Contest letterario di poesia e racconto breve “Oltre il muro Gaza”
“Uomo/ quando ami/ non avere fretta,/ ascolta la tempesta nel tuo cuore/ mentre guardi la tua donna,/ tocchi il suo corpo con dita delicate,/ baci la sua pelle/ e senti il suo odore/ riempendo l’anima di nuove emozioni,/ abbracciala,/ sii paziente mentre la prepari al piacere/ e quando sarete un corpo solo/ potrai chiudere gli occhi e diventare/ fiume.” ‒ poesia tratta da “Oltre il muro Gaza”

Regolamento del Contest “Oltre il muro Gaza”
1.Il Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “Oltre il muro Gaza” è promosso da Oubliette Magazine, dall’autrice Beatrice Benet e dal fotografo Shadi AlQarra. La partecipazione al contest letterario è riservata ai maggiori di 16 anni.
La partecipazione al Contest è gratuita.
Tema libero.
2. Articolato in due sezioni:
A. Poesia (limite 100 versi)
B. Racconto breve (limite 1000 parole)
3. Per la sezione A si partecipa inserendo la propria poesia sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con poesie edite ed inedite.
Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.
Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.
Per la sezione B si partecipa inserendo il proprio racconto sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con racconti editi ed inediti.
Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.
Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.
Ogni concorrente può partecipare ad entrambe le sezioni con una sola opera.
4. Premio:
N° 1 copia del libro “Oltre il muro Gaza” dell’autrice di racconti e poesie Beatrice Benet corredato dalle fotografie di Shadi AlQarra e dalla prefazione di Moni Ovadia, edito nel 2024.
Saranno premiati i primi due classificati per entrambe le sezioni.
5. La scadenza per l’invio delle opere, come commento sotto questo stesso bando, è fissata per il 16 febbraio 2025 a mezzanotte.
6. Il giudizio della giuria è insindacabile ed inappellabile. La giuria è composta da:
Alessia Mocci (Editor in chief)
Beatrice Benet (Scrittrice)
Franco Carta (Poeta e scrittore)
Carolina Colombi (Scrittrice e collaboratrice Oubliette)
Giovanna Fracassi (Poetessa e scrittrice)
Simona Trunzo (Scrittrice, illustratrice e collaboratrice Oubliette)
Rosario Tomarchio (Poeta ed editore)
7. Il contest non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy.
8. Si esortano i concorrenti per un invio sollecito senza attendere gli ultimi giorni utili, onde facilitare le operazioni di coordinamento. La collaborazione in tal senso sarà sentitamente apprezzata.
9. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione per e-mail: oubliettemagazine@hotmail.it indicando nell’oggetto “Info Contest” (NON si partecipa via e-mail ma direttamente sotto il bando), in alternativa all’email si può comunicare attraverso la pagina fan di Facebook.
10. È possibile seguire l’andamento del Contest ricevendo via e-mail tutte le notifiche con le nuove partecipanti al Contest Letterario; troverete nella sezione dei commenti la possibilità di farlo facilmente mettendo la spunta in “Avvertimi via e-mail in caso di risposte al mio commento”.
11. La partecipazione al Contest implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016). Il mancato rispetto delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso.
Buona partecipazione!
NON ERA NIENTE
Figlio mio, torna a dormire.
Non era la pietra, ma il letto scomodo.
Non era il sangue, ma il cinabro, e la stella marina.
Non era il freddo, ma un vento,
innocuo tra I sogni.
Non era il pianto,
ma cicale, perdute tra i campi.
Non era il boato,
ma gli angeli giusti del creato.
Non era niente, niente di niente.
Niente, quel che ti ha svegliato.
Niente che non fosse niente,
nient’altro che un brutto sogno,
niente che non può svanire.
Figlio mio, non era niente.
Ritorna a dormire.
Antonio Blunda
Dichiaro di accettare il regolamento, sez. a
Stupenda ❤️
Freddo fulgente
Resta la bianca brinata nell’ombra
della mattina, e lo scheletro ignudo
che protende le braccia al ciel così
lontano. Freddo fulgente, l’inverno
nella solitudine che si sente,
nei cuori tintinnare come gli argentei
campanelli. Forse fiocca la neve
in montagna; spiaggia e riva son deserte
come il cuore di chi l’amor non sente.
Spira tanto gelo: è il dolore
che ognuno di noi ode dentro di sé.
Sezione A Alessio Romanini Accetto il regolamento
DURANTE LA VIGILIA DI CAPODANNO
Passeggio nel mio quartiere, il mattino è soleggiato per la vigilia di capodanno. Respiro tepente aria e ascolto la quiete.
Con silente sorriso e il ciglio chiuso guardo il sole e dentro me ed esclamo: “Che bella è la vita!” Lentamente cammino, sono vivo, e questo già consola il mio spirito. Lungo la solinga strada passeggio sull’alto marciapiede, quando i miei increduli occhi si fermano su una mesta figura in carrozzella. Vedo sgocciolare e dentro me penso: “Cosa fa? La pipì sul ciglio della strada?” Devio il mio passo verso la carreggiata, e quando arrivo in prossimità del vecchio rimango basito dall’amarezza. Solitario, seduto sulla carrozzina, con occhi rugosi e malinconici, egli sta svuotando la sacca del catetere dentro il tombino di ferro dell’acqua piovana. Il mio cuore si accartoccia nell’amarezza per quella visione. Vorrei dirgli qualcosa… così per farlo sentire meno solo in questo giorno in cui si dovrebbe festeggiare? Festeggiare che cosa? La solitudine che rimarrà anche nell’anno venturo al romito anziano? Proseguo nel mio lento cammino pensando che ciò che ho visto è una delle cose più tristi che ho vissuto in questo bisesto anno. Passeggio lungo l’unica stradicciola brulla del mio quartiere; mesto è il pensiero per ciò che il mio petto ha appena visto. La sensibilità del mio essere Poeta della Migliarina, lascia spazio a versi e parole che si compongono nel cuore, perché non voglio dimenticare le emozioni che mi hanno abbracciato; e vorrei che anche gli altri riuscissero a vedere ciò che ha visto la mia anima. Non bisogna dimenticare quanto dolore serpeggia fra la gente; gli ultimi dimenticati…
Giunto quasi alla fine della strada brulla, sento gridare, imprecare, offendere… poi scorgo un giovane perdigiorno completamente ubriaco con un grande cane legato ad una corda usata come guinzaglio. Un anziano cane dal pelo fulvo un po’ sbiadito e gli occhi color del ghiaccio. È simile ad un lupo e mentre è tirato da quel cialtrone, egli gli impreca contro, lo offende, lo tratta male… il mio sguardo incrocia quello del povero cane, che mi guarda con aria malinconica; ma io non so cosa fare. Vorrei intervenire, ma lo straccione è fuori di sé, mi potrebbe aggredire; proseguo nel mio camminare ancora più triste mentre sento ancora inveire contro quel malcapitato animale. E penso: “Ma guarda il Destino che proprio oggi, che è l’ultimo giorno dell’anno, mi ha fatto incontrare questi due episodi così funesti!” Non riesco a capire perché è tanta la cattiveria che avvelena questo “atomo opaco del male”.
Torno deluso nella mia abitazione, e l’unica cosa che posso fare è impugnare “carta e penna” ed immortalare ciò che ho vissuto. Non voglio dimenticare e vorrei incorniciare nella mente del lettore che a volte le cose brutte si nascondono anche dietro a questi episodi che magari lasciamo passare indifferenti.
Sezione B Alessio Romanini Accetto il regolamento
WORMHOLES – DALLA TRINCEA
(Attendo il tuo ritorno)
E ti accolsi
in un’alba di miragli,
di apocrifi risvegli di lecci e di ginestre,
in un silenzio sgombro di mortai,
di laschi abeti,
dove si nasconde il sole
quando vuol dormire.
Con l’anima in catene
riabbracciai il tuo canto
tra i colori estinti nelle crune di agorai
e tu, cavaliere azzurro,
avevi ancora negli occhi
reste di pupi riversi sui ginocchi,
e di bagatti, di loriche mozzate
nelle fosse di tetragoni capestri.
Hanno artigli i tuoi sogni di bambino,
denti aguzzi di scudati ostri
le tue notti,
blandiva la tua nervata guancia
una scaglia di oleandro,
il lacerato becco della cima
dove pregavi come un Angelo
in un raggio di trifogli.
Thea Matera
Sezione A – Accetto il regolamento
Mattia Airoldi
Dichiaro di accettare il regolamento, SEZIONE B
OBULAGUZI
Da due mesi Baal e altri del gruppo stavano agli ordini di Alrays Sadek, il padrone.
Lo avevano visto una sola volta, da lontano, scendere da una macchina lunga e bianca, circondato da alcune guardie dihib, che si muovevano come formiche al suo fianco. Baal passava le giornate sotto il sole a cuocere mattoni e a costruire un grande casolare. Era stato assegnato alla squadra dei carpentieri. Molti degli altri dell’accampamento, non li aveva più rivisti.
Ogni giorno però, rivedeva Miriam e il suo kanga rosso, che aveva imparato ad amare.
Era bella Miriam. L’avevano messa assieme alle donne più forti a raccogliere i datteri dalla piantagione di padron Sadek. Il raccolto andava poi disteso, mondato ed essiccato.
Era un lavoro lungo e ripetitivo. Anche Baal piaceva a Miriam. Gli piacevano i suoi modi gentili, la sua forza. Sebbene uomini e donne dimorassero divisi nel campo, i due si erano incontrati le notti ed erano giaciuti insieme. Furtivamente, per attimi brevi e intensi, rischiando molto. In quella condizione assurda, avevano persino trovato lo spazio per corteggiarsi. Si parlavano e si ascoltavano e si facevano sorridere. Si usavano piccole gentilezze. Una volta Miriam aveva lasciato a Baal il suo kanga.
Per tradizione, ogni kanga, nella sua parte centrale, reca una stampa con una frase di buon auspicio.
Un giorno Alrays Sadek si era presentato ai suoi schiavi. Aveva fatto un discorso con aria tranquilla e calcolatrice. C’era solo una maniera di andarsene dal campo, aveva detto.
In ogni direzione c’erano centinaia di miglia di nulla ed era quindi impossibile scappare.
Se fossero morti, sarebbero stati bruciati e sarebbero diventati istantaneamente parte del deserto.
Pagargli il debito del viaggio: quella era l’unica maniera di andarsene. Il problema era che il debito ammontava, per ciascuna persona, a una cifra molto elevata.
Solo se avessero lavorato tanto e bene, sarebbero stati liberi di arrivare al mare e di avere un passaggio sicuro. Miriam e Baal in quel momento si erano guardati tra le fila dei plotoni, colti da un’illuminazione. Una prospettiva.
Per tredici lunghi mesi Baal e Miriam lavorarono instancabilmente per Alrays Sadek, pagando il loro riscatto e altre settimane erano poi servite per raggiungere la costa.
Avevano preso il largo assieme ad altri cento in una notte squarciata dalle saette.
Il rollio della nave non dava tregua e il mare rombava.
Il gommone di legno e plastica imbarcava acqua da tutte le parti.
Lo scafo si stava squartando in più punti e i passeggeri, ululanti, dovevano levarsi i vestiti per coprire le falle. I lampi illuminavano il cielo e i corpi dei disperati in balìa del mare, facendoli rassomigliare a statue di sale pronte a sciogliersi e disgregarsi.
