“Dio di illusioni” di Donna Tartt: un elitario college nel Vermont
La mia illusione preferita è che, leggendo, si scopra una parte di me che ancora non conosco.

Non quale Dio di illusioni me l’abbia suggerito, non domando tanto né forse m’interessa. Mi piacerebbe parlarne con Donna Tartt, l’autrice.
Per una volta, ringrazio l’editore italiano di aver scelto il titolo. Nell’edizione originale doveva essere God of Illusions, poi si scelse di chiamarlo The Secret History. Ogni storia è segreta, finché non viene osservata dal lettore. In inglese si differenzia fra story, narrazione di anime singole; e History, resoconto di avvenimenti pubblici. A dire il vero non sono certo che sia così. Se mi capita di imbattermi in te, Donna, te lo chiederò.
In italiano, Donna is woman, come nome di battesimo assurdamente non esiste. Ogni lingua ha le sue pecche, its pities. Prima del tuo romanzo ho letto I cercatori di conchiglie della britannica Rosamunde Pilcher, molto bello, e non definibile come solo un romanzo sentimentale: lo è, ma è tanto altro. Anche il tuo lo è, e non solo tale. Ora sto leggendo Gli ambasciatori di Henry James, sia britannico che americano, un romanzo che fa sembrare Ulisse di James Joyce una serie ordinata di passeggiate. Ho letto l’introduzione scritta dal medesimo autore, che però non ho capito granché. Sento che dovrò rimasticarla a lungo se voglio sperare di venirci fuori.
La lettura è un atto che non prevede un Infine, a finally… Di ciò m’ha convinto la lettura delle poesie di Samuel Taylor Coleridge. La fine, the end, è il punto di non ritorno a cui deve tendere ogni autore; anzi, no: può, ma se riesce è meglio. Gli è pure consentito fermarsi presso l’orizzonte estremo degli eventi, ancora distante dalla singolarità conclusiva, che tutto ingoia, senza manco ringraziare, e lasciando l’opera incompiuta. Esistono varie generazioni. Ci fu quella cosiddetta perduta, anche perché troppi di quei ragazzini creparono in una polverosa trincea. A Giuseppe Ungaretti andò meglio che ad altri. Sopravvisse e scrisse la sua Allegria di naufragi. Negli anni ‘70 nutrii la mia anima con gli aulenti conati letterari di Allen Ginsberg, Gregory Corso, Jack Kerouc, Neal Cassidy, Lawrence Ferlinghetti etc: the so called beat generation. C’è chi interpretò beat con beaten; chi con beatific.
Dio di illusioni di Donna Tartt è un romanzo è dotato di un io narrante. È il mio tipo preferito, il più difficile. Charles Dickens, Alexandre Dumas padre, Fëdor Dostoevskij e tanti altri sono enormi anche grazie al lui narrante. Tu sei grande anche senza. Il tuo thriller inizia accennando al cadavere di “Bunny”, quel non sempre adorabile coniglietto. Rabbit non avrebbe reso l’idea. L’io di nome fa Richard Papen. Richard, secondo l’etimo, vuol dire ricco e audace, il che mi ricorda Richie Rich, uno dei personaggi dei cartoons che meno ho amato. Le persone troppo ricche sono fastidiose. Ma il tuo Richard non è né abbiente né coraggioso. È Papen: cartaceo. Però ci si può immedesimare in lui. Il lettore si chiede spesso: io che avrei fatto al suo posto? Due genitori smarriti, pressoché persi, anche se ancora viventi. Quella di Richard è una fuga da quel che fu, quasi fosse un immigrato su un barcone. La sua chiatta è inclita come poche: non solo un’università ma anche un corso di studi con il professore “Julian” che promette faville, esclusivo: che prima lo esclude, infatti; e poi lo ammette, benevolmente. Il suo corso ha cinque studenti più uno: Richard Papen. Poi si ridurranno.
Scrive Richard: “Se c’è un’arte in cui eccello è quella del mentire su due piedi. Una sorta di dono naturale.”: lo si capisce a ogni piè sospinto.
Il professore gli dice: “Lei ha un nome bellissimo, sa? Una dinastia di francesi si chiamava Pepin…” – e io che pensavo a Richard… In italiano Pepin è Giuseppino, Little Joseph. Leggendo il romanzo acquisisco molte espressioni in latino, tipo quella esposta a pagina 45 de Dio di illusioni: “Cubitus eamus?” – e altre di greco che però scordo, non avendo fatto studi classici. I miei due figli sì, e passerò loro il libro.
“… Ebbi paura di mentire…”; “… mentii…”: pagina 47. Julian mi dà la stessa impressione di alcuni fondamentalisti (cattolici, che ben conosco): chiede ai suoi adepti di allontanarsi dai loro ex con-fratelli e di diventare una tribù di eletti. Sento puzza di marcio e, considerate la prima pagina del romanzo, d’immolazione di corpi.
