Franz Kafka e dintorni: Felice Bauer, Max Brod, Walter Benjamin ed Elias Canetti
“Un uomo che muore a trentacinque anni è, in ogni punto della sua vita, un uomo che morrà a trentacinque anni. Questo è ciò che Goethe chiamava l’entelechia (Moritz Heimann).”[1]

Franz Kafka ne aveva quaranta quando chiuse gli occhi per sempre, ma quella frase di Heimann, che interpretava Goethe (che interpretava Aristotele), potrebbe riferirsi anche a lui, se con essa si voleva suggerire l’urgenza d’un artista di portare a termine la sua opera nel tempo a lui dato da vivere.
In ogni caso, come succede ai più grandi, Kafka non potrà mai essere veramente sepolto, lo attestano peraltro gli eventi editoriali con cui si è celebrato il centenario della sua morte nel 2024. Certo è che ogni anniversario della morte o della nascita di questo scrittore si rivela sempre come ottimo motivo per commemorarlo. Sia come sia, testi di lui, e soprattutto su di lui, continueranno a essere stampati o ristampati ‒ se ne troverà sempre una ragione ‒ indipendentemente dai suoi anniversari.
Tra le pubblicazioni sopra accennate è d’obbligo segnalare la monumentale biografia di Reiner Stach, della quale Il Saggiatore ha infine mandato in libreria il terzo volume, Kafka. Gli anni della consapevolezza. Ma per aggiungere che? ‒ ci si potrebbe chiedere. Cos’altro si dovrebbe conoscere che non sia già stato scritto su questo autore che giganteggia sull’intera letteratura del Novecento? Si può però esser perplessi nel definire lo scrittore come un gigante, mentre le biografie ci consegnano la figura minuta e denutrita di un giovane uomo ai limiti della consistenza fisica (un appunto di Elias Canetti, del 30 marzo 1950, recita proprio così, “Kafka, un gigante in piccolezza”). Ma è soprattutto dai suoi scritti che talora si ricava la sensazione che sia lui per primo a rimpicciolirsi, a ritrarsi tendendo quasi all’invisibilità. Tendenza che si potrebbe cogliere nella scelta di taluni protagonisti dei suoi racconti, dove gli eroi sono talora insetti, talaltra talpe o topi… Che si potrebbe riscontrare perfino nei nomi dei personaggi, quello ad esempio di Joseph K. ne Il processo, dove il cognome è ridotto all’iniziale, e ancor più in quello de La metamorfosi, il cui “eroe” è designato con la semplice lettera K, alla quale è sottratto anche il punto. A tale ordine di idee potrebbe forse rientrare anche la frase che a due giorni dall’incontro con Felice Bauer (avvenuto in casa Brod, 13 agosto 1912) Franz Kafka annota sul suo diario: “Pensato molto a… Com’è difficile scrivere i nomi… a F.B.”. Per non dire dell’abitudine a non firmare nemmeno più le sue missive, che spiegherebbe ancor meglio la sua tendenza a scomparire…
La “kafkologia” (termine coniato da Kundera) è dilagata dunque più che mai nel corso dell’anno passato, e c’è da credere che se dall’alto dell’empireo letterario in cui lo si immagina potesse vedere la marea di scritti che continuano ad accumularsi su lui e sulla sua opera, col senso dell’ironia di cui fu certamente dotato, Kafka non potrebbe fare a meno di sorridere. E poi chissà se assolverebbe l’amico Max Brod di aver infranto la sua volontà di distruggere tutti i suoi inediti. Ammesso che lui credesse davvero che il buon Max avrebbe rispettato quella suicidaria volontà… C’è chi ne dubita, e a ragione, se si considera che simile richiesta la fece pur sempre a qualcuno che lo amava e che, nonostante i suoi limiti, aveva perfettamente capito e ammirato la grandezza dei suoi testi.