Miriam non stava bene da giorni. Era arrivata all’approdo stremata e Baal stesso l’aveva dovuta caricare a braccio sul barcone. Aveva molte nausee e le gambe si paralizzavano spesso.
Il suo ventre era cresciuto in quelle settimane.
L’imbarcazione era ormai ridotta a un colabrodo e i marosi la sferzavano.
Bastò un altro frangente per demolire definitivamente la zattera.
Dappertutto i corpi urlavano. E il mare latrava. Baal batteva ferocemente l’acqua e si guardava intorno, febbrile. La gente annaspava tra la schiuma e le onde.
In un lampo aveva rivisto Miriam, distante poche bracciate.
Le aveva percorse con fatica immane mentre attraversava un muro denso e respingente.
Gli occhi di lei erano chiusi, le labbra pallidissime.
Stava scivolando verso il fondo del mare nero.
Il braccio di Baal però si era messo in mezzo, come giudice tra due mondi.
L’acqua e l’aria, la morte e la vita.
Aveva riacciuffato Miriam e se la stringeva al petto, provando a tenerla a galla con tutte le sue forze.
Miriam aveva riaperto gli occhi e tossiva. «Baal…»
Nel cielo era comparsa una stella.
Con una lunga striscia arancione che attraversava il cielo e illuminava le acque.
Tutti stavano guardando in alto. Un bagliore che andava a morire dietro a un cavallone.
Ma l’attimo dopo compariva un’altra stella e poi un’altra ancora e così di nuovo.
I razzi fosforescenti partivano dal ponte di una lunga nave bianca, attraversata da una striscia rossa.
Una pesca miracolosa di uomo su uomo, donna su donna. E poi coperte dorate. Regali.
L’equipaggio della nave recuperò i sopravvissuti.
Quattordici anime più pesanti dei loro sfiniti corpi.
Mentre Baal tremava e stringeva a sé Miriam sotto la foglia dorata, una dottoressa con una mascherina sul volto e un paio di occhi concentrati avvicinò una torcia elettrica al volto della ragazza.
«Ha dentro un bambino!» urlava Baal nella sua lingua, mimando un arco lungo il suo stesso ventre.
La dottoressa intese la situazione immediatamente e fece intervenire un paio di barellieri.
Sembrava come nel racconto di Suor Elise, al catechismo del villaggio.
Davanti alla culla, i maghi d’oriente onoravano il figlio di Dio con oro e profumi.
Alle prime luci della mattina seguente, erano infine sbarcati. Le coste e la prima alba di un mondo nuovo. Il cielo era limpido, solcato dal volo a tutto campo dei gabbiani.
L’aria balsamica e salina.I sopravvissuti erano stati accompagnati verso un edificio.
Lì fuori c’era un bar con dei tavolini all’aperto da dove arrivava un buon aroma di caffè e di pane caldo Baal guardò Miriam, sfinita, che gli rivolse il più dolce dei sorrisi.
Afferrò il suo kanga rosso. Lesse la scritta sul dorso.
Sisi Sote Abiria Dereva Ni Mungu “In questo mondo tutti sono passeggeri, Dio è il guidatore.”
Salvatore Leone
Sezione A Accetto il Regolamento
Integro al Titano dolore tentacolare, glaciale ironia
di gracile fionda che frantuma il piede sfilacciato
incastrato nella ruota che lancia frecce rapide
come treni che sconfinano oltralpe.
Spuntato il vertice della vernice
il grattacielo svanisce e resta una Milano
in gabbia come una pantera in quarantena.
Misuro i passi e siamo formiche striscianti
e dovremmo passare tutti almeno una settimana
a San Vittore o meglio San Siro a lanciare le palle
che ci raccontiamo a vicenda.
FUORI DAL PENTAGRAMMA
Ed ora? Perché sono qui?
Come una goccia d’acqua, essenza del mio passato, cado senza arrivare.
Chi sono? Per tanto tempo ho cercato la forza di vivere. Quando ti ho perso ho pianto, nel buio, da sola, in quello spazio in cui nessuno può entrare. Mi dicevano, sei coraggiosa, sei forte. NO. Sento la tua risata. Perché te ne sei dovuto andare? Eri l’uomo più forte che io avessi mai conosciuto.
Andrà via mai questo vuoto? Diventerà più grande? Come posso capire il presente se non ho superato il passato?
Il buio mi terrorizzava ed ora sono buio.
Un’altra onda mi sommerge, dolce come un Assolo di Bach. Sono nei tasti, sono bianca e nera, sono nelle corde, tese e vibranti, nel nulla. Sono nulla. Cosa resta dunque? Sensazioni? Ricordi?
Meraviglia.
Lo stupore innocente, senza filtri, il vibrare per l’emozione, per il dolore o la paura, per l’amore.
Sto provando qualcosa, sto reagendo a tutto questo, forse ora avverto il suono cristallino, penetrante, della vita.
Sta piovendo. Sto piovendo, sono gocce in caduta dall’alto, pioggia.
Ogni volta che tocco qualcosa divento una nota, sono miliardi di note. Melodia e caos, fragore e armonia. Scivolo dalle grondaie piene di guano, dai muri delle case, fino al selciato, tra i ciottoli, nei buchi dell’asfalto, sui marciapiedi lucidi. Scivolo dalla schiena del mio amore, fino all’orlo del giaccone per poi cadere. No! Aspetta! Ma il tempo non aspetta. Sono io che aspetto, io che non ho tempo, né spazio.
Un nuovo palcoscenico in cui sono protagonista. Sono protagonista? Ho avuto un passato, sto percependo un presente. Avrò un futuro?
Fai tacere questa mente.
Sono musica, voglio essere musica.
Musica. Ancora. Flash come corti circuiti in cui rivedo le scene di un’opera. I costumi e quei suoni così acuti da far rabbrividire, suoni che escono da bocche deformate, melodie che disegnano pannelli simili alle albe boreali. Drappi colorati e trasparenti che fluttuano intorno a me e attraverso me. Tanta gente seduta sugli spalti, emozionata.
Non capisco, la gente si emoziona per le cose più strane mentre io ho sempre visto la bellezza nelle regole, quelle che regolano il caos, dietro l’ordine. E un giorno realizzi che più vai avanti, più il cibo non è così buono, che la tua macchina non deve essere la più bella, il tuo lavoro non deve essere il più prestigioso e vorresti solo andare a dormire, senza il pensiero di cosa fare il giorno dopo, di dove andare.
Quindi, qual è la differenza tra pensiero e realtà? C’è un mondo visibile ed uno invisibile? Avrei potuto evitarlo? O, in fondo, molto in fondo a me stessa, sapevo di meritarmi questo. Non saprei a chi dare la colpa.
É una colpa?
Allora quello che chiamo memoria, quello che riaffiora brutalmente, come fossero tante stanze chiuse che mi conducono non solo nel mio passato, ma al principio di ogni cosa, è ciò che mi sta bloccando, intrappolando, né di qua, né di là.
Sto cercando una soglia da varcare, una direzione da seguire, un luogo senza tempo.
Non esisto.
Si possono misurare il dolore, la sofferenza? Quella fisica certamente, ma quella che ti fascia il cuore e lo soffoca lentamente? Esistono bonus per chi ha provato a resistere o rientriamo tutti nel settore dei difettosi?
L’immagine di uova schiuse su un rullo, pulcini gialli sani, altri no, qualcuno nero. Mani, mani con guanti azzurri che gettano via i gusci e i pulcini malati o neri, lanciati dentro un tritatutto, perché difettosi.
Sono invisibile?
Forse è solo la mia coscienza che si sta spurgando. La mia mente che fa un defrag?
Incrocio la sguardo di Gwenda, ECCO come si chiamava! È un attimo, almeno così mi sembra, e tutta la sua vita mi travolge. Un bambino, ha perso un bambino, ed io ero lì, lo so. L’ ospedale, il sangue, il frastuono delle ruote della barella e i suoi lamenti. La sua mano che stritola la mia. Una flebo che rimane incastrata nella porta e si spacca, perdendo a terra il liquido bianco e leggermente vischioso in cui lascio una mia impronta.
E mi mischio alla piccola pozzanghera, calpestata da altri piedi, trasportata da suole sconosciute un po’ ovunque. Sono davanti a un letto di morte, la riconosco la morte. La signora sdraiata di colpo si siede e mi fissa. Ma come? Poi, si sdraia e piange. Sua figlia le tiene la mano e le sussurra:” Ti voglio bene mamma, ti voglio bene:”
Poi, solo vuoto.
Vuoto.
Vita e morte mischiate, connesse.
Alcune esperienze nella vita sono inevitabili? Paura, rabbia, desiderio, amore, ho fermato le emozioni, ho deciso di non volerle provare più.
Questa mia decisione è stata un inizio o un termine?
Come una nuvola striata dal vento, mi separo, mi allungo. Come una stoffa lisa dal tempo, che si lacera, senza strappi, lasciando larghe aperture, buchi sfrangiati.
Io, stoffa intrisa di lacrime, sono nella mano di qualcuno che non riesco a mettere a fuoco. Si gira lentamente e riconosco gli occhi, sono i miei. Ma sono più vecchia. Le mani rugose stanno recidendo rose. Amo le rose. Mai avuto il pollice verde, ma adoro i fiori e, spesso, li lascio al loro destino, fiorire e morire sulla pianta.
Quegli occhi mi stanno fissando senza vedermi, quegli occhi sono i miei.
Sarebbe stato il mio futuro? Sto dando una sbirciatina al futuro? Non mi pare gran cosa.
Ora sono al cimitero e sto mettendo le rose al mio amore, la sua foto, così giovane, accarezzata dalle mie mani rugose.
Dolore. Profondo, continuo, incessante senso di solitudine.
Quello che sto provando non è niente al confronto. La stoffa si strappa, bagnata, pesante, copre i miei occhi.
Dove sei? Dove sono? Ci siamo persi, ti ho perso, mi sono persa. Lasciami andare mente, lasciami. Ho attraversato il confine.
Lasciami.
Marcella Donagemma- accetto il regolamento- sezione B
THE NEW WORLD
Avete presente le barzellette che iniziano con un inglese un tedesco un francese ed un italiano? Lui la vita la vedeva proprio così. Immaginatevi senza che venga svelato l’effettivo ridicolo finale, la storia raccontata da ognuno dei suoi personaggi nella propria lingua. Il tedesco raccontare la storia con il suo accento: “zi, noi volere fare viaggio in la dachungle, e incontrato cannibalen”. Biondo alto, muscoloso, il classico tedesco prestante come i giocatori della famosa partita di calcio del 1970 tra Italia-Germania finita 4-3.
“ Suddenly, cannibals kidnapped noi e legato con mani dietro la schiena” ha continuato l’inglese pettinato con la scriminatura dei capelli sul lato sinistro, un baffetto sopra al labbro superiore, ispido e folto, con la pipa in una mano e il pollice che pressava il tabacco nel fornello.
“Oui, ils ont domandé un dernier desiderio” spiegò il francese. La cosa divertente è che tutti i personaggi raccontano la stessa storia, con accenti diversi, visioni prospettiche leggermente differenti, dovute alle asimmetrie culturali, al loro vissuto o semplicemente alle loro diverse percezioni.