Pagina 165 de Dio di illusioni: “Povero Bunny. Non ammetteva mai d’essere ubriaco; diceva sempre d’aver mal di testa o di dover cambiare le lenti degli occhiali.” – nel tuo romanzo chi mente fa una brutta fine oppure sta tanto male. Chi dice la verità forse non esiste nemmeno: anche perché tutti sembrano star male. Non ce n’è uno felice. Chissà dove ha riposto la serenità? Le bugie svolgono la funzione delle pillole per l’emicrania. Curano il sintomo, non l’infezione. Una delle risposte che meglio si adattano a ogni situazione è quella che l’io dà a Henry (il poliglotta coetaneo) a pagina 191: “Non so…”
Henry deriva dal germanico heim, casa, congiunto a rich, potente come un re, dominante. Egli domina nella casa che lo ospita insieme ai suoi complici. Al suo livello c’è solo il prof. Julian, il cui nome deriva da Giulio, con l’etimo hilé, bosco in greco. La gens Iulia pare derivasse, da Ilio. Julian è il presidente che presiede; chi materialmente comanda e offre al contempo servizi è Henry, munifico e magnifico, come un Lorenzo de’ Medici. La sua cultura impressiona, ma sono contento di non condividere il mio tempo con lui.
“Poi Charles avanzò, chinandosi su qualcosa ai miei piedi; m’inginocchiai anch’io, e vidi che era un uomo. Morto. Avrà avuto una…” – l’io che parla è Henry, che narra il fatto al fido Richard.
Pagina 252 de Dio di illusioni: “Credo che scoprire la verità sia sempre uno degli shock più brutti per chiunque…” – brutto deriva da brutus, grezzo; ugly mi pare significhi in primo luogo rugoso, non aggiustato da trucchi vari. Detto arşân, di Reggio Emilia: a sûn brót ma s-cet: sono brutto ma schietto. La schiettezza è un dono che può recare male, o salvare la vita. Arnold Schwarzenegger soleva dire (oggi non so): no pain no gain. La verità ti fa andar avanti, ma prima ti dà una botta in testa.
“Crudeltà, dunque, delle più gratuite: le mie menzogne sui miei genitori erano plausibili, ma non reggevano a tali sfolgoranti attacchi.” – … è spuntato a pagina 254, dove l’io compie un catartico e salvifico gesto di damnatio memoriae. E Josif Stalin qui avrebbe applaudito!
A pagina 291 de Dio di illusioni, il dotto Henry parla del “punto x” a cui si giunge seguendo “il cammino più logico” – la geodetica direbbe Albert Einstein, la minor azione possibile direbbe un qualsiasi fisico quantistico. Un’illusione umana è che le azioni possiamo guidarle noi, grazie all’Enten-Eller di Søren Kierkegaard. Chiamalo se vuoi destino, che de-stina da qui a lì, e non Fato preconfezionato da qualche trombone di Dio Olimpico.
Si chiede Henry: “La ragione non sfugge a un occhio attento; ma la fortuna? È invisibile, stravagante, celeste…” – il tuo problema, amico, è che scegli la prima risposta che ti spunta in mente, cessando subito dopo la ricerca. Pensa a quel Samuel Taylor Coleridge, per cui (le parole sono mie ma le ho acquisite da lui, leggendolo): la Verità non esiste, la Bellezza (forse) sì. John Keats giunse ad affermare: A thing of beauty is a joy for ever. Che gioco illusorio, però. Nella vita è spassoso giocare, altro che!
Dice l’emozionato io: “… temendo di dire o fare qualcosa di sciocco, di cui mi sarei pentito, presi il cappotto, terminai il caffè e me ne andai senza neppure un frettoloso saluto.” – not even a hello!
Frase che mi stordisce, divisa tra pagina 303 e 304: “Be’, se ti svegli con l’intenzione di ammazzare qualcuno alle due del pomeriggio, è difficile pensare a che cosa dar da mangiare al cadavere la sera a cena!” – giusto… Henry ha sempre la risposta corretta (per lui: ergo per i suoi follower).
Sta per richiudersi (su di sé) il Libro Primo. L’esergo del secondo cita un certo Dioniso, che noi latini chiamiamo Bacco: per dire che una cosa è ovvia diciamo Perbacco!
Il bello e il brutto dei tuoi romanzi è che le scene clou (i due assassini) sono appena accennati, quasi fossero quisquiglie al confronto delle cause e conseguenze, incidenti di percorsi, pur necessari.
Pagina 312 de Dio di illusioni: “… quando le ceneri sono fredde, la gente in lutto è andata via; quando ci si guarda intorno e ci si ritrova in un mondo completamente diverso…” – … e si capisce che qualcosa di grave è successo.