O forse, per altri versi, condannerebbe quell’amico “infido”, immaginando il rumore che produrrebbero, se tradotte in suoni, le tante ‒ forse troppe ‒ parole di chi si accalca attorno alla sua opera. Lui che cercava il silenzio, lui che faceva di tutto per allontanarsi da ogni fonte sonora, perfino dalla musica, che non amava e che da essa rifuggiva, come testimonia in più occasioni lo stesso Max Brod. Il quale, invece, essendo, oltre che celebre e prolifico letterato, anche apprezzato musicista e compositore, non rassegnandosi alla sordità del suo amico, cercava talora di coinvolgerlo se non altro come spettatore di eventi musicali che vedevano sé stesso protagonista, in veste di pianista o in quella di compositore. Ma ogni volta Kafka restava, o appariva indifferente, se non addirittura infastidito, stimolato per lo più da elementi extramusicali, come la capigliatura d’un direttore d’orchestra, i tic d’uno strumentista, la posizione di un violino, la forma di una tuba, la postura di una cantante dall’aspetto singolare… L’arte dei suoni insomma, secondo più fonti, sembrava per lo più annoiarlo. Salvo eccezioni, magari per l’operetta (chi lo direbbe?), secondo fonti diverse.
Ciononostante, a Walter Benjamin ‒ uno tra i suoi interpreti più celebri e sottili ‒ questa sorprendente sordità di Franz Kafka alla musica, considerando proprio la sua scrittura, è sembrata non convincerlo. Cos’è in fondo la scrittura se non un insieme di parole che hanno corpo, suono e peso da dosare, e dunque da orchestrare? Ad analizzare con tale intenzione i testi di Kafka (ciò che potrebbero fare solo dei lettori tedeschi) si coglierebbe senz’altro l’uso sapiente che del suono delle parole egli fa. Un grande orchestratore dunque, suggerisce Benjamin, in contrasto con l’uomo sordo alla musica come egli stesso si definiva.
A quest’ordine di riflessioni assocerei senz’altro l’illuminante e pertinentissimo accostamento del Mikrokosmos (1926) di Bela Bartok all’universo di Franz Kafka proposto da Luca Mosca in una recente trasmissione radiofonica. Spiegando i procedimenti del grande compositore ungherese, il musicologo addita le cellule sonore minime che si muovono in uno spazio indefinibile, ai limiti della percezione sonora, tracciando al contempo figure brulicanti e inafferrabili… Per di più ‒ da non credere! ‒ il titolo di uno di questi microcosmi è nientemeno che Il diario di una mosca (e agli eventuali lettori della presente nota raccomando di ascoltare ‒ a esclusivo godimento della loro anima ‒ questo brevissimo capolavoro), nel quale l’insetto racconta i movimenti zigzaganti della sua giornata.
Ma per tornare al peso e al valore orchestrali della scrittura di Franz Kafka, ci si chiede come renderli possibili in una lingua diversa dal suo tedesco. A simile domanda, che a rigore dovrebbe riguardare la traduzione di qualsiasi altro scrittore, avrebbero potuto forse rispondere poeti russi quali Osip Mandel’štam o Anna Achmatova, che nel secolo scorso appresero l’italiano al solo scopo di leggere la Commedia di Dante nella versione originale.
Nel caso di Kafka c’è un altro aspetto che Benjamin, nel porre l’accento sull’eccezionale complessità dei suoi testi, suggerisce di considerare proprio per la molteplicità di significati che le sue parabole possono assumere. Data tale complessità, il lettore si troverebbe davanti agli stessi problemi di chi si confronta con la grande poesia (dove l’aggettivo “grande” è superfluo, giacché la poesia o è grande o non è). Ciò che Benjamin ha voluto intendere riguarda quel tratto ineffabile che appartiene soltanto alla poesia, e che fa sì che il suo significato non è mai dato o compreso una volta per tutte. L’accostamento alla poesia che il filosofo fa dei testi kafkiani consiste dunque in questo, nel senso che sfugge, che diverge o si rinnova a ogni rilettura, nel ripetuto sottrarsi a un’unica e definitiva interpretazione dei luoghi letterari. Al pari dei poeti, sostiene Benjamin, Kafka non si lascia catturare o svelare una volta per tutte. Non addita una chiave con la quale aprire e fissare per sempre la cifra del suo incanto, della sua bellezza, dei suoi abissi. Al lettore Franz Kafka chiede fedeltà, chiede un rapporto che presuppone il ritorno, la domanda reiterata, la rinnovata richiesta di senso.