Sapeva, nell’osservare un fatto, come potessero essere distinte le visioni di ciò che accadeva in base a ciò che l’inglese avrebbe chiamato mood, per il tedesco sarebbe stato lo stimmung, il francese lo avrebbe tradotto in humeur e per l’italiano era semplicemente lo stato d’animo, l’emozione del momento. Se stessimo parlando di psicologia, le potremmo distinguere in emozioni primarie e secondarie. Sapeva bene come far notare il lato giusto della medaglia, con il filtro emotivo più adeguato e, mentre pensava a ciò, si stava vestendo, prima i calzini lunghi e sottili, di lana, poi il pantalone scuro e ben steso.
La paura si sarebbe infiltrata nell’animo dei protagonisti, facendoli tremare come foglie, chiudere gli occhi e buttarsi a terra, resi innocui da quella morsa che attanaglia, che crea un vuoto cosmico dentro le viscere e fa in modo che anche il prestante tedesco se la faccesse sotto e si mettesse ad uralare “No uccidere me Ich bin eine gute mensch! No venuto qui per fare del male voi, io no buono mangiare, neanche con patate”
La gioia avrebbe reso tutta la scena più solare, l’italiano avrebbe potuto accogliere gli indigeni con euforia “ciao ragazzi, finalmente! Venite pure, c’è un tedesco da mangiare, io preparerei un soffritto di cipolla carota e sedano…”
La sorpresa è un’altra emozione primaria e lui l’associava al buon francese che avrebbe esclamato “oh la la la la la, que se passe, le cannibale! Ici! Per manger noi!”
L’inglese disgustato avrebbe potuto esclamare ”Is not possible! Tu vuoi dire que me, coming from the most important royal family del mondo, devo parlare on the same level con il re di questi selvaggi, that’s really not possible!”
Vi fa ridere questa intromissione delle emozioni nel racconto di un fatto? Lui ci aveva pensato una mattina mentre faceva la doccia. Siamo esseri così complicati, ma aveva pensato anche che proprio questa caratteristica sarebbe stata utile per poter avere l’effetto desiderato nel raccontare un avvenimento, riuscendo a deviare il giudizio della gente in base al diverso punto di vista da cui si poteva guardare il fatto stesso o semplicemente in base a quale filtro emotivo ne avrebbe modificato la percezione. Si abbottonò la camicia bianca, immacolata, il colore perfetto per far sembrare la sua coscienza pulita davanti a tutti. La cravatta, con un nodo elegante ed in tinta con la giacca lo faceva sembrare una persona integerrima e distinta. Mentre la sua immagine dava l’idea del buon padre di famiglia, del buon cattolico, dell’onesto amministratore che si sacrificava per la società e la nazione, condizionare la massa era diventato il suo gioco preferito e negli anni aveva imparato a farlo molto bene. Le nuove leggi varate erano raccontate in modo facilitato, ripetendo una spiegazione parziale strenuamente, per far in modo che tutti parlassero degli stessi argomenti con le stesse parole, che provassero rabbia per chi non rispettava le regole, paura per ciò che avrebbe potuto succedere, disgusto verso chi la pensava diversamente, ilarità e gioia per gli effetti reprimenti delle nuove leggi e così via.
“Io quelli che la pensano così li ucciderei”, “ma ti sembra possibile una cosa del genere?” “ questi coglioni…”(ridendo), “poverino, guarda cosa gli è successo, sono triste, questi tempi sono bui davvero”
“Prima o poi succederà anche a noi…”
Dicevano le persone, colpite dalla visione emotiva dei fatti. E lui lo sapeva bene, guidare le emozioni, parlare con la pancia degli elettori, fargli vedere le cose a metà, la metà bella era sempre stata la sua capacità.
Si guardò allo specchio appagato dalla sua immagine elegante e belloccia, le scarpe nuove erano davvero il tocco finale. Le mani curate, il Rolex costoso che sbucava discretamente dal polsino, la fede all’anulare sinistro, quella rassicurava tutti, anche se il suo matrimonio era solo di convenienza, era una solida facciata.
Da giorni le televisioni trasmettevano le parole ed i comunicati che lui stesso aveva scritto accuratamente.
Da giorni le persone comuni assorbivano quel nuovo linguaggio, il messaggio del nuovo ordine sociale.
Chi andava al supermercato, dal fornaio, in ospedale o semplicemente a scuola, doveva uniformarsi allo Stato d’animo di tutti.
Nessuno doveva pensare in un altro modo, nessuno doveva farsi domande. Le domande le avrebbe fornite lui, con le risposte corrette.
Aveva un po’ alla volta fatto i passi giusti, aveva creato un nemico, aveva semplificato le questioni riducendole e sminuzzandole in concetti semplici, aveva esagerato qualsiasi piccolo aneddoto che andasse contro i suoi scopi, aveva adottato un linguaggio gretto e semplice, raggiungendo tutti, ed allo stesso tempo impoverendo la lingua, con lo scopo di ridurre la capacità dialettica di chi non era ancora convinto.
Il cervello lavora con le parole, diceva, meno parole si conoscono, minore è la capacità di uscire da ciò che tutti devono sapere, e ciò che devono sapere doveva essere ripetuto in maniera estenuante.
Così aveva identificato il nemico in chi pensava da solo, nell’anticonformista, in colui che poteva ancora avere un pensiero critico.
Si riguardò allo specchio, era davvero elegante.
L’esecuzione del giornalista era programmata per le otto e mezza di sera, tutti i telegiornali sarebbero stati collegati, lui avrebbe fatto la sua bella figura.
La sedia elettrica era stata oliata, pulita e restaurata, tutte le viti ed i cavi erano stati sostituiti, brillava e doveva far brillare le nuove leggi del suo nuovo ordine sociale.
Avrebbe fatto un discorso, mostrandosi personalmente clemente ed umano per poi affermare che la sua umanità però non poteva prevalere rispetto al bene comune e al nuovo ordine sociale.
Si avviò per i corridoi lindi del palazzo, con un elegante sorriso di compiacimento, canticchiando una canzone che da giovane gli piaceva molto.
Il mio nemico non ha divisa,
Ama le armi ma non le usa,
Nella fondina tiene le carte visa
E quando uccide non chiede scusa (cit)
Mentalmente cercò di ricordare l’autore, accelerò il passo, i ritardi nel nuovo ordine erano stati banditi.
Pensò alle parole che canticchiava e fece un piccolo appunto mentale, l’autore sarebbe stato il prossimo a sedersi sulla sedia elettrica, d’altronde, chi aveva scritto che in futuro ognuno avrebbe raggiunto la notorietà per quindici minuti? Andy Warhol? Non lo preoccupava, lui era già morto.
Giovanni Ferrari accettò il regolamento sezione B
Sogno la pace
in un clima di violenza avversa.
Anche io ho vissuto una guerra.
Ero quella bambina seduta
al precipizio di una riva,
dissanguata assieme ai coetanei
per la strada dispersa.
Urla strazianti mi invasero i capelli
tra sguardi inferociti
di uomini
che si credevano eroi quasi spariti.
SEZ A Accetto il Regolamento
Angelo Napolitano
Accetto il regolamento, sez. a
MATERNITA’
Il Verbo dell’Amore s’è incarnato
ed è venuto ad abitare in Te,
a rinnovare ancora la promessa
delle Veneri fatte nella roccia.
La Madre Primigenia, il primo segno
dell’essere divini, Magna Mater;
dell’essere alfa e omega d’ogni vita,
nel dare vita ad ogni alfa e omega.
Come sei bella, Figlia dell’Amore
che, come il pane lieviti, beata,
e come il vino inebri metà cielo,
ché l’altra metà frigge nel tuo grembo.
Come sei Madre, Figlia della Madre!
Il Padre vive della vostra grazia;
s’eterna al raggio della luce viva
che tu hai generato tra le stelle.
Diego
Sembravi un angelo in quella culla,
ancora non sapevamo
cosa ci stavi preparando.
Tra dolori del pancino
e la pappa che non và,
ci hai creato
alcune notti di piena difficoltà.
Dal terzo mese in poi però,
tra pianura lago e mare
con quel tuo sfiatatoio naturale,
per far felice mamma e papà
tutto è tornato normale.
Adesso attendiamo solamente
che cominci a camminare,
per giocare lungo il viale,
dove i nonni anche se
con qualche affanno
ti seguiranno borbottando,
ma felici di poterti accompagnare
nei giardini del parco a giocare.
Giuseppe Loda
Sezione A accetto il regolamento.
SEZ. A
IL RIFUGIO DI DIO
Forse Dio si cela, quieto e leggero,
là dove mai penseresti di cercare,
in quell’angolo nascosto della mente,
che invano tenti sempre di placare.
In quel chiodo fisso, ostinato e pungente,
che il cuore stringe e non vuole lasciare,
forse si nasconde tra i silenzi stanchi,
e nei timori che l’anima sa custodire.
Forse Dio è nelle pieghe del pensiero,
che ondeggia tra il bene e il male oscuro,
in ciò che hai scordato o mai osato dire,
nelle speranze che ancora segrete custodisci.
E forse, Dio si nasconde, lieve,
tra i desideri mai sopiti,
tra i sogni sospesi e le parole taciute,
attendendo il tuo sguardo per essere trovato.
Antonella Chiego
(Accetto il regolamento)
Dalla foto s’irradia e mi avvolge
il calore del tuo sguardo sognante
la rosea aurora delle tue labbra
i tuoi capelli come raggi di sole
nelle ore insonni dei miei ricordi.
Sei bella e immobile
nella bellezza
nel tuo sorriso di amante
nei tuoi occhi misteriosi
che ancora scrutano il mio pensiero.
E le tue mani. Le tue mani
che posavi sul mio corpo lievi
come ali di lunghe orchidee
come fiori di corallo in grotte marine.
La mia vita riposava in balia
delle tue dita
come sull’argine di un fiume
una barca
cullata dai tuoi sospiri.
Ah! Le tue mani si nascondono
nel buio dell’assenza
senza che io possa sfiorarle
pur nell’inganno della foto.
Ogni tua carezza il mio amore
innalzava a immagine eterna.
Invano.
Ebbro delle tue mani
dimenticavo
il loro profumo di frutti perduti.
Marcello Comitini
Accetto il regolamento – Sez. A
CINZIA PANUCCIO
ACCETTO IL REGOLAMENTO SEZ.A
LA FORZA NON È MIA
Ad Aleppo il tempo sembra essersi fermato
son passati dodici anni,
e ancora c’è un conflitto armato.
È solo terrorismo allo stato puro.
Tra attentati suicidi ed autobombe
si massacrano civili senza colpe.
Il più spaccato è il fronte dei ribelli
bombardamenti e mine
all’improvviso diventano coltelli.
Divisa in due,
è sempre sotto assedio,
non c’è scampo non c’è più riparo,
solo macerie che sembran fatte in serie.
Manca acqua, cibo, carburante elettricità
ma per i civili nessuno prova pietà.
Non bastasse il terremoto ed il colera,
lo scoppio della guerra in Siria è una bufera.
L’ho visto nelle foto lo sgomento,
la voglia di non arrendersi e lottare,
volere quello che per noi è normale,
una vita, un lavoro e una famiglia,
magari proprio davanti ad un focolare.
La mano di un bambino che chiedeva,
perché la sua scuola era bruciata,
mancava l’acqua o forse non era bastata?
In questo pezzo di terra martoriato
c’è un posto che però sembra incantato,
la casa della pace apre le porte
a chi cerca di sfuggir anche alla morte.
Un monastero tra i ruderi viene fuori
lì trovi i pochi cristiani,
che della pace sono ambasciatori.
Non tengono armi in pugno,
perché non serve
l’unica arma è la fede che riemerge.
Un fiore nel deserto della vita
perché tra tante morti e distruzione
ritorni a far bandiera solo l’amore.