In un paio di occasioni, quando l’io si decide a parlare nel corso di una telefonata, accade questo: “‘Henry’ dissi, ma aveva già riattaccato.” – e l’io non ci pensa nemmeno di richiamare. Anche perché Henry non ama essere scocciato, non risponde nemmeno se sente un centinaio di squilli. Ha abbassato la soneria? O se ne frega?
Pagina 318: “Non so cosa le risposi, frasi incoerenti sul fatto che non mi sentivo bene.” – l’amnesia è un effetto della posologia. A pagina 319 una certa Judy “Continuò a blaterare. Io la fissavo, perduto nei miei angosciosi pensieri.”
A pagina 402 scopro “come i greci chiamavano Dioniso…” – ma non lo dico, perché vorrei che tu, mio ipotetico lettore, conoscessi di persona Richard (e Donna). T’accenno al fatto che per ingannare gli uomini occorre essere “Multiforme” – accidenti! M’è scappato!

La ragione del perché esiste la nefanda guerra è esposta a pagina 403: “Delitto è contaminazione. L’assassino insozza chiunque venga in contatto con lui. E l’unico modo di purificarsi dal sangue versato è con altro sangue…” – in italiano si dice Sangue vuol sangue.
Tante sono le citazioni presenti nel romanzo Dio di illusioni. Una (anonima) è depositata a pagina 445: riguarda Delitto e Castigo del citato scrittore russo. Si può dire che il tuo romanzo, Donna, è la sua negazione. C’è delitto, c’è castigo ma non c’è manco la tolstoiana Resurrezione. Il delitto più grave è del lettore, che non riesce né a condannare, né ad assolvere l’assassino, provando un minimo di simpatia per i suoi complici. Henry è posto troppo in alto per essere ammirato o vilipeso. O impiccato per i piedi, come accadde a qualcuno.
Sai, Donna, che non conoscevo l’espressione che colgo come un fiore a pagina 473: salutare “alla maniera europea”, cioè con “abbraccio e bacio sulla guancia”. Ero convinto che fosse un modo di fare tipico nel mondo…
Pagina 477: “… con Bun morto e sepolto, a quanto pare gli argomenti di conversazione scarseggiavano, né c’era motivo per restare alzati fino alle quattro o cinque del mattino.” – buonanotte, cari assassini, gli avete pure amputato due lettere!
La pagina dopo: “Non facevo nulla di male, eppure mi sembrava di compiere un sotterfugio, di vivere una vita segreta che, per piacevole che fosse, prima o poi avrei scontato.” – la morte si sconta vivendo, cantava il citato Giuseppe, prima di tutte l’altrui.
Pagina 491: “… dai gemelli, la domenica sera, avendo bevuto un po’ troppo, mi ritrovai a raccontare la storia a Charles in cucina dopo cena.” – in vino veritas, detto latino, che ben ci starebbe.
Charles dice di Henry (pagina 502): “… non tanto del fatto che lui ci dice che cosa fare, ma piuttosto perché noi facciamo sempre ciò che dice.”
Henry è soddisfatto: il suo gesto ha compiuto un vero prodigio: “Vivere senza pensare”. Prima, dice: “Era difficile prendere delle decisioni, mi sentivo immobilizzato.” – ogni decisione è giusta.
Vedi, cara Donna, caro Richard: a pagina 558 ho disegnato tre cerchi diversi, ognuno con due archi, che contengono la lettera K e la lettera K. Che vuol dire? Kósmos, ordine, e Kaos, baratro in cui precipita tutto quel che siamo e abbiamo. Ognuno di noi ha le due K che si fronteggiano, talvolta vince l’una, talvolta l’altra. Mai pareggiano: sono sempre in conflitto. Nessuna delle due udirà mai il fischio della fine del match. C’è chi bisbiglia che, in ambito locale, perfino collaborino.
Henry sta male, molto male, è deluso, molto deluso. Julian, che, come dice a pagina 582, che amava più del “padre” naturale, che era il padre che si era scelto, se n’era scappato (come un ladro) via!
È come se quel Lawrence avesse detto ai suoi beati poeti che aveva scherzato, che non li avrebbe pubblicati più, che se ne doveva tornare a casa sua, chissà dove, ma lontano. Sarebbe stata una tragedia multipla. Quel Gregory avrebbe fatto scoppiare una Bomb, io lo conosco bene quello.
Pagina 621: “Che cosa sono i morti, poi, se non onde ed energia, luce che brilla da una stella morta?” – una risposta può essere che, per quanto una luce sia l’ente più rapido che ci sia, quella che scorgiamo appartiene al passato che non c’è più, se non nell’illusione esistenziale. Death can be delicious. Bisogna saperla prendere. Take it easy!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Donna Tartt, Dio di illusioni, Rizzoli, 2014
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