E forse è per questo che l’ennesima indagine sui testi di Kafka non avrà mai un esito conclusivo. Di Benjamin, (morto nel 1940, a 42 anni, pressoché alla stessa età alla quale era morto Franz Kafka) l’editore Castelvecchi ha raccolto, per la prima volta in Italia, tutti gli scritti dedicati all’autore praghese: Il mio Kafka ‒ Scritti, Lettere, Frammenti, 2024, a cura di Leonardo Arigone e Massimo Palma.
Si è appena accennato alla celebrità che Max Brod aveva raggiunto come scrittore negli anni Dieci-Venti del Novecento. Ciononostante si può dire che egli è entrato nella storia della letteratura solo perché il suo nome resterà per sempre legato a quello di Kafka; e viceversa, per il ragionevole (e da noi benedetto) rifiuto, come abbiamo già ricordato, di bruciare le opere del suo amico. Ma in quale tipo di rapporto sono stati i due amici? Già nel 1938 Walter Benjamin aveva espresso la sua perplessità riguardo a quel sodalizio: «La sua amicizia con Brod è soprattutto un punto interrogativo». Una domanda che sarebbe dunque lecito porsi, in particolare dopo la pubblicazione delle lettere a Felice Bauer. In una di queste, dell’aprile del 1914, così lo scrittore si esprime: «Io sono incomprensibile a Max, e là dove gli risulto comprensibile si sbaglia». Più chiaro di così… si tenderebbe a concludere. Ma “più chiaro di così” potrebbe essere un altro ragionamento che qui vorrei tentare. Benjamin non ha potuto leggere il carteggio tra Kafka e Felice. Se lo avesse letto probabilmente sarebbe anch’egli rimasto sconcertato, oltre che dallo “scandalo” di quelle lettere, dall’eccentrico e mutevole comportamento di Franz Kafka, dai suoi sfibranti sì e no e no e sì all’infinito… laddove un giorno può affermarsi una cosa e l’indomani negarla, sempre con variazioni di voce che sorprendono e incantano.
Al punto interrogativo di Benjamin si può tuttavia tentare di rispondere in altro modo, sfogliando magari le pagine di Un altro scrivere. Lettere 1904-1924 ‒ carteggio tra i due amici praghesi, edito da Neri Pozza, a cura di Marco Rispoli e Luca Zenobi, importantissimo approfondire alcuni aspetti del loro legame.
A rifletterci bene, nonostante il passo sopra citato della lettera di Kafka, e lo squilibrio (per documentabile che sia) tra i due caratteri, personalmente ne prenderei le distanze, ed eviterei la domanda che il grande Benjamin s’è posta. Esorterei semmai a meditare sul fatto che talora tra due soggetti, quali essi siano, l’amicizia (o l’amore) è consentita proprio dalla loro diversità, caratteriale, di valore o di formazione che sia. Nel De profundis Oscar Wilde suggerisce che tra due esseri legati tra loro, il rapporto è possibile solo al livello più basso, quello appartenente dunque al soggetto “inferiore”, cui il soggetto “superiore” accetta di adattarsi, quale ne sia la ragione. Che nel caso di Kafka-Brod si potrebbe evocare indicando se non altro la mole del loro carteggio (alimentato soprattutto da Franz), e almeno un punto inconfutabile di convergenza: Kafka dubitava seriamente del valore letterario di Brod quanto, altrettanto seriamente, Brod credeva nella genialità del suo amico.
Solo un piccolo appunto farei al bel titolo del libro, Un altro scrivere, edito da Neri Pozza che pubblica il carteggio: nelle lettere di Kafka a Brod si conferma, a mio parere, “lo stesso scrivere”.