Con gli occhi pieni di lacrime,
di fronte a queste anime abbandonate,
quel senso di impotenza mi pervade,
caro Occidente, hai perso tanta gente.
Muto
davanti a dei lenzuoli bianchi
e ad una grande fossa ora sei caduto.
La lezione più importante che ho imparato
è stata quella
con la violenza non si è mai vinta guerra.
La forza non è mia ma di quella gente
che in Dio
nonostante tutto è rimasta credente.
La porta (accetto il regolamento, sez b)
A volte ci sono momenti, intensi ma brevi, in cui immagino di avere un posto tutto per me. Ma forse non è la verità. Io non so immaginare. E non son cosa voglio. E’ che ora, qui, in questa enorme casa linda e ordinata come una maledizione, ho pensato: se avessi una stanza solo mia ci terrei un armadio, grande, bianco, anonimo come quelli del postalmarket, ma coi cassetti blu. Li terrei sempre aperti. Non so perchè ho pensato ai cassetti. Non sono riuscita a pensare ad altro. E’ stato un pensiero simile a quei refoli di vento che ti sfiorano appena e svaniscono presto, come quando vai in veranda ad annaffiare i fiori o a stendere il bucato.
Per tutto il giorno ho pensato ai cassetti. Nella mia casa d’infanzia avevamo un mobile in truciolato, coi cassetti che scricchiolavano ogni volta che li aprivi. Certe volte dovevi tirarli fuori del tutto, affinchè non si richiudessero storti, facendo uscire la canottiera ingiallita di mio padre o la magliettina di mio fratello col collo blu spiegazzato e una piccola nave sul lato destro, rimasta li come un reperto, anche quando non gli andava più. Ma ciò che più mi impressionava della casa d’infanzia era la porta grigio scuro. Stava tra il cucinino e la sala e segnava l’ingresso a uno sgabuzzino. Mio padre ci aveva messo uno scaffale in ferro, che era un pò arrugginito e che non toccavo mai, perchè era freddo come il tavolo di un obitorio. Freddo come la porta. Quando mi mandavano a prendere una pentola che usavamo poco nello sgabuzzino, io cercavo sempre di svignarmela. “Ecco, vedi com’è pigra, l’hai cresciuta male” diceva mia madre. Mio padre se ne stava zitto come uno scolaro che sia stato sorpreso dalla maestra col quaderno incompleto dei compiti a casa.
Certe volte mi sedevo a terra (anche il pavimento era freddo), dietro la porta e la guardavo in tono di sfida. “No mi fai paura” le dicevo. Ma una volta, cigolò. In casa c’eravamo solo io e mio fratello, che stava andando in bici nel piazzale, gridando a squarciagola. Smisi di sedermi dietro la porta. Da allora, anzi, ho odiato le porte scure. E gli appartamenti in genere. Anche quello della zia che, come dicevano i miei, c’aveva il marito con lo stipendio buono di pezzo grosso dell’Inps e la casa bella poteva permettersela. La casa della zia sembrava una foresta equatoriale trapiantata in un appartamento, coi suoi pappagalli sulle tappezzerie verdi, i cuscini fioriti sul divano acquamarina, i banani in magnifici portavasi verde/lucido acquistati nel vicolo delle ceramiche di Grottaglie (era un particolare che mia madre evidenziava sempre). Eppure quella casa non mi dava alcuna emozione, a parte il presentimento che anche lì, da qualche parte, dovesse esserci ‘la porta grigio scuro’. Così un giorno, durante la visita alla zia, chiesi di andare in bagno. E mentre in passato mi ero anche divertita ad ammirare lo specchio con i profumi dai tappi a spirale e i bagnoschiuma nei flaconi enormi e colorati, che a casa non usavamo mai, perchè la saponetta palmolive costava molto meno, ora cercavo solo l’indizio della porta grigio scuro. Mentre facevo la pipì nel cesso rivestito di un tessuto verde simile a lana pettinata, spalancai le gambe e ci guardai attraverso, chiedendomi se ‘la porta grigio scuro’ potesse sbucare proprio lì, dall’acqua torbida. Magari sarebbe spuntata all’improvviso ed io avrei validato quella che era ormai una certezza: tutte le case avevano ‘la porta grigio scuro’.
Mia madre entrò poco dopo e mi chiese che ci facessi tutto quel tempo in bagno. Dietro di lei c’era la zia coi suoi chili di ombretto azzurro, che le prendevano tutta la palpebra, fino alle sopracciglia. “Sto facendo cacca” mentii. Mia madre venne a controllare ed io mi sforzai di far uscire qualcosa contraendo la pancia a più non posso. “E che non mi esce” dissi, per giustificarmi. Allora la zia sfoderò tutta la sua eloquenza pedagogica, dicendo che la cacca si fa quando viene e non bisogna forzare altrimenti il buchino del sedere ti si apre come un fosso e inizia poi a bruciarti. Poi le due si guardarono. “Chissà che stava combinando” sentii dire da mia madre. Mia zia diede di sfuggita un’occhiata ai profumi, per accertarsi che fossero ancora lì, ma io me ne accorsi. Sin da bambina ho avuto il sesto senso, come i gatti e forse anche più sviluppato.
E’ per questo che non mi sono mai interessata alle case. All’università stavo in un appartamento con le tubature arrugginite che rischiavano di scoppiare da un momento all’altro, allagando la casa (rischio di cui ero stata informata dalla mia coinquilina più esperta) e le formiche che la infestavano da giugno, tanto che la mia compagna di stanza riempiva l’intero perimetro della casa con una polverina bianca, che la faceva sembrare ancora più squallida. Amavo quella casa perchè non era abitata da famiglie. E quindi, non c’erano ‘porte grigio scuro’, a parte quelle chiare che chiudevamo dietro di noi nei pomeriggi di studio intenso, per starcene come monache in clausura. Però in quella casa c’era una finestra, magnifica, in legno, che dava su una piazzola di sosta in cui c’era un autolavaggio. Così la sera il suono delle spazzole e il vociare dei passanti mi cullavano dolcemente, fino al sonno. La mattina, poi, quella finestra si riempiva di una luce strana, surreale ed io mi sollevavo sullo schienale del letto, prima di mettermi gli occhiali e vedevo tetti abbozzati, la piantina sul davanzale che si stemperava, delicata, su quel paesaggio surreale. In quei momenti dimenticavo le porte grigio scuro e pensavo che forse era un mio diritto vivere in un mondo con finestre che danno su una luce incantevole. Quella parola, però ‘diritto’ scricchiolava in me in maniera strana: era come se in un bar di periferia frequentato da ubriaconi con gli occhi arrossati e i ventri enormi per cirrosi, fosse entrato un distinto signore con una tuba e una giacca dell’ottocento e avesse detto loro: signori, è un vostro diritto essere felici. Forse quegli ubriaconi erano usciti dalla porta grigio scura della mia infanzia e mi si erano attaccati addosso come cimici. E ridevano a squarciagola della parola ‘diritto’.
Un giorno nella mia stanza entrò un ragazzo: era il fidanzato della mia vicina di letto, una creatura ermafrodita con tantissime idee e altrettanta voglia di rendersi inutile al mondo. Tra un ondeggiamento e un’occhiata strabica, il ragazzo mi chiese se mi andasse di fare una seduta di regressione alle vite precedenti. Mi stesi sul letto, chiedendomi se i due, durante la mia assenza, lo avessero usato per fare sesso, avvicinandolo a quello di Catia. Un pò per noia e stanchezza, visto che avevo studiato tutto il giorno, mi lasciai trascinare nella leggera trance ipnotica, guidata da una voce stridula. Vidi me stessa sotto una chiesa che non era barocca e neppure gotica, ma un’insieme dei due stili. Una signora che sembrava la vicina di casa della mia infanzia, vestita di nero, chiedeva l’elemosina sul sagrato ed io ero al suo fianco, una bimbetta magra vestita di stracci neri e dal viso sporco. La visione mi impressionò un poco e con poca delicatezza (così mi disse la mia guida) tornai alla realtà. Subito dopo, dall’oracolo, arrivò la sentenza: “Vedi; tu sei inquieta perché hai sangue nomade nelle vene. Tu sei come noi! disse, muovendosi in una specie di danza a scatti, senza calzini, prendendosi tutto lo sporco del pavimento lavato a malavoglia da me e Catia e l’altra ragazza, a turno, una volta a settimana. Non gli avevo mai detto che ero inquieta, ma era vero. Ma non ero come loro, almeno non ero uscita completamente di testa. Quella rivelazione metafisica confuse ancor più le mie idee: dubitavo della felicità perchè ero stata una zingara, viaggiando in un carrozzone tintinnante di simboli e amuleti, dove il pranzo e la cena si preparano all’aria aperta in enormi pentole condivise con la tribù?
Devo ammettere che fu forse quella rivelazione a trascinarmi, dopo l’università, tra botteghe di illuminazioni gestite da sedicenti guru ispirati. Poi decisi di farla finita e mi sposai in municipio, prendendo qualche giorno prima un intero flacone di rescue remedy di fronte all’impiegato comunale coi baffetti e la faccia rosa che, al termine della pratica disse, quasi sibilando… Auguuriii.
Qualche notte prima del matrimonio sognai che la mia fede nuziale, troppo grande, mi usciva dal dito, rotolando fino ad un tombino. “Forse non dovremmo sposarci” dissi al mio futuro marito. Pensai di parlarne a casa, ma poi mi venne in mente la porta grigio scuro e vi rinunciai. Anche il mio sogno sarebbe finito lì, sullo scaffale di ferro con le pentole, le tenaglie, le rafie, i fuscelli di ricotta e dio solo sa cos’altro, in quell’umido dannato dei cimiteri nelle mattine di inizio novembre.
La mia grande casa, ora, sembra quasi senza finestre (abbiamo infatti una vetrata panoramica vista giardino) e la luce è così tanta da essere inaccettabile. Sarà per questo che non riesco più a immaginare. Non so se preferisco questa casa a quella dei miei con la porta grigio scuro. Ho sentito che la venderanno, perchè sono vecchi e hanno bisogno di soldi. Penso allora che siano fortunati: io non so di cosa ho bisogno. Perchè forse il mio cuore è rimasto oltre la porta grigio scuro sullo scaffale in ferro, imbalsamato come carne acerba.
Tia Airoldi
Dichiaro di accettare il regolamento
Sezione A
RADICI
Scommetterò sul rosso
di un cuore che si gonfia,
che ha bevuto troppo sangue
e la sera poi si allarga.
Scommetterò sul nero
che lo tiene prigioniero
tra nuvole e fumo.
Scommetterò il respiro
e una corsa a perdifiato.
Sentirò la tua mancanza
che bussa da vicino.
Scommetterò il futuro
bruciando il calendario,
e almeno non sbaglio.
Ma i tuoi occhi
son profondi,
e hanno le radici.
E crescono
dentro di me.
Scommetterò i miei passi
che s’intrecciano in tondo
e che fanno una corona
di pozzanghere e di fango,
per aspettarti sveglia
solo se ne avrai bisogno,
o a trovarti in un sogno.
Le tue mani così fredde
hanno le radici.
E crescono,
si allungano
dentro di me.
Scommetto che stai sola
solo per tirare il fiato,
per pensare a quel pensiero
che non ti ha mai lasciato.
Ma un giorno, finalmente,
ti perdonerai
per le colpe che non hai.
