“L’inquietudine di un destino” di Filippo Casati: la prefazione di Cristina Zaltieri
“«Diventare ciò che si è» significa portare allo scoperto, nel duplice senso dello svelare e del realizzare, la nostra necessità; significa trasmutare, mediante una sorta di procedimento alchemico, il puro fatto contingente del nostro esistere in destino, la bruta fattualità del passato in ciò che ha da ripetersi, in un «così volli che fosse, così voglio, così vorrò».” ‒ dall’introduzione de “L’inquietudine di un destino”

“L’inquietudine di un destino”, edito nel 2025 nella collana editoriale Il corpo della filosofia diretta da Rossella Fabbrichesi e Cristina Zaltieri per la casa editrice mantovana Negretto Editore, è un saggio di Filippo Casati che esamina la vocazione pedagogica ‒ una vera e propria nuova Bildung (formazione) ‒ che interessò, sin dagli esordi giovanili, il filologo, poeta e filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844 ‒ 1900).
“L’inquietudine di un destino” principia con la Prefazione di Cristina Zaltieri intitolata La Bildung come metamorfosi del mondo nell’uomo; segue l’Introduzione Come si diventa ciò che si è curata dall’autore; il Prologo suddiviso in Come si partorisce un centauro: critica della cultura e formazione dell’uomo negli scritti del periodo basileese e L’uomo in frantumi; la Parte Prima Uno sguardo nell’abisso: identità e genesi dell’umano; la Parte Seconda La sete dell’anello: il problema della Bildung fra natura e cultura; l’Epilogo suddiviso in Incorporare l’immane e Tramonto; una sezione dedicata alle opere di Friedrich Nietzsche; una corposa Bibliografia ed i Ringraziamenti finali. L’immagine di copertina è un acquerello di Giovanni Galafassi.
Filippo Casati, docente di filosofia e storia e nei licei, si occupa di attività di divulgazione culturale, ha precedentemente pubblicato lo studio Dall’individualità dispersa al grande tipo. Problema della decadenza e costruzione del Sé nel pensiero di Friedrich Nietzsche nella rivista online di filosofia Nóema. Con “L’inquietudine di un destino” si pone la questione della temporalità e della storicità della Bildung nella costruzione dell’individualità per l’impresa di ridiventare classici nell’epoca della tecnica. Il tema è ciclico, infatti, in ogni secolo la ripresa del classico ‒ del mito e della filosofia della Grecia antica ‒ ha prodotto nuovi maestri e nuovi discepoli con lo scopo di un’assimilazione con le abilità tecniche dell’essere umano.
“La missione della quale il filosofo si sente investito è quella di «preparare l’umanità a un momento di suprema riflessione su se stessa»,[1] di portare alla luce i sintomi, non ancora pienamente espliciti, della crisi identitaria che affligge l’Occidente, non per placarli, ma al contrario per spingerli fino alle loro estreme conseguenze, affinché possano un giorno rovesciarsi nel loro opposto ed aprire a nuove forme di soggettivazione, ad inedite (oltre-umane) declinazioni dell’umano. Crisi è dunque il momento della decisione, in cui si profila l’alternativa fra la catastrofe e la palingenesi, fra il definitivo decadimento dell’uomo e il superamento dell’umanità così come la conosciamo. Il filosofo è «dinamite»[2] e si incarica di accelerare questo processo, di fare esplodere le contraddizioni della sua epoca, affinché essa possa procedere oltre se stessa.” ‒ dall’Introduzione di Filippo Casati
Per gentile concessione dell’editore Silvano Negretto pubblichiamo un estratto tratto dalla prefazione di Cristina Zaltieri, docente di filosofia ai licei e cultrice di filosofia all’Università di Bergamo. Precedentemente altri suoi lavori filosofici sono stati pubblicati per gli editori Guerini e Mimesis.
Estratto dalla prefazione di “L’inquietudine di un destino”
La Bildung come metamorfosi del mondo nell’uomo
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Il titolo stesso di questo libro, L’inquietudine di un destino, dà da pensare tanto da richiedere un movimento di riflessione che lo attraversi ripetutamente, Nietzsche direbbe che va “ruminato”. Di primo acchito suona vagamente ossimorico accostare il destino – che la tradizione filosofica ci ha abituato a considerare una totalità necessaria, in un certo senso immota ‒ alla inquietudine che, di contro, richiama un movimento incessante, un’agitazione, un’assenza, appunto, di requie. Ma inquietudine e destino in effetti riescono ad assumere tonalità particolari nel pensiero di Nietzsche fino a legittimare la loro unione in un’endiadi.
