio ed è dei comunisti…”
Essendo egli ormai assurto a monumento e vanto nazionale, non potendo più essere scalfito dalle critiche malevole, ecco che tali vengono definiti i suoi solidali, fra cui soprattutto Palmiro.
Fino ad arrivare a pronunciare atroci fesserie, quali, una per tutte, che Benito Mussolini l’aveva recluso per proteggerlo da Stalin.
L’argomento è orrendo ma per fortuna trattato in poche pagine.
9. Il professor Lo Piparo e l’inesistenza del quaderno scomparso
Premetto che in arsan pipeda significa pipata, ma anche frottola, stupidaggine, bagattella, fesseria, oppure cosa da poco conto (parlêr ed pipêd). Purtroppo, anche in questo capitolo, assai e ingiustamente lungo, Raul usa un dito, mi pare il medio, per dimostrare l’insensatezza della tesi del professor Franco, che sono felice di non aver mai avuto in commissione d’esame.
Nulla dico delle tesi del filologo, bagherino, o bagherese? Ma sì, sarò per un attimo Franco, lo faccio: a) qualcuno ha trafugato un quaderno di Antonio in cui, probabilmente, egli si dichiarava qualcos’altro che comunista; b) Antonio fu protetto da Benito da quei rossi che chissà perché sicuramente ce l’avevano con lui).
Raul segnala alcune frasi in cui abbondano i congiuntivi e i condizionali.
Potrei riportarle, se fossi pazzo.
Il fatto è che quando il discorso sta diventando maleodorante, non per colpa di Raul, ma del suo dito, salta fuori il colpo di scena che tanto avrebbe esaltato il mio Jorge (Borges, per chi non ha capito di chi si tratti), che una volta disse che “Ogni autore crea i suoi predecessori”.
Infatti il vero deus ex machina e maggiore responsabile dell’intera questione è… udite udite… nientepopodimenoche… ta ta tan!… Platone!
E qui io ammetto che non c’ho capito più nulla, fino a che… a quel Magico Nome è stato aggiunto un assurdo quanto inequivocabile Felice, pregevole persona nata nel minuscolo comune di Azzano nel Panaro, nell’astigiano, partigiano, comunista, nonché primo curatore, insieme a Palmiro, delle opere scritte da Antonio in carcere. Rinuncio ulteriormente a capire, perché a questo punto disinteressato.
La domanda unica che vorrei porre a il signor di cui al titolo, ma non a Raul che mi pare già sufficientemente nervoso, è doppia:
- perché nessuno legge l’opera di Antonio, mentre così tanti cicisbei vanno inseguendo quel che non fu mai scritto?
- perché pur non avendo mai evidentemente letto l’illeggibile lei, professore che mi onoro di non voler seguire, ha stabilito cosa potesse esserci scritto?
Chi sa parli!
Ma gli ignoranti e i maliziosi tacciano per sempre!
Oh bein bein!
10. Orsini: la più bella rifessione teorica fatta sulla sinistra in questi ultimi anni
Si paragoni il commento di Roberto Saviano contenuto nel titolo, con quello di Angelo D’Orsi, storico e grande conoscitore di Antonio, che definì lo stesso libro “una porcheria”.
Roberto è uno studioso dell’oristanese come me, anche se ignoro se abbia mai letto alcunché delle sue opere, quindi lo potrebbe essere anche di più. Ma meno di Angelo, sicuramente, e forse anche meno di Alessandro Orsini, autore dell’opera qui incrim… ehm… esaminata: “Gramsci e Turati: le due sinistre”.
Secondo Raul, Alessandro, nella sua disamina, compie errori procedurali (a partire dall’utilizzo di una versione diversa da quella critica integrale), che nemmeno uno studente di laurea triennale compirebbe. Inoltre, cade più di una volta in fraintendimenti cronologici gravissimi.
A prescindere da ciò mi preme sottolineare che, nel caso di specie, Raul utilizza l’anulare.
La tesi di Alessandro tradotta da Raul è che i comunisti gramsciani sono “brutti, sporchi e cattivi”, mentre i riformati, ispirati da Filippo Turati sono “belli e buoni”.
Non che sia importante ai suoi occhi, ma a Raul scappa detto che, quando Alessandro “fu ‘trombato’ a un concorso universitario presso l’Università di Chieti, il Corriere della Sera pubblicò un articolo di protesta.”
Direi di passare oltre, Prof… D’accordo?
In ogni caso permettimi di suggerirti di cambiare il titolo per una prossima edizione del libro, comprensivo di parentesi: (Loria, non Loira!).
Per capire la battuta occorre leggerti fin qui.
11. Togliatti traditore? Giuseppe Vacca e il “Non si può escluderlo”

Per sostenere le sue antitesi, rispetto a quelle di Giuseppe, Raul tiene il libro del Presidente dell’Istituto Gramsci, rispettosamente in mano, coi guanti e con sguardo diffidente e iroso.