Catanzaro Francesco Paolo
Dichiaro di accettare il regolamento
Sez.B
Gaza
Ditemi come vi sentireste se qualcuno venisse a casa tua e cominciasse a spadroneggiare, se qualcuno entrasse nel tuo giardino e raccogliesse i frutti dei tuoi alberi, se qualcuno mangiasse la tua terra perché dice che è sua?
Ti sentiresti sradicato dalle tue certezze e cominceresti ad essere naufrago nella tua polvere.
Così cominciò la guerra.
Tirando pietre agli invasori. Poi ci accorgemmo che anche loro avevano le loro ragioni. Avevano avuto dalle nazioni vincitrici della seconda guerra mondiale un dono, quella terra promessa che avevano tanto cercato per secoli, come riconoscimento alle sofferenze della Shoah. Come se bastasse dare un dono per fare dimenticare la malvagità di quegli uomini dl Novecento! La terra. Terra nostra che dovevamo cedere ai nuovi arrivati. È la logica filoamericana quella di conquistare la casa degli altri. Quanti pellerossa sono stati sterminati perché difendevano le loro praterie? Alla conquista di un West che progettava riserve indiane ed appropriazione bianca della terra dei bisonti.
E abbiamo continuato a tirare pietre agli occupanti.
Poi le armi sono diventate più sofisticate e ci siamo scambiati missili sopra i civili.
Abbiamo però compreso che si può vivere in pace, accettandoci anche se una parte deve cedere all’altra la terra propria per costruire una terra comune.
È difficile ma non irrealizzabile.
Costruire pace per non fare soffrire più i nostri figli le nostre donne, i loro figli, le loro donne sotto i missili dei nemici, che hanno gli stessi occhi, uno stesso cuore ed amano la stessa libertà.
Il bambino rincorre la pace
Il bambino rincorre la pace
e muove le braccia come ali
di farfalla, forti controvento
e lievi sull’erba quando sfiorano
l’oro dei ranuncoli. La pace rotola
più in là, sempre più in là, come la palla
lanciata in volo verso mani amiche.
Ride il bambino che l’insegue e corre,
corre e corre, ancora.
La pace
sale verso l’alto e vola e benedice
quel gioco solenne ed innocente.
Benedice il bimbo che non sa
le cieche corse ed i malfermi
piedi dei piccoli fratelli in fuga
tra macerie infide, là,
dove esplode la guerra
e non c’è palla da lanciare
in cielo, né prato sulla terra.
Là, dove una falange di nubi,
dì armi e di fuoco oscura
i giorni e le notti senza luna.
Dai ciliegi inerme
scende un pianto di petali (s’è spento
il pigolio dei nidi e vagano
nell’aria piume come fiocchi
di spatriata neve).
accetto il regolamento, sez. a
FUORI NEVICA
Fuori nevica.
Nevicano bombe e proiettili,
e nel frastuono si posa un vasto manto
di nera fuliggine e bianca cenere.
I nostri fratelli piangono.
Piangono lacrime di sangue.
I loro cuori si squarciano, mentre di altri
i corpi si dilaniano. Sovrana è la morte.
Le Stelle non brillano, non indicano
la via della vita che germina nella luce.
Le stelle sono mirino e segnalano
ove recapitare distruzione, disperazione.
Non più pastori né re ad adorare la gioia
e la bellezza che in fasce sono avvolte,
ma sovrani tiranni, servi del potere, che
saccheggiano e sottomettono.
Regna la fame.
Egli nacque in una grotta, ora al caldo
tavole imbandite di fraudolenti sorrisi
e sguardi indifferenti. Non più carezze,
né parole di conforto. Ovunque solo ipocrisia.
Una giovane e umile fanciulla portò
in grembo la speranza e la salvezza.
Nelle moderne dimore, troppe donne
oppresse e nell’indifferenza uccise.
Fuori nevica, ma non è neve.
Domina l’odio e non l’amore.
Sovrana è la morte, le luci sono spente
e nei cuori non è più Natale.
MANUELA ORRÙ
SEZIONE A POESIA
ACCETTO IL REGOLAMENTO
Non ci resta che la poesia
per parlare di noi.
In questa vita
che ci mette davanti
solo guerra e violenza,
differenze e rivalità,
ci salveranno l’amore,
i versi dei poeti,
il sorriso dei bambini.
E gli abbracci di chi sa
cos’è la solitudine.
Non c’è che la poesia
in noi.
© Daniela Giorgini – Sezione A – Accetto il regolamento
IL VIAGGIO
19 Gennaio, a Melbourne c’è un caldo di 33 gradi e si parte.
Le valigie è difficile riempirle di indumenti invernali, si suda, non si può pensare a maglioni e cappotti, il sudore imperla la nostra fronte appena chiusa la porta di casa, ma in macchina c’è l’aria condizionata e lì si sta bene.
Si sta bene anche in aereo; caldo, sempre caldo anche negli aeroporti dove ci siamo fermati in attesa dell’altro aereo che ci avrebbe portato nella nostra meravigliosa Italia!
Siamo arrivati a Fiumicino a Roma, alle 5.30 del mattino, ci ha travolto la voglia di respirare la nostra aria a pieni polmoni e ci siamo fatti delle passeggiate fuori dall’aeroporto, a maniche corte, in pantaloncini… la gente ci guardava con gli occhi fuori dalle orbite.
Il mattino del 20 gennaio siamo usciti a maniche corte fuori, dove ci attendeva la navicella elettronica dell’aeroporto…
A Palermo, simile show fuori a Punta Raisi e la gente ci guardava allibita e ci sorrideva, come per dire che eravamo matti da legare, mentre tutti erano con maglie, cappotti, sciarpe e cappelli, sembrava essere nell’Alaska.
Eravamo ancora caldi dal sole cocente dell’estate australiana, ma adesso le calorie sono sparite e da qualche giorno sentiamo un freddo cane, non abbiamo voglia di uscire, e dire che vorremmo tanto scorazzare per tutti i bei paesi, città e strade della nostra favolosa Sicilia, ma il freddo è diventato pungente, tanto punge che ci fa restare a casa come ebeti a mordicchiarci le unghie di rabbia e di noia.
Come si fa a rimanere qui, col freddo che ci fa gelare?
A Palermo era primavera, c’era un sole tiepido e splendente, abbiamo passato una settimana di sogno a visitarla tutta nel suo straordinario splendore!
Dico a mio marito di andarcene subito nella nostra calda casa australiana, ma se poi coi 40 gradi non si respira, anche se avvolti dall’aria condizionata, come facciamo a ritornare tra queste mura di ghiaccio per avere sollievo?
Stamane, qualche fiocchetto di neve ci ha salutato gioioso dai vetri della nostra casa di Vizzini e siamo rimasti ad ammirarli con gioia, mentre battevamo i denti dal freddo che ci ha fatto passare la voglia di uscire e di andare a scoprire le novità del nostro bellissimo Paese, dopo tantissimi anni di assenza.
Siamo nella nostra bella Italia e abbiamo visto poco a causa del freddo che ci ha rintanati in casa in compagnia della nostra cara, inseparabile stufetta…
Meraviglia delle meraviglie!
Qualche giorno dopo, un cielo azzurro siciliano ci ha salutato dall’alto del suo sfolgorante sole, un sole primaverile precoce, ed ecco le scorribande in campagna, nei paesi e nelle città, col cuore galoppante di felicità.
Un regalo inaspettato, temperatura mite, sole tiepido in gennaio e febbraio 2004 in Sicilia, mentre più su neve e gelo. Nel nostro cuore in festa, la voglia prorompente di urlare di gioia per comunicare a tutti che la nostra splendida Sicilia è colma di sole, di azzurro, di profumi e inebrianti colori, di verde di ogni sfumatura e di fiori a iosa di ogni colore che ci hanno accolti nel loro grembo con un caloroso benvenuto…
In Sicilia, la primavera è perenne e splende con tutto il suo favoloso paesaggio e la notte è sempre smagliante di stelle, che accompagnano i nostri passi con le loro luci sfolgoranti di bagliore unico!
Tempo di primavera, di frenesia, di magia che non potremo mai dimenticare…!
È passato questo periodo magico; in un baleno si è concluso il nostro improvviso viaggio, solo ieri sentivamo freddo e volevamo ripartire, ma con questo sole accogliente, colmo di raggi che ci trafiggono di gioia, con i miei amatissimi due fratelli e i dolcissimi miei quattro nipoti che ci hanno dato il loro amore immenso, il tempo pare impossibile che sia volato così in fretta: il tempo di un respiro e bisogna ripartire. Ripartire al di là di tutti i mari, i monti e gli oceani, bisogna ritornare a casa, ma quale casa? È qui, in Sicilia, la mia casa, la mia gioia, la mia felicità, ma mi accorgo che niente mi trattiene ormai, siamo turisti, solo turisti euforici in questo lasso di tempo, ma è lì la nostra famiglia, però ci assalirà, mi assalirà subito la malattia che è sempre pronta ad avvolgere il mio cuore, devo andarmene, devo attraversare ancora oceani, mari e monti per tornare nella mia casa, l’altra casa aldilà di aldilà, lì, tra i canguri che mi saltellano vicino, i koala che sorridono beati tra i verdi eucalipti, i coccodrilli che arrancano tra le acque torbide dei fiumi dell’outback, tra i rosella che saltellano gioiosi coi loro sfavillanti colori, tra i pappagalli bianchi e gialli che stridono al mattino svegliandoci con la loro allegria, i kukabarra che ridono all’infinito dei nostri tormenti, ritornare!!! Il nostro ritorno desiderato dai nostri figli e nipotini, ma è stato solo un mese e vogliono il nostro ritorno! Una tragedia del cuore questa lontananza, bisogna ritornare! Una festa di lacrime ci attende tra il tappeto d’erba dei giardini infiniti, ma lì c’è l’altra metà del mio cuore, un cuore che è e sarà sempre diviso a metà, poiché sono arcisicura, che appena metterò piede nella mia casa, penserò ancora e ancora e sempre all’altra mia casa, quella casa in cui sono nata, in cui ho vissuto la mia giovinezza spensierata, dove ho incontrato il mio amore, dove ho studiato, (premonizione) per sei anni la lingua inglese, ho voluto frequentare quell’unica scuola dove si studiava la lingua inglese…!
L’Australia è stupenda, un paradiso d’incanto, un giardino infinito di verde, larghissime strade lunghissime e diritte, grattacieli di sfolgorante modernità che sfiorano i cieli immensi turchini e si specchiano maestosi sui fiumi che attraversano le città pulitissime, inondate dai profumi salubri dei boschi che corrono all’infinito, ma io ancora morirò di nostalgia, e questo paradiso sarà sempre un inferno che non avrà mai fine!
Nostalgia furiosa e terribile malinconia che mi stravolge pensando al ritorno, (se ci sarà) ritornare sempre con le ali nel cuore, per poi ripartire con le ali che non si fermeranno mai nei secoli dei secoli avvenire!
Mi assaliranno come sempre i ricordi, ricordi di un nostalgico passato coi miei due fratellini, coi miei meravigliosi genitori, i capricci, i desideri sempre esauditi, i miei genitori fantastici che mi hanno coccolata e viziata con il loro immenso affetto e amore infinito!
Io li ho lasciati raggiante di gioia, “Torneremo presto, sarà la nostra seconda luna di miele!”
“Tornerò presto, un attimo e torno!” Euforica per la grande curiosità di scoprire un altro mondo, non ho capito le loro lacrime, che poi son diventate anche le mie lacrime e si son formati torrenti e fiumi in piena per tutte le lacrime che abbiamo versato…
E son passati 7 anni dal mio primo ritorno, poi 25 anni e papà non c’era più…!
Lacrime di gioia ad ogni ritorno, lacrime e sospiri ad ogni partenza, lacrime senza tregua; si ci può navigare nel nostro fiume di lacrime.
Ora non ci sono più i miei stupendi genitori, ma mi son rimaste le mie radici così profonde che mi hanno messo le ali, le ali nel cuore!
Ali resistenti per volare ininterrottamente fra questi due miei cari Continenti!
…E vado volando attimo dopo attimo con la fantasia, e come la rondine sogno sempre il mio ritorno!
accetto il regolamento sez. b
Venti secondi per nascondersi
Sento le notizie del telegiornale: un’altra guerra è iniziata, un’altra continua e un’altra chissà, forse sta per finire. Rimango esterrefatto, cerco di trovare un senso a tutto ma non lo trovo. Ho studiato la storia, già dalle scuole elementari, quelle che oggi chiamiamo primarie, poi nelle medie inferiori, poi nelle superiori e infine all’università. Mi laureai ormai nel lontano 2004, quasi vent’anni fa, nella facoltà di giurisprudenza e ho sostenuto tanti esami di storia, dalla storia del diritto ramano alla storia del diritto italiano, passando per le istituzioni di diritto romano al diritto romano: cambiano i nomi ma la sostanza è la stessa, conquiste, innovazioni, progresso e anche guerre. Non si sente altro. L’uomo ha il bisogno di manifestare la propria forza, il proprio dominio, la propria supremazia. Ha bisogno di allargarsi, di espandersi quasi non gli bastasse più il proprio orticello da coltivare. A me dicevano sempre di appartenere alla generazione che non ha vissuto una guerra: le generazioni precedenti hanno vissuto la Seconda guerra mondiale o la Prima guerra mondiale e alcune persone, addirittura, entrambe. Noi no, sembravamo i più fortunati. Mio padre diceva sempre che il problema non era la guerra ma il periodo immediatamente successivo alla fine della guerra, fatto di privazioni, di forte crisi economica, di fame. Io in effetti la fame non l’ho mai provata, non so di cosa si tratti, però non credo che siamo una generazione così fortunata e non credo che non abbiamo subito gli effetti della guerra. Forse non in prima persona, non ho mai visto in diretta (se non in tv) un bombardamento, questo è verissimo, ma subisco di continuo gli effetti della guerra stessa. Ripercussioni economiche, prezzi dei generi alimentari che aumentano, benzina alle stelle, ma il danno principale lo creano quelle immagini: oggi, non solo con la tv, con i giornali, ma soprattutto con internet e con i social network si vede di tutto. È vero, non bisogna credere ad ogni cosa che si vede o si sente ma tante immagini trasmesse coincidono con la realtà. Come si può non piangere, non soffrire dinnanzi alle immagini di un popolo civile che soffre? Vedere un missile, una bomba che cade improvvisamente in una folla, che distrugge case di poveri innocenti; non si può rimanere insensibili, non si può non risentirne da un punto di vista emotivo. Non è necessario essere empatici per stare male, basta semplicemente essere umani. Il fatto che una guerra sia a migliaia di chilometri dalla nostra abitazione non significa che non debba riguardarci. Non possiamo tenere gli occhi chiusi, voltarci dall’altra parte, pensare ad altro. Ho sentito che dal suono di quelle drammatiche sirene che stanno ad avvisare la popolazione di un imminente attacco, si ha un tempo di venti secondi per nascondersi nei bunker che non riesco neppure a immaginare come siano strutturati. Si parla di sotterranei, che riescono ad evitare gli effetti delle bombe. Ma ci rendiamo conto di cosa significhi venti secondi? Un tempo così ridotto per nascondersi, per non rischiare che una bomba ci uccida o ci ferisca gravemente per tutta la vita? Io in effetti spero di avere capito male, ma se anche non fossero 20 secondi ma fossero venti minuti, ma ci accorgiamo di quanto l’umanità si è in qualche modo ridicolizzata? Perché non è un evento naturale, non si tratta di un uragano o di un terremoto, ma della decisione di pochi che condizionano la vita di tanti. Io non ho mai dato ragione o torto, delle tante guerre che sento non penso che ci sia un colpevole o magari c’è ma non sono io a dichiararlo, non ho le conoscenze o la cultura per poterlo fare. Ho sempre creduto a quell’articolo dieci della mia amata Costituzione che parla di ripudio alla guerra. A me non interessa chi abbia ragione, perché non c’è una ragione alla guerra. L’unica cosa a cui credo fermamente è che non ci saranno mai né vinti né vincitori ma alla fine siamo tutti degli sconfitti, dei perdenti. Mi piace concludere con un aforisma di Madre Teresa di Calcutta sulla pace: “Cerchiamo di non usare bombe e armi per vincere le guerre. Usiamo amore e compassione”.
Sezione B – Accetto il regolamento
Alessio Asuni
Oltre la normalità
Un folle richiese amore,
le sue urla raggiunsero insistenti
le mura del cuore dei normali scettici
che ignoravano le sue vibrazioni robuste.
Ogni cosa incompresa aveva
il gusto della fragilità lasciata
per terra ad accumular polvere sterile
e intanto la rivoluzione incombeva spontanea.
Un essere normale si dichiarò composto
mentre si mascherava tra le trame del mondo,
indossava armature incementate con vigore,
non penetrava la follia d’un contatto umano.
Tutti i folli riuniti sotto la pioggia ed il vento
ballavano tra le derisioni spalancate come porte,
si salvarono tra loro, lodando vita divina e
fecero zittire la maggioranza dei normo-imprigionati.
Si scoprii che oltre la normalità: le norme ragionate
a caso, si librava il senso vulcanico della gioia:
l’amore privato dai filtri dell’ipocrisia incoerente,
quello che stringe e non costringe con sentenze.
Giuseppina Lauricella
Sezione A (Accetto il regolamento)
La culla vuota
Piazza della Mangiatoia a Betlemme
è colorata di luci e addobbi.
Nel silenzio di pietra una preghiera
come ultima arma contro la guerra.
A pochi passi l’eco delle bombe
grida al mondo la sofferenza,
ha spento ogni speranza.
Gaza è un cimitero per migliaia di bambini,
intrappolati in un ciclo di dolore,
tra l’inferno di tende in fiamme, urla straziati di sofferenza e fame,
di pianti di donne con la kefiah
coperto dal rumore dei bombardamenti.
Tra le macerie
un presepe con una culla vuota.
In questa vita ferita dall’odio
in questo fuoco
altri innocenti verranno uccisi,
urge la pace.
Giuseppina Carta
Sezione A accetto regolamento
Jonny Souto
Dichiaro di accettare il regolamento, SEZIONE A
Alienato
Alienato da un tempo tiranno,
condannato ad un numerico tiro,
feci danno correndo collerico,
sentì la ferocia di un laccio empirico!
Alienato come un folle
sospeso tra il vuoto e un colle,
furioso dal peso, gravo e scavato,
uno schiavo arreso nel buio scosceso.
Alienato da uno spazio triste,
convergo ad un cerchio contrito,
svengo pigro sul triclinio,
lacerando me in ore di abominio.
Alienato non più come un tempo,
resisto alla morsa del passatempo,
con sviscerata sommossa delle ossa,
svelo l’arcano a ciel sereno!
Cenere d’alba su Gaza
E venne l’alba sul rosa di una terra
senza sole, tra morbide colline
perdute tra bagliori di cocci sguinzagliati
come notte di petardi accesi.
Alba offuscata, intrisa di polvere
a coprire l’innocenza cancellata,
bimbi già nati nella morsa di catene
troppo strette, sposati al vento
come giocattoli rotti o troppo usati.
Pioggia di lacrime di mamme disperate,
tonfi improvvisi e sordi tra macerie
e poi le urla, a lacerare gli occhi,
su pelle rossa sparsa incandescente
tra fuochi e scoppi sotto cieli cupi
e smorfie di universi inesistenti.
Non più sorrisi ma colori senza luce
su crepe di mura sinistre e fatiscenti,
nulla su nulla in mucchi di dolore e
mani incerte in stille di disseccata linfa.
Manca la terra, le scarpe solo sfiorano
carne nuda stesa a memoria sulle travi,
mancano gote rosee e risa di fanciulli
smarrite dentro cerchi di memoria.
Ceneri d’alba senza occhi sul domani,
giovani vite su bieche grate di cemento,
fiori appassiti sul fumo di inutili speranze.
All’alba Gaza insegue note senza suoni
tra rulli di tamburi e cieca indifferenza.
sez.a, accetto il regolamento
Sez A Accetto il regolamento
C’è un calpestio di tulipani vermigli
E tu non vai per gigli. Né per margherite.
Tu non vai più.
Impigliato in muri di distruzione
sconosciuti, ostili.
Intrappolato in sabbie mobili
Viscose, bloccanti.
Impotente osservi l’onda maligna
scaraventare la nave fuori rotta.
Un boato mina le radici.
Ti spinge con violenza nella fogna
di distopico futuro.
La tempesta nera manipola verità.
La fuga forzata verso la vita.
La prematura coscienza della fine.
Sono sfratto d’ anima.
E tu non puoi fare niente.
Per quei corpi così vili.
Quei corpi dal valore nullo.
Dai sensi sordi.
Quei corpi immondi
che non comprendi.
Corpi in cui l’abbraccio del potere
fa presa suadente
e forza attrattiva smisurata.
Corpi slegati dall’universo
E pur rifiutando il vassoio di menzogne
che quotidianamente ti propinano.
Ancora una volta.
Una volta ancora.
Tu, impotente
Soccombi!
Sez B Accetto il regolamento
FUGA DEI CERVELLI DALL’ITALIA “Non sapevo che avrebbero lasciato qua i corpi”
La notizia apparve ripetutamente sulle pagine di tutti i giornali.
Si propagò a macchia d’olio, allarmando i diretti interessati: i cervelloni.
“-Non tira aria buona qua in Italia -si dissero. Dobbiamo andarcene, altrimenti finiremo fritti!-
Come fare? Bisognava trovare una via di fuga.
Non era possibile rimanere.
Corteccia, lobi, le varie aree e pure le scissure di Silvio e di Rolando si attivarono spronando i due emisferi a connettersi fra loro per elaborare nel minor tempo possibile un piano di azione. Piano F, fu chiamato. Constava di quattro mosse fondamentali:
1° Uscita dalla scatola.
2° Individuazione e scelta di una via di uscita
3° Trasformazione della massa corporea a misura dell’apertura individuata.
4° Sviluppo di appendici idonee allo spostamento.
Un gioco da ragazzi per loro…infatti in quattro e quattro otto, sgusciarono fuori.
Optando collegialmente di chiamarsi ENCE, che poi non era altro che l’inizio del loro nome di battesimo.
Qualcuno di loro sviluppò un paio di ali, alcuni pinne e branchie, altri ruote e motore. Chi abbandonò l’Italia viaggiando per via aerea, chi per mare, chi per via terrestre. Partirono, lasciando i loro involucri.
Così i nostri “ENCE” approdarono in diversi paesi del globo.
Dove riuscirono a diventare famosi.
Un po’ spaesati all’inizio, soprattutto per la drastica, necessaria scissione, dal loro corpo.
Successivamente soddisfatti e orgogliosi per la conquistata autonomia.
Non essendo di piacevole aspetto la gente diffidava di loro, ma cambiava rapidamente opinione, alla conoscenza dell’alto livello, del quoziente intellettivo.
Venivano invitati nei migliori salotti, e la bella gente si vantava di averli ospiti.
Intanto in Italia, i loro corpi furono prelevati da burattinai, che non aspettavano altro,
che usarli, come marionette nelle piazze e nei teatri di tutta Italia
La vita degli ENCE scorreva dentro binari densi di soddisfazioni.
Le loro continue scoperte nel campo della ricerca, erano veramente geniali e necessarie a tutta l’umanità.
I media di tutto il mondo parlavano sovente di loro.
Purtroppo l’ago della bilancia, della vita degli ENCE, dopo aver sostato a lungo, sul segno positivo, precipitò all’improvviso su quello contrario.
Nonostante fossero dislocati in diversi punti del mondo, furono tutti colpiti da una stessa epidemia.
Pian pianino la loro intelligenza cominciò a scemare.
La salute mentale a vacillare.
Spesso erano colpiti da fitte lancinanti nella zona occipitale.
Dopo accurate analisi, scoprirono che la materia bianca e la grigia, mostravano segni di sofferenza.
Un virus? Chissà!
Decisero di riunirsi, a Boston, per analizzare insieme la situazione.
“ -Tutto ciò è sicuramente causato da un forte stress, iniziò uno di loro.
Sicuramente-annuirono, alcuni.
-Uno stress causato probabilmente dallo sforzo di sopperire agli organi mancanti.- specificò un altro.
Certo, continuò un terzo, esponendo anche lui una sua teoria sulla causa dello stress.”
Ognuno di loro espose diverse teorie, tutte logiche e motivate.
Molto lontani da pensare che la vera causa della malattia fosse dovuta solo e unicamente alle sofferenze morali subite dal loro corpo.
Esisteva infatti tra CORPO e MENTE un legame indissolubile che pur nel distacco non era riuscito a scindersi.
CORPO e MENTE sarebbero stati sempre accomunati dallo stesso destino.
E così fu….
Contemporaneamente in Italia, i corpi che stavano morendo di vergogna e di tristezza, cominciarono a cadere per terra, uno dopo l’altro come tante bambole di pezza, rotte.
Essi, invasero strade e piazze.
Erano giunti entrambi alla fine.
La materia bianca e la grigia, degli ENCE evaporò fino ad essiccare.
Decisero di morire in patria e a stenti iniziarono il viaggio di ritorno, durante il quale alcuni ci lasciarono la pelle.
I più fortunati spirarono sul suolo natio.
In quel periodo gli operai comunali adibiti alla raccolta differenziata, ebbero un gran daffare.
Lavorarono giorno e notte, per sgombrare piazze e strade.
Raccogliendo e caricando sui loro camion corpi di migliaia di persone, e cervelli, scambiando gli ultimi per escrementi.
Quindi trasportarono tutto il materiale organico alla discarica.
Dove marcì al punto giusto, da divenire un ottimo humus, perfetto a concimare e rendere più fertili le terre Italiane.
Il Lupo – Sezione B – Accetto il regolamento
La tavola era apparecchiata.
Carole si sentiva felice, era una bambina allegra,
ma non capiva la durezza dei suoi genitori.
Quella sera suo padre mancava
per motivi di lavoro.
Sotto l’albero di Natale i regali non c’erano.
Sua madre diceva che Babbo Natale presto li avrebbe portati.
Carole conosceva a memoria la storia
di Cappuccetto Rosso,
e per quel Natale aveva chiesto proprio
una felpa rossa con il cappuccio,
per somigliare alla sua “eroina” delle fiabe.
Aveva sentito parlare di casi di violenza domestica,
ma era troppo piccola per associare
quell’espressione alla sua stessa esperienza.
Sognava spesso il Lupo quando non rientrava a casa.
Aveva uno strano odore,
che le ricordava il lezzo sottile della cantina.
Il Lupo esce dalla sua tana quando il Natale s’appressa.
Era il giorno dell’antivigilia.
Il mondo intero sorrideva a questo nuovo Avvento
di luci e gioia, di case vestite a festa,
di pomeriggi sotto il portico dei palazzi
a giocare con le proprie amichette.
Nessuna di loro sapeva che esistesse il Lupo,
e che fosse una cosa seria, da non prendere alla leggera.
Nessuna di loro tranne Carole, la tanto solare Carole,
così solare che persino le sue lacrime
erano lacrime d’oro.
Non riusciva a capire cosa fosse quella strana sensazione,
né come potesse sentirsi
così diversa dalle sue coetanee.
Si sedette su una delle sedie in attesa della cena.
Da qualche tempo non aveva più così tanto appetito.
I suoi fratelli e sorelle giocavano a nascondersi
e ad acchiapparsi in giro per la casa.
Carole aveva una compostezza perfetta.
L’elemento ignoto del dolore faceva capolino
come un raggio nero,
tra le nuvole bianche del suo pensiero.
Gli altri raggiunsero la tavola facendo un gran baccano.
Parlavano a voce alta, ridevano forte.
La bambina si rifiutava educatamente di mangiare,
ma rimase ugualmente a tavola.
La madre, vedendo il piatto pieno,
assestò un colpo violento sul volto della figlia.
Carole abbassò lo sguardo, per nascondere i suoi occhi
gonfi di pianto.
Due o tre lacrime d’oro caddero nel piatto.
Ma era il cuore che faticava a piangere. Il cuore,
era ancora illacrimato.
UN TEMPO SENZA FINE
Per dovere
dovrei ricodarti ogni giorno
e
illuminare una luce sul mondo
La mia coscienza vive
velata di speranza
dietro al tempo sbiadito
e mentre il nuovo strazio si consuma
assisto inerme
al nuovo gioco
dentro al mio miserabile essere
Sezione A Manuela Muffato Accetto il regolamento
OLTRE IL MURO
Oltre il muro del mondo conosciuto,
dove altre vite e altre lingue si intrecciano
in pensieri e destini aggrovigliati e confusi,
che si disciolgono nella corsa dei fiumi sotto i ponti,
per poi morire nel mare.
I miei passi lentamente si muovevano
sul bordo dell’abisso privo di sponde.
Sospeso in un tempo che non ritorna,
vidi una giovane donna
respirare un’eternità che non le apparteneva
e io me ne innamorai.
accetto il regolamento, sez. a
Minini Michela
Accettazione regolamento – sez. A
PAZIENZA
La pazienza
è la virtù della coscienza
di chi usa l’intelletto con intelligenza.
Nell’ ascoltare con indulgenza,
tra le parole la tolleranza
cercando la benevolenza.
Scoprendo l’indipendenza.
LIBERI DI ESSERE
Fili
vorrebbero legare l’aquilone.
Sciolti, i capelli sono
ali di libertà.
Per volare
in un soffio d’amore
oltre
l’ottusa violenza.
Pesante catena
che vi vorrebbe schiave
che ci vorrebbe schiavi.
Anime pesanti
cieche e fortunate.
Se esistesse,
un dio
da difendere con tale odio
vi avrebbe già spazzati via
con la vostra sete di potere
con le vostre mani insanguinate
con il vostro egoismo.
Anime pesanti
sorde e fortunate.
Calpestate pure le singole gocce.
Si faranno fiume
la corrente travolgerà le vostre sciocche dighe.
Romperà gli argini che
con turpe impegno
avete scavato nel dolore.
Vi porterà con sé
travolti
abbandonati
nel profondo oceano del tempo.
Non sarete che un granello di sabbia
dimenticato
sul fondo della storia.
*****
Dichiaro di accettare il regolamento del contest letterario sez. A
In uno schiocco …
Al proprio incomprensibile destino
Ognuno è legato
A tutte le persone
che animate da buoni propositi
Vivono tutti insieme
Senza mai incontrarsi
Assisto ai tristi
Intrecci del caso
Sui contrafforti della carità
Immerso nella folla
Mi sento nella mia solitudine
Ah, com’è vana la vita
In uno schiocco di dita
Tutta può essere finita
Antonio Pittau
Accetto il regolamento, sez. a
Cara terra
Dovremmo essere grati della tua ospitalità.
Dovremmo rispettarti per quello che ci doni.
Ci regali l’acqua.
Ci regali soprattutto l’ossigeno.
Ci regali da mangiare.
Noi non abbiamo mai detto grazie per la tua esistenza.
Senza di te forse questo mondo non esisterebbe mai.
Noi siamo degli incoscienti.
Siamo egoisti nel distruggerti.
Abbiamo una bellissima terra e non ci accorgiamo che la stiamo distruggendo.
Cerchiamo altri pianeti invece di prenderci cura di questa beata Dea.
Terra nostra sei malata.
Terra nostra sei debole.
Non hai la forza di reagire alle nostre guerre.
Cara terra ti scoppia la testa per questi bombardamenti.
Se esistesse una parola potente da fermare queste bombe che portano massacri e distruzioni ti sentiresti meglio.
Non c’è pace per te.
Se la mia scrittura fosse scritta nel cielo avrebbe un effetto enorme.
Il vento la trasporterebbe in tutto il mondo.
Traducendo queste parole in diverse lingue.
Scatto delle foto per le tue scene spettacolari.
Per ricordare che sei una dea meravigliosa.
Un giorno forse apriremo gli occhi e guarderemo il cielo per chiederti scusa per i nostri danni.
sez. a accetto il regolamento
Ad un amico
Ognuno nella vita recita
in quella commedia
ch’e’ la sua stessa vita.
Padrone assoluto dei suoi atti
delle sue scene
una commedia tragica a volte in quelli
che sono i suoi risvolti reali
i suoi ideali.
Una farsa del vivere
legata a molti fini apparenti
bella finché dura nei suoi valori
nelle sue misere gioie
conquistate affannosamente
nella lotta contro il sopraggiungere
della commedia del reale.
Allorquando ogni travestimento è inutile
ed il sorriso si spegne
sulla bocca degli attori e del pubblico
ed il sipario cala tristemente
sul palcoscenico muto ed è la fine.
La tua fine o amico!
Tu per primo ricordo dicesti un giorno
“bisogna spezzare questa ragnatela soffocante”
e tu per primo cadesti in quella rete
fatta di odio dell’uomo per l’uomo.
Allora finì il tuo mondo fatto di pace
di amicizia sincera, di fratellanza e rispetto.
In quella tragica sera
ci privarono della tua presenza,
della tua lotta, sentita,
amata, voluta, vissuta,
e rimasta come ricordo
dei tuoi verdi anni.
Vai amico vai non fermarti mai
vai incontro ai martiri dell’ideale
vai solo con il tuo credo monotono
come il canto di cicale dagli orti
come l’incedere lento del tempo.
Vai non fermarti mai rinasci
e vivi ancora con il potere del tuo pensiero.
Vai amico non fermarti mai
non chiederti niente
non chiedere niente
perché niente ha da chiedere
chi va solo con il suo Vangelo.
Ma la tua voce amico si diffonde
nel mio animo entra in me
e mi scuote come una scossa elettrica
ed il mio lamento si leva
in un canto amaro reale e vivo.
E vado lontano là dove il prato
è circonfuso di cielo sotto un albero
senza ombra ove un vento caldo
misto a polvere rossa di deserto
mi eternizza in un getto di pietà.
Ed in questo mio sogno ti seguo
come nella morte
ove uccidere non è più reato.
Ed io vivo non più come un tempo
ma come un uomo che vede svanire
furtivi quei sogni puerili velati
d’una candida veste di mera irrealtà.
Nessuno più crede nel sole che illumina
e bacia la terra al suo crepuscolo,
vicino, inevitabile e celato.
Ed io penso non più come un tempo
ma come un uomo che cerca
in quel tempo il futuro vicino.
E tutto è adulto e sicuro ai miei occhi
ora attristati dal misero tempo che trascorre
violento e presente come crudele sembianza
del tuo volto bianco precoce nella morte.
Sezione A. Accetto il regolamento.
“Poesie”
Ti affidi al vento della nostalgia
scavando dentro l’anima;
frammenti di sogni, sentimenti, sensazioni,
impossibili da esprimere a parole,
dolci sinfonie che nascono da ” dentro “.
Isabella Soverino
Sez. A
Dichiaro di accettare il regolamento
La vita se ne va
La vita mi ha abbandonata lentamente, non appena ho attraversato il tuo mondo.
Sei il primo che mi ha vista,
che ha esplorato la mia anima.
Non e’ sempre stato facile.
I miei stati d’animo viaggiano su un’ altalena.
Il cuore non trova mai sosta.
Alti e bassi pilotano le mie giornate.
La mia indole anela al fuoco e alla passione.
Voglio essere divorata dal tuo io nascosto.
Adesso sono in bilico.
Dammi la forza per andare avanti.
Mostrami un futuro migliore.
Riportami alla vita.
accetto il regolamento, sez. a
Accetto il regolamento, sezione B
IL SALICE E LA VECCHIA PANCHINA
Volete sapere perché il salice è sempre accompagnato dall’aggettivo piangente? Adesso vi racconto la storia.
In un parco si trovavano uno accanto all’altro un bellissimo e rigoglioso salice e una vecchia panchina di legno che si facevano compagnia da tanto tempo. Intorno a loro c’erano altre panchine, altrettanto segnate dal tempo come questa di cui stiamo raccontando la storia. Ma lei era l’unica che stava vicino a un salice. Probabilmente la sua posizione le permise di diventare la preferita dei frequentatori del parco che la soprannominarono “la panchina accanto al salice”.
La vecchia panchina e il salice andavano molto d’accordo. Ormai si conoscevano da tanti anni, avevano vissuto insieme tante primavere e altrettanti inverni. Durante l’estate il salice dai rami lunghi gettava una piacevole ombra sulla panchina e i visitatori del parco facevano a gara per occuparla. Ma soprattutto durante la primavera quando un venticello faceva svolazzare i lunghi rami del salice dove si posavano e cinguettavano gli uccellini, la sua maestosa figura faceva sognare grandi e piccini e attirava i frequentatori del parco sulla panchina più ambita. In autunno la natura si colorava di giallo-arancione ed era altrettanto pittoresco sedersi su quella panchina e sognare ad occhi aperti. L’unico periodo in cui il salice e la panchina soffrivano un po’ la solitudine era l’inverno in quanto la gente di solito stava a casa davanti ai camini, al calduccio a sorseggiare le tisane calde. Ma in ogni caso il salice e la vecchia panchina erano lì uno accanto all’altro e si parlavano e ricordavano il loro passato in attesa della bella stagione. Così il tempo passava più in fretta e in modo piacevole.
C’erano tante di quelle storie interessanti da non dimenticare. Come, per esempio, le coppiette che si erano date il primo bacio su quella panchina, i ragazzini che fumavano la prima sigaretta o le ragazzine che si confidavano l’una con l’altra. Poi quelle che spettegolavano delle loro amiche, oppure le mamme affaticate che si fermavano lì per la merenda dei loro bambini. Anche i vecchietti erano tenerissimi. A volte stavano lì ore e ore e fermavano qualcuno con qualche scusa solo per scambiare qualche parola. C’erano anche le coppie che si promettevano amore eterno ma poi si lasciavano. Gli studenti che leggevano libri, oppure qualche persona che si appisolava senza volerlo.
Tutte queste storie erano rimaste in mente al salice e alla vecchia panchina di legno che durante l’inverno se le ricordavano raccontandosele, a volte ridendo e scherzando.
“Ti ricordi quei ragazzi che incisero i loro nomi sul mio schienale? Che dolore, incoscienti”, disse la panchina.
“Me lo ricordo bene, i nomi sono ancora lì”, rispose il salice ridendo.
Così passarono gli anni, il salice diventava sempre più bello e maestoso, la sua chioma sempre più rigogliosa. I suoi rami arrivavano fino a toccare il suolo. Una volta persino un pittore si fermo lì a dipingerlo e il salice ne fu molto fiero. La sua gioia fu ancora più grande quando vide che sul dipinto c’era anche la panchina e non si notava che era ormai vecchia. Era venuto fuori un vero e proprio capolavoro! Quel quadro poteva stare bene anche all’interno di una reggia.
Invece la panchina invecchiava, il suo legno diventava sempre più rovinato, segnato dalle piogge e dal tempo vissuto. Le mancavano persino alcuni pezzi, era scheggiata qua e là. Ma anche le altre panchine di quel parco erano più o meno nelle stesse condizioni, il tempo era stato impietoso anche con loro.
In seguito, successe che si doveva eleggere il nuovo sindaco in quella città. Uno dei candidati promise alla cittadinanza che avrebbe migliorato la città, investito parecchio per abbellire le strade, le scuole, i parchi. La gente fu entusiasta delle sue promesse e così venne eletto. Si vociferava che avrebbe cambiato tutte le panchine di quel parco e messo quelle nuove, più eleganti e di pietra.
Quando giunse questa notizia fino al parco, le panchine erano in ansia e pure il salice. A lui importava soltanto della sua amica panchina, con le altre non aveva neanche mai parlato. La panchina accanto al salice iniziò a tremare dalla paura.
“Mi toglieranno, mi butteranno, cosa ne sarà di me?”, si lamentava spaventata.
Il salice cercò di incoraggiarla ma gli scappò qualche lacrima. Per fortuna la panchina non se ne accorse.
“Vedrai che ti trasformeranno in qualche bell’oggetto. Magari un trenino di legno per i bambini, così potresti stare sempre in buona compagnia”, il salice cercò di nascondere l’emozione.
“O magari diventerò una scatola portagioielli, sarebbe romantico”, anche la panchina voleva sembrare coraggiosa. “Oppure un piffero, forse riconosceresti il mio suono. Magari qualcuno si siederebbe ancora sulla nuova panchina e suonerebbe per te.”
“Ti riconoscerò qualsiasi cosa tu diventerai, te lo prometto”, sembrava convinto il salice. Ma continuava a piangere e la vecchia panchina adesso poteva vedere le sue lacrime.
“Grazie, amico. Mi da sollievo saperlo”, rispose lei con sincerità.
Iniziarono a mettere i cestini nuovi nel parco e cambiarono pure i giochi per i bambini. Arrivarono anche le ruspe per rifare i sentieri e per togliere le panchine. L’addio fu straziante per entrambi. Quando misero una panchina nuova accanto al salice fu altrettanto doloroso. Soprannominarono anche questa “la panchina accanto al salice” e anche questa diventò la panchina preferita di tutti. Ma il salice non ci stava. Nessuno poteva prendere il posto della sua vecchia amica.
La vecchia panchina non diventò né un giocattolo, né una scatoletta, ma finì nella discarica da dove venne recuperata da una coppia di vecchietti per il loro camino, per scaldare la loro casa durante l’inverno. Il caso volle che proprio in quella casa finì anche il quadro dipinto dal pittore nel parco, o forse, chissà, era lì perché niente succede per caso nella vita. Così la vecchia panchina nei suoi ultimi istanti di vita aveva davanti l’immagine di quello che le era più caro al mondo che è sempre di conforto quando si arriva alla fine. Divenne una nuvola di fumo, si alzò in cielo e il salice guardando in alto la riconobbe subito e continuò a piangere fino ai giorni nostri.
Ecco, adesso sapete la storia.
sez. B accetto il regolamento
DANZA NORMANNA
Una musica dolce, un brano corto, solo un centinaio di secondi, una musica struggente e dal sapore quasi medievale; un flauto ed uno strumento a corde dal timbro metallico creano note lievi, delicate, ma tristi ….. molto tristi.
Apro la porta, entro nell’anticamera dello studio tenendo il mio Zagor al guinzaglio; il pastore tedesco si mette ad abbaiare.
Il padrone lo richiama, lui smette. Anzi, lei smette.
E’ una femmina, anche se non ne comprendo con esattezza il nome.
Il suo padrone è simpatico, un giovanotto di forse trent’anni, con abiti dismessi, un buco nei pantaloni all’altezza del ginocchio destro.
Zagor cerca di avvicinarsi alla femmina, lei abbaia nuovamente. Il giovanotto mi rassicura: la femmina è incapace di mordere, è inoffensiva.
E comincia a raccontarmi la storia di quella cagna di nove anni, una clinica a quattro zampe: un solo rene a causa di un tumore, labirintite, paresi alla parte sinistra del corpo, alcune ischemie superate.
A confronto di ciò l’artrite di Zagor, il suo occhio sinistro malandato ed il suo cuore affaticato dai quindici anni vissuti mi sembrano una benedizione.
Siamo in quattro, solo in quattro nell’anticamera dello studio veterinario, tappezzato di manifesti sulle malattie dei cani e dei gatti, leishmaniosi, leptospirosi, rabbia, parvovirosi e via così.
Solo due cani ed i loro padroni; penso che non dovrò attendere molto.
Questa mattina, senza avvisaglie, Zagor non appoggiava la zampa destra a terra. Il solito attacco di artrite, gli acciacchi dell’età, però più acuto delle altre volte.
So quale antinfiammatorio dargli, ma ho pensato che forse è meglio praticargli subito una puntura ed iniziare il giorno dopo la cura con le pastiglie .
Per questo avevo messo il guinzaglio a Zagor, l’avevo collocato nel bagagliaio dell’auto e portato allo studio medico.
E lì ho trovato quella femmina di pastore tedesco, quella cagnetta che, a detta del padrone, il simpatico giovane, aveva girato gli ospedali di mezza Europa.
Quanto le resta da vivere? Il giovane dice di sperare di festeggiare il decimo compleanno ad Agosto, due mesi dopo. Confessa anche candidamente di aver pianto quando il veterinario gli aveva confermato il tumore al rene.
Guardo il giovane, e guardo l’animale accovacciato ai suoi piedi, sotto la sedia. Un bellissimo esemplare di pastore tedesco, dalla testa grande e dall’aria mite. L’attaccamento del giovane al suo amico è lampante; così come la sua bontà d’animo.
Si apre la porta di ingresso: entrano due persone, una signora ed un anziano. La signora porta in braccio un cane di taglia media, più o meno come Zagor.
Il cane non si lamenta, nonostante sia palese il suo grave stato. La signora racconta che il cane è di suo padre, l’anziano, che l’ha trovato in mattinata malconcio vicino a casa. L’addome della bestia è rosso, tumefatto, come se avesse preso più colpi. Eppure l’animale non si lamenta, se non quando la signora lo riposiziona meglio nel suo grembo, una volta sedutasi.
Allora guaisce, poverino.
La femmina di pastor tedesco abbaia, ha avvertito qualcosa. Si apre la porta che dà sulla stanza dei medici ed esce il paziente, un cane, che ha appena ricevuto le cure del caso. Il veterinario invita ad entrare, ed il giovanotto si rivolge alla signora cedendole il posto ed informando il veterinario che c’è una urgenza. La signora ringrazia e, insieme al padre