In primo luogo, il destino di cui parla spesso Nietzsche, non lo si può attendere fatalisticamente, è ben lungi dal presentarsi come un tutto che sin dall’inizio, dal primo esordio, ha in sé, in germe, la propria forma, il proprio compimento garantito; è un percorso che non dà quiete a colui che lo incarna perché il suo adempimento chiama all’opera, è un da farsi continuo, in termini di movimenti reiterati, squilibri che si succedono, crisi, riprese…
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Vi è una diffidenza, un’avversione nietzscheana per la «felicità della quiete» perché in tale visione di totale abbandono della tensione, di dismissione dell’opera, il filosofo vede qualcosa in antitesi con la vita, non a caso accosta quiete e desensualizzazione, accomunate come espressioni antivitali. Se la vita è un campo di forze, una manifestazione di potenza (cellulare, affettiva, espressiva, interpretativa…) che attraversa tutti gli enti, allora si può esprimere al meglio nello sforzo, nell’operare di contro ad una resistenza, ad un’opposizione. Nota, a proposito, Casati: “La stasi, la pace assoluta, il superamento della contraddizione fra gli opposti, fanno parte del regno dell’inorganico, hanno a che fare con ciò che è morto: non a caso Nietzsche interpreta la volontà di pace e riposo come una “volontà di tramonto”, come una nichilistica pulsione di morte, come autonegazione della vita”.[3]
Anche considerando il termine «inquietudine» nel suo senso psicologico-emozionale come turbamento, ansietà, stato di tensione, esso pare ben riferito al destino del filosofo, di ogni filosofo che sia tale. Infatti, nella seconda inattuale dedicata a Schopenhauer Nietzsche racconta questa storia: “Diogene, dal canto suo, obiettò una volta che gli si facevano le lodi di un filosofo: «Che cosa mai ha da mostrare di grande, se da tanto tempo pratica la filosofia e non ha ancora turbato nessuno?» Proprio così bisognerebbe scrivere sulla tomba della filosofia delle università: «Non ha mai turbato nessuno»”.[4]
L’opera del filosofo se non vuol rischiare di ridursi ad un mestiere svilito, deve per sua natura inquietare perché solo nell’inquietudine ci costringiamo al pensiero. Nietzsche non partecipa al coro numeroso e illustre dei pensatori che attribuiscono la scaturigine della filosofia alla meraviglia – Platone, Aristotele, Descartes. La paideia tragica, presocratica, che rimarrà per lui fonte d’ispirazione costante, non nasce dal thaumàzein[5] bensì dall’eminentemente inquietante: il dionisiaco e dalla necessità di contenerlo in forme apollinee in modo che la autosomministrazione della sua sapienza, non tollerabile altrimenti, sia resa possibile e possa così potenziare la vita dei greci dell’epoca tragica.
Senza la quiete di una risposta ultima e conclusiva, dunque in questo senso inquietante, resta anche il denso percorso qui proposto da Filippo Casati che invece di tentare la soluzione dell’enigma-Nietzsche lascia saggiamente aperte al lettore nuove domande, stimola nuovo pensiero.
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La storia della Bildung nietzscheana ha anch’essa avuto un suo destino, ha attraversato anch’essa varie avventure nel corso della letteratura dedicata al pensatore di Röcken. Per lungo tempo, tranne poche e solitarie voci, la lettura dominante di Nietzsche era quella che lo consegnava, secondo la fortunata formula di Paul Ricoeur, alla «scuola del sospetto», che vedeva in lui l’implacabile distruttore delle grandi narrazioni della nostra tradizione di pensiero: l’oggettività della scienza, il disinteresse del sapere, l’autotrasparenza della coscienza, le intoccabili idealità della verità e del bene. Questa lettura aveva come proprio pendant la difficoltà ad intravedere nel filosofo del martello un qualsiasi progetto dell’umano che non fosse esso stesso travolto dalla vis demolitrice nietzscheana.
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L’inquietudine di un destino mostra come tali inedite modalità di formazione dell’umano ci interpellino ancora.
Nel Prologo del testo Casati riporta un brano di una lettera giovanile di Nietzsche all’amico Erwin Rodhe dove egli, a proposito degli studi disparati che stava allora conducendo su scienza, arte e filosofia, evoca l’immagine del Centauro. Nella lettera Nietzsche usa tale figura mitologica per indicare un connubio mostruoso che l’eterogeneità dei suoi studi finirà per partorire. Ma è significativo che ‒ da studioso insuperabile della grecità quale egli fu ‒ non scelga altre immagini possibili, un ircocervo, o una chimera, altrettanto adeguate per significare un’unione di eterogenei.