Interessante è il paragone che Raul fa tra rovescisti e vampiri: entrambi si ammucciano e zittiscono all’insorgere della luce, quella dell’analisi filologica i primi, l’atmosferica i secondi.
Giuseppe non è un rovescista, ma uno studioso che incorre saltuariamente in errori interpretativi.
Egli troppo sollecita i testi, cioè induce loro a parlare con la propria voce, e non con la loro: che è un infido errore filologico, stigmatizzato dallo stesso Antonio.
Le due tesi principali di Giuseppe:
- una deviazione americanista di Antonio
- una tattica anti-gransciana condotta da Palmiro
Raul, permettimi, da ignorante di filologia quanto di politica (la mia professione è “reagente biochimico di tipo sinaptico”, uno che non fa tabula rasa, già screpolata per conto suo, ma uno che si limita a cambiare di volta in volta il soggiorno): quando queste due scienze umane vengono a contatto s’imbastardiscono e producono gli effetti vaccheschi o vaccini che tu descrivi. Non ho null’altro da aggiungere a questo, se non un invito: occorre leggere il libro di Raul per comprendere meglio l’anima italiana e il suo debordamento politico.
12. Conclusione: la dialettica e il problema degli intellettuali
Finale interessante, che mi permette di riconoscere un mio errore interpretativo: Antonio è veramente l’Anti-Croce, come Benedetto è l’anti-Gramsci, quando s’avvede della critica con cui il primo sottopone il pensiero suo.
Questa è l’Italia, perennemente divisa, municipalizzata, dove l’antagonismo diventa ogni volta scontro tribale, motivo per cui io mi sento poco italiota: a questo termine preferisco quello rimante di idiota (dostoevskiano).
Il mio proponimento quasi finale è di riportare il suo giudizio conclusivo su Gramsci:
“La dialettica gramsciana è alla base del processo di auto-liberazione delle masse subalterne, che coincide largamente con il problema di determinare ‘un progresso intellettuale di massa’, cioè un’intellettualità organica alla classe proletaria, soggetto collettivo in quanto ‘moderno principe’ di una nuova egemonia.”
Si tratta di un’utopia? Forse non dissimile all’ideale di fraternità proposto da un Giudeo.
La vogliamo chiamare eu-topia?
Mo’ ti spiego, Prof.
Voglio giocare sul parallelo analogico, anche se dal solo punto di vista nominalistico: mi auguro (temo di no, però!: o sbaglio?, l’ultima terrificante domanda!), Raul, che tu conosca le opere e il pensiero di Padre Aldo Bergamaschi, allievo di Don Primo Mazzolari, alle cui funzioni religiose assistetti per anni, pur non essendo credente.
Non ateo, non agnostico, ero un ignorante di dio che ambiva a capire il mistero che permea il pensiero di chi ci crede.
Aldino mi rimane impresso principalmente per due sue frasi: “Il Cristianesimo è scaduto al rango di religione!” e quando disse, il giorno delle missioni: “Io non vi dico di non dare, ma solo che questi vostri soldi contribuiranno a costruire in quelle lande disgraziate una società simile alla nostra.” Non so quanti capirono il suo messaggio. Egli credeva non in una u-topia, ma in un’eu-topia, in cui si potesse vivere, pur nella divisione delle etiche (a partire da quelle più semplici, come quelle alimentari), purché fossero improntati a un rispetto reciproco: fra individuo e individuo, fra uomo e donna e fra cittadino e stato.
Te ne parlo non solo perché egli è ormai dimenticato, ma perché nelle sue omelie egli citava chiunque si poteva inserire nel discorso che intendeva fare: e uno dei suoi preferiti era quell’Antonio di cui hai ciarlato lunga pezza. Non ricordo se parlò mai di quel Francesco.
Del Poverello d’Assisi sì, tantissimo, dell’Irpinate non so.
Tu l’hai fatto e ti prometto che presto leggerò la sua “Storia”.
Perciò, grazie di tutto.
P.s.: un’ultima penosissima chiosa (sembra che l’attrazione verso il tuo libro non debba cessar mai: buon segno), ma solo per rigirare un’ultima volta il dito ormai contaminato nella piaga che sento in te non ancora rimarginata. Due miei amici marxisti, che non vogliono assolutamente essere chiamati ex comunisti, posseggono l’opera omnia di Antonio, che fa bella mostra di sé nelle loro rispettive biblioteche: nessuno dei due l’ha (ancora?) mai letta.
Ho conosciuto dei musulmani a cui ho detto di aver letto con grande interesse la traduzione italiana del Corano e che hanno mostrato di apprezzare non solo la buona disposizione, ma soprattutto la mia distinzione filologica.
Alla domanda: “Tu l’hai letto?”, la risposta migliore è stata evasiva: “Qualcosa…”.
Io avrei tre paginette di quesiti da porre a un esperto islamista.
Qualche consiglio, Prof?
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Raul Mordenti, De Sanctis, Gramsci e i pro-nipotini di padre Bresciani, Bordeaux Edizioni