Di questa forse troppo lunga premessa avevo bisogno per approdare infine a Processi. Su Franz Kafka di Elias Canetti, libro a cura di Susanne Lüdemann e Kristian Wachinger che Adelphi ha pubblicato, per l’appunto, in coincidenza col centenario della morte dello scrittore praghese. Il libro si compone di vari scritti ‒ per lo più appunti che precedono L’altro processo e ne costituiscono al contempo una densa introduzione, facendo luce altresì sui motivi che hanno indotto il grande saggista a inabissarsi nelle oltre settecento lettere a Felice Bauer. Edito nel 1968, L’altro processo era già stato tradotto da Renata Colorni e pubblicato in Italia dalla stessa Adelphi nel 1984, all’interno di un’altra raccolta di vari testi sotto il titolo La coscienza delle parole.
Ciò detto, a differenza di Benjamin, la cui composta quanto lucida ammirazione per Franz Kafka è in più occasioni documentata, Canetti ne è letteralmente stregato, e non perde occasione per testimoniargli un amore assoluto, finanche eccessivo; di lui parla sempre in termini superlativi, riconosce che la propria opera, a partire da Auto da fé è dominata dalla sua presenza. Quel suo romanzo, confessa, non sarebbe stato lo stesso se mentre lo stilava non avesse letto La metamorfosi. “Ogni riga di Kafka mi è più cara di tutta la mia opera”, scriveva il 14 dicembre 1964. Due anni più tardi, il 9 settembre 1966, annota: “Quando penso alla morte, mi turba l’idea che dovrò separarmi da Kafka.” E ancora, il 28 novembre dello stesso anno: “Io sono molto primitivo, il dubbio di Kafka non è mai stato uguale al mio, io m’inchino umilmente davanti a lui e al suo dubbio.”
Canetti non si limita a scandagliare l’opera dello scrittore, ma studia fin nei dettagli anche sulla sua biografia, riflette sul mistero, sulla sua cifra inafferrabile, si confronta con lui per sottolineare la sostanziale differenza fisica e caratteriale che lo distanzia dal modello impossibile.
Nato nel 1905, Canetti è stato per quasi un ventennio suo contemporaneo; neppure questo dato, senza suggerirne possibili implicazioni, il saggista può fare a meno di rimarcare. Aveva 19 anni quando il suo idolo scomparve, e per un periodo i due uomini hanno convissuto insieme sullo stesso pianeta Terra, hanno respirato la stessa atmosfera… Talora si lascia andare a considerazioni altrettanto extra-letterarie, come sulla condizione di padre per uno scrittore, su quanto possano i figli vincolare, incidere sulla produzione letteraria, o quale significato possa avere per un autore essere padre. Avrebbe Kafka scritto i suoi capolavori se avesse avuto dei figli? Domande che cadono ovviamente nel vuoto…
Con Processi. Su Franz Kafka ci si trova davanti non soltanto al rapporto (in realtà un vero corpo a corpo), tra Canetti e Kafka, ma anche a quello, occasionale, che nel corso della sua vita lo scrittore-saggista ha intrattenuto con vari altri grandi e meno grandi della sua contemporaneità. Rapporto che si esprime sempre con posizioni nette, inequivocabili, talora caratteriali, o tranchant, e pertanto non sempre condivisibili, come la sua freddezza per Mann, per Broch, per Joyce, o addirittura il suo disprezzo per Werfel, per Walser…
In ogni caso, fra i processi cui allude il titolo, L’altro processo, è senza dubbio il testo centrale in ogni senso, il più stupefacente, che merita pertanto un’attenzione speciale. Canetti lo redige dunque dopo aver scandagliato le oltre settecento lettere scritte da Kafka a Felice Bauer, l’epistolario in assoluto più formidabile e per certi versi più disturbante che sia mai stato prodotto da uno scrittore.
C’è chi ritiene che con le loro missive i letterati tenderebbero a rivolgersi fondamentalmente a sé stessi. In esse non tanto si troverebbero cose da comunicare o da chiedere, quanto, e soprattutto, riflessioni attraverso le quali i geniali mittenti si interrogano sulle ragioni del loro essere in crisi col mondo. E si potrebbe perfino pensare che talora l’identità dei destinatari sia addirittura inessenziale, o fortuita, contando soprattutto come pretesto per mettere più a fuoco una pena, o sviscerare un aspetto covato nell’animo dello scrittore, in attesa soltanto del momento giusto per essere portato in superficie. Su questo punto ha riflettuto Marco Archetti in un brillante articolo, Catalogo dell’ira d’autore, apparso su “Il foglio quotidiano” del 27 agosto dello scorso anno. In esso, vengono passati in rassegna geni assoluti, da Dostoevskij a Beckett, da Foscolo a D’Annunzio, da Nietzsche a Flaubert…, le cui missive si risolverebbero per lo più in soliloqui. Gli scrittori non si mostrano mai, o quasi, interessati ai loro corrispondenti, non si rivolgono loro per sapere di loro, ma più che altro per sapere di sé stessi, giacché al centro di tutto non possono esserci che loro.
Nel catalogo stilato da Archetti è tuttavia assente il nostro Franz Kafka, uno degli autori, (insieme a Flaubert), di missive il cui valore può senz’altro equipararsi a quello della loro produzione letteraria. Mi piace credere che l’esclusione di Kafka da siffatto catalogo sia dovuta, oltre allo “statuto speciale” del corpo epistolare kafkiano, al fatto che il destinatario di ogni lettera viene da lui sempre interpellato, provocato o sollecitato, chiunque egli sia.
Ovviamente Franz Kafka parla, quasi sempre malissimo, anche di se stesso, ma sempre in confronto coi suoi corrispondenti; e nelle lettere a Felice emergono soprattutto i temi che coinvolgono entrambi in una relazione delle più sofferte e logoranti. Credo sia difficile trovare in altri epistolari parole che consentano al lettore di andare così in profondità nella psicologia di un autore, e che lo mettano altrettanto a disagio. A confronto con Lettera al padre e Lettere a Milena, gli altri due celeberrimi epistolari kafkiani, le Lettere a Felice sono di certo le meno lette, e ciò non solo per la mole del carteggio, ma anche per l’impudicizia, ai limiti della “pornografia psichica”, con cui l’autore si mette a nudo in un vortice di contraddizioni.
Va anche detto che Canetti non è stato il primo ad avvicinarsi a tale epistolario. Prima di lui lo avevano fatto altri intellettuali, ma se ne erano per lo più ritratti per il malessere avvertito nell’inoltrarvisi. “Conosco varie persone ‒ scrive lo stesso Canetti ‒ che procedendo nella lettura sentivano aumentare la loro vergogna e non riuscivano a liberarsi dalla sensazione che quello era un campo nel quale non era giusto addentrarsi”. Il saggista bulgaro impiegherà un intero lustro per percorrere quelle lettere, per analizzarle, soffrirle, amarle, viverle, interpretarle… “Una tortura durata cinque anni” confessa (curiosamente, nell’edizione Guanda, precedente a quella di Adelphi de L’altro processo ‒ che pure possiedo ‒ gli anni di tortura sarebbero stati addirittura quindici!!! Potenza delle traduzioni…)
Nelle lettere a Felice Bauer, la relazione appare presto complicata, tra l’altro, dalla difficoltà caratteriale nello scrittore praghese di conformarsi a intenzioni o a decisioni già prese, di fare una scelta pratica precisa, qual essa sia. Si dimostra attratto da lei, da quello che lei può dargli o rappresentare come possibile compagna, e al tempo stesso ha timore, talora terrore, d’una eccessiva vicinanza. Dopo vari alti e bassi, il 14 gennaio 1913, a cinque mesi esatti dal loro primo incontro, egli scrive: “Una volta mi hai detto che ti piacerebbe sederti accanto a me mentre io sto lavorando; tieni conto però che in tal caso io non potrei scrivere… scrivere significa aprirsi a dismisura… perciò uno che sta scrivendo non starà mai solo abbastanza, e mentre scrive intorno a lui non ci sarà mai silenzio abbastanza, e la notte non sarà mai notte abbastanza. Per questo il tempo che abbiamo a disposizione non ci basta mai, lungo infatti è il cammino, e smarrirsi è così facile… Ho già pensato più volte che il modo migliore di vivere per me sarebbe di stare rinchiuso con una lampada e l’occorrente per scrivere nella stanza più remota di un vasto scantinato…” Si potrebbe pensare che alla lettura di una simile missiva, diversamente da noi che restiamo incantati dalla straordinaria sua cupa bellezza, di fronte alla chiusura dell’uomo al quale vorrebbe pur promettersi, un’aspirante fidanzata fuggirebbe a gambe levate. La risposta a quella lettera ci è ignota, e tuttavia la relazione riprende, e dalla sua prosecuzione si potrebbe se non altro dedurre una vocazione della destinataria a non voler capire.
Ma chi era Felice Bauer, questa donna che ha attratto un simile gigante della letteratura? Di lei in realtà non si sa molto, perché le lettere che ha scritte a Franz noi non le abbiamo. Sappiamo però che era una persona dotata di senso pratico, concreta, che quarantacinque anni dopo la morte del suo ex fidanzato, dando prova di ragionevolezza, su richiesta dell’editore non esiterà a vendere le lettere da lui ricevute.
Ed è da quel che lui le scrive che si ricava grossomodo il profilo di una donna giudiziosa, del tipo che un uomo appartenente alla piccola borghesia del suo tempo avrebbe volentieri preso in moglie. Equilibrata, volenterosa, efficiente, puntuale, organizzata…, doti che Franz ammirava forse perché ne era privo, con in più un merito che non poteva non piacergli: era una lettrice, poco disposta però, e questo gli piaceva assai meno, a leggere i testi di Franz, e a commentarli, nonostante le sollecitazioni.
Più difficile farsi un’idea precisa del suo aspetto fisico. Del resto, più che l’aspetto fisico, dal giorno del primo incontro a suscitare l’interesse dello scrittore è una serie di coincidenze, oltre a un insieme di dettagli che stimolano la sua curiosità, i toni della voce, il modo di guardare, le pantofole che calza…. Oltre tutto è una straniera, vive a Berlino, lontana quanto basta perché Franz non venga coinvolto dall’assiduità della frequentazione.

In ogni caso, dopo la lettera sopra citata del 13 gennaio, primo di una lunga serie di momenti di crisi ‒ se così si può dire ‒ del loro rapporto, l’intesa tra i due riprende, mentre a gonfie vele procedono solo i tentennamenti di lui, mai abbastanza scoraggianti per lei. A sorprendere sono soprattutto i malintesi di Felice, che alla fine di febbraio, neppure due mesi dopo, scrive a Franz per informarsi sui suoi progetti. Lo scrittore risponde, sottolinea Canetti, con insolita brutalità: “… mi hai domandato quali siano i miei progetti e le mie prospettive. La domanda mi ha sbalordito… Com’è ovvio io non ho nessun progetto e nessuna prospettiva; certo non posso entrare nel futuro… Ma di progetti e prospettive sinceramente non ne ho, se le cose mi vanno bene son tutto preso dal presente, e se invece mi vanno male già maledico il presente, figurarsi il futuro!”
Ciononostante, non essendo bastata simile risposta a demoralizzare la coriacea Felice, Franz Kafka decide di farle visita a Berlino con la speranza che un incontro a tu per tu riesca finalmente a disgustarla. I due giorni di vacanza per la Pasqua imminente sembrano ideali per l’impresa. Franz decide di preavvisarla la domenica che precede la festività per chiederle la disponibilità di “un’ora soltanto”, al fine di chiarire una volta per tutte quel che nelle lettere sembra apparirle confuso. Ma il lunedì le scrive avvertendola che non sa ancora se riuscirà a partire. Il martedì, con un’altra lettera la rassicura, non del tutto però. Il mercoledì altra lettera per mettere in dubbio se riuscirà a farle capire bene le sue vere intenzioni. Il giovedì la informa che a complicare le cose potrebbe essere l’Istituto di Assicurazioni da cui lui dipende. Il venerdì le comunica che soltanto l’indomani saprà se potrà partire e se ci riuscirà alloggerà all’Askanischer Hof. Dove, prima di incontrarla, l’avverte, lui dovrà fare “una bella dormita”. Questa lettera viene spedita il sabato, il giorno stesso in cui, dopo altri tentennamenti Kafka riesce a prendere il treno per Berlino, dove Felice ormai non crede più ch’egli possa arrivare. Col risultato che lui trascorre cinque ore della domenica sdraiato su un divano dell’Askanischer Hof. Riusciranno infine a vedersi solo per alcuni istanti, quanti ne bastano tuttavia all’abilissima Felice per fugare ogni dubbio dall’animo del suo amato, e rassicurarlo sulla saldezza della loro relazione. È la prima volta che si ritrovano, sette mesi dopo il primo incontro.
E poi andranno avanti ancora tra incertezze e passi falsi sempre più incauti: tra questi una nuova visita a Berlino, dove l’aspirante fidanzato viene ricevuto in casa dei genitori di Felice. Che al timido Franz faranno un’impressione terrificante, li vede come giganti, in particolare la madre, la cui statura lo paralizza. Ciononostante, grazie alle rassicurazioni di Felice, il tutto si appiana, riprende e continua con altre paradossali maldestrezze. Finché è lei a un certo punto che sembra tentennare: per dieci giorni ‒ chissà perché ‒ non si fa viva, e lui, disorientato, la supplica di scrivergli ancora le belle missive di un tempo. Infine, il 16 giugno la prega di diventare sua moglie, con una richiesta di matrimonio esilarante, infarcita di difficoltà d’ogni sorta, tutte tese a disarmare l’ardimentosa Felice. La quale invece accetta senza esitazioni la rocambolesca proposta. E di nuovo è lui, che puntava sul rifiuto, a spaventarsi, a ritrarsi con l’angoscia del futuro, a cercare nuove strategie e nuovi difetti da denunciare per scoraggiare la promessa sposa.
Continueranno così, ancora con tentennamenti, fughe e ritorni di lui, ma anche, infine, con ripensamenti di lei, prese di distanza che fanno scattare in Franz febbrili reazioni per recuperare quel che sembra sfuggirgli. Con subitanee quanto sofferte retromarce, lungo le quali accade di tutto: su suggerimento di sua madre, Franz Kafka incarica un’agenzia investigativa per indagare non solo sulla sua futura sposa, ma anche sulla sua famiglia. Inaspettatamente, sono intanto entrate in scena altre due donne. Non avendo più notizie di Franz, l’incauta Felice, che in quanto a errori ha infine deciso di non esser da meno del suo amato, invia a Praga la sua infida amica Grete Bloch (senza sospettare che Franz se ne innamorerà), con l’incarico di indagare sulla fine che ha fatto il suo sposo promesso latitante da sei settimane. Nessuno può intanto immaginare che in quelle stesse settimane Franz ha conosciuto “la svizzera”, una giovanissima che resterà innominata. Con la quale è riuscito perfino a passare dieci indimenticabili giorni …
Un comportamento insospettabile, certo, e tuttavia assai meno nobile si rivelerà la “tresca” intessuta con Grete, alla quale si lega in un rapporto ambiguo quanto indeterminato, quali soltanto a Franz possono riuscire. Più confuso che mai, l’incerto Franz si lascia andare perfino a discorsi indiscreti, oltre che scorretti, in particolare sulla dentatura completamente d’oro di Felice: “Per dir la verità all’inizio mi sentivo costretto ad abbassare lo sguardo davanti ai denti di F., tanto ero spaventato da quell’oro luccicante (un luccichio veramente infernale in quel luogo così poco adatto) … in seguito li guardavo apposta ogni volta che mi era possibile… per persuadermi che erano proprio così. In un attimo di smemoratezza ho perfino domandato a F. se non se ne vergognasse. Per fortuna, com’è naturale, non se ne vergognava affatto.”
Questo stato di cose sempre più equivoco e altalenante si protrarrà fino al 1° giugno 1914, giorno in cui tra i due promessi viene infine celebrato il fidanzamento ufficiale a Berlino, in casa Bauer. Durante tale festa Franz si sente letteralmente soffocare, “legato ‒ poi dirà ‒ come un criminale”. Basteranno solo sei settimane per arrivare all’altra data cruciale, quella del 12 luglio, allorché, all’Askanischer Hof, ‒ lo stesso albergo in cui l’anno prima aveva atteso di incontrare per la seconda volta Felice ‒ Kafka arriverà convocato come in un “tribunale” che finirà col decretare la fine del fidanzamento.
Oltre ai due fidanzati, sono presenti in quella sede “processuale”, i Bauer, altri membri della famiglia, oltre a persone a lui sconosciute, come ad esempio il fratello di Grete Bloch, presente, costei, per insistenza dello stesso Franz. Il quale le aveva addirittura consigliato il vestito da indossare per l’occasione. Altri sconosciuti convengono quel giorno per rendere più solenne l’evento. Presente era anche Ernst Weiss, scrittore di valore, amico di Franz da alcuni mesi, che abitava a Berlino, il quale nutriva per Felice una decisa avversione. Franz, infine processato, ascolterà il “verdetto” di scioglimento come una condanna emessa contro di lui dai giurati.
Canetti segnala questi due eventi, in particolare il secondo, per porre l’accento su momenti decisivi per la vita, e soprattutto per l’opera, che dell’esistenza dello scrittore è parte. Quella parte che per Franz Kafka non deve lasciare troppo spazio alla vita, sentendola, lui, come la parte più urgente, la parte essenziale, assolutamente irrinunciabile.
Di lì a poco in effetti, e non a caso, Franz inizia a scrivere Il processo. Canetti, nell’indicare i dettagli autobiografici che in quel romanzo si riscontrano, rivela infine il significato del titolo che ha dato al suo saggio, “L’altro processo”. Era stato lo stesso Franz Kafka del resto a configurare l’assemblea all’Askanischer Hof di Berlino del 12 luglio 1914, come un tribunale all’interno del quale si è infine ritratto da imputato al cospetto di un’autorità giudiziaria.
La tesi secondo la quale tra la vita e l’opera di un autore vi sia uno stretto legame non è certo nuova, e non è sotto questo aspetto che il saggio di Elias Canetti potrebbe dirsi originale. Originale semmai, e sorprendente, è invece la tensione con cui egli accompagna (potrei dire trascina) il lettore nello scandaglio di questo eccezionale documento; inusitato è l’imbarazzo, oltre al turbamento, che riesce a trasmettere mentre si cala nel fondo dell’indicibile pantano in cui l’umano può inabissarsi. E lo fa da par suo, con un linguaggio impeccabile, accuratissimo e al contempo spontaneo, talora commosso a tal punto che in alcuni passi si può avere l’impressione che ci stia confidando le tribolazioni del suo più stretto parente, o dell’unico suo vero amico. E con una prosa infallibile, magistrale, la stessa che in fondo è possibile ammirare nelle sue opere più note, da Auto da fé a Massa e potere, dalla possente trilogia autobiografica (La lingua salvata, La coscienza delle parole, Il gioco degli occhi), a Il libro contro la morte; insieme a quel tanto di ineffabile e urgente che apparenta L’altro processo, più che a un saggio, a un testo squisitamente letterario.
Written by Riccardo Garbetta
Note
[1] L’aforisma è stato ripreso da Hugo von Hofmannstal ne Il libro degli amici (Adelphi).
Complimenti per questo tuo articolo, Riccardo, ma direi breve saggio di “Kafkologia”, per usare il termine coniato da Kundera, per come è scritto e per le tante informazioni che porta. In questo testo, che a me pare curatissimo e completo, offrì un quadro dell’impatto di Kafka sui tanti studiosi che lo hanno conosciuto, direttamente o attraverso i suoi scritti, veramente interessante. Leggerlo è un piacere e fa venir voglia di riprendere in mano i libri di Kafka.