Perché proprio il Centauro? In verità tale immagine riferita all’esito presunto di quella sua variopinta quanto appassionata formazione risulta quanto mai adeguata e profonda: Chirone, il centauro più nominato nei miti greci, è il maestro per eccellenza, di dèi e di eroi, ad Atteone insegna la caccia, ad Asclepio la medicina, ad Achille, oltre all’arte di guarire, insegna come suonare gli strumenti a corda. In una tragedia di Euripide andata perduta, al saggio Chirone si attribuisce la teoria di una comune origine di piante, animali e uomini. Il centauro, mitico primo educatore dell’umanità, tiene insieme una natura animale ferina e selvaggia e una natura umana saggia e spirituale in un legame che pone il maestro in una soglia, quella tra natura e cultura, luogo impervio della Bildung, luogo di incorporazione di entrambe e di loro costante tensione.

Nella Bildung si effettua il movimento di costante andirivieni tra natura e cultura, mai concluso se si vuole che la natura non sia semplicemente negata dalla cultura ma, contenuta e modellata dalle sue forme, mantenendo intatto il potere vivificante perché la meta del processo formativo non è la cultura, quanto invece la «natura» singolare, preservata, formata, che emerge potente grazie alla protezione della cultura. Nietzsche parla di tale movimento come salvaguardia del nucleo inemendabile, ineducabile, propria natura profonda che non viene occultata dall’«involucro» della cultura, bensì protetta e nutrita dall’askesis[6] paidetica finché non giunga a piena maturazione.
Attraverso il procedere della Bildung si nutre, si rigenera, si ricrea, si potenzia la vita, ma non solo, Nietzsche aggiunge: «L’imparare ci trasforma, i suoi effetti sono quelli di ogni alimentazione, la quale non si limita a ‘conservare’: com’è noto al fisiologo».[7]
Il metabolismo paidetico è mosso dal bisogno di una incorporazione radicale dell’alterità che sia capace di attraversare vivificandola, ogni fibra del corpo singolare come della collettività, di alimentare e accrescere il molteplice che compone ogni pluralità, cellulare, sociale, politica.
[…]
L’askesis che Nietzsche ci indica e che egli pratica in prima persona, attraverso un duro e quotidiano disciplinamento, consiste nel forzare il proprio caos entro una forma attraverso continue incorporazioni e metabolizzazioni, buona parte delle quali accadono a nostra insaputa, richiedono una sorta di talento per la passività, un’accettazione – mai supina ma sempre trasformativa – del caso perché «così volli che fu».
Qual è, se c’è, l’esito ultimativo di questa impresa di incorporazione dell’immane?
L’inquietudine destinale del titolo si ripresenta ancora, di fronte a questa domanda che conduce Casati a individuare un’oscillazione nietzscheana insanabile: “Ci troviamo al cospetto della biforcazione essenziale da cui scaturisce l’irriducibile duplicità del pensiero nietzscheano. Si tratta di un dilemma a due corni, che vede contrapporsi due opposte e inconciliabili tensioni: la volontà eroica di tramonto, da una parte, e l’ideale di uno “sviluppo armonico totale” dall’altra. È l’alternativa fra un misticismo estatico, che è incondizionato scatenamento dionisiaco, e il progetto di una nuova Bildung, capace di coniugare apollineo e dionisiaco in una sintesi complessa e dinamica”.[8]
[…]”
***
Invitando il lettore all’acquisto del saggio di Filippo Casati, si chiude con una riflessione tratta dall’Avvertenza del Curatore dell’edizione italiana di Adriano Ardovino del volume “Eraclito” di Martin Heidegger ed Eugene Fink (Laterza, 2010, p. XV) che, con attori diversi (Eraclito, Heidegger e Fink), mette in scena una correlazione del rapporto che intercorre tra Friedrich Nietzsche, Filippo Casati e Cristina Zaltieri.
“Parlare con Eraclito è dunque possibile soltanto in base all’ascolto di quell’eco, a partire dalla quale il proprio parlare ‒ il parlare in proprio ‒ è esso stesso l’eco di un’eco. Ma «essere un’eco» affermava ancora Heidegger nel suo testo in assoluto più eracliteo, le conferenze di Brema Sguardo in ciò che è (1949), «è più difficile e più raro che avere opinioni e sostenere punti di vista».”
Written by Alessia Mocci
Note
[1] Friedrich Nietzsche, Ecce homo.
[2] “Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme – una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. Io non sono un uomo, sono dinamite.” (Friedrich Nietzsche, Ecce homo, Perché io sono un destino)
[3] Filippo Casati, L’inquietudine di un destino, p. 53, nota 269.
[4] Friedrich Nietzsche, Schopenhauer come educatore, tr. it. di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, 2009, § 8
[5] Dal greco θαῦμα (meraviglia), θαυμάζω (io mi meraviglio), θαυμάζειν (meravigliarsi).
[6] In greco ἄσκησις, con il significato di “esercizio”.
[7] Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, tr. it. di Ferruccio Masini, Adelphi, 1978, p. 231
[8] Filippo Casati, L’inquietudine di un destino, p. 186
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Leggi il saggio di Filippo Casati su Friedrich Nietzsche pubblicato su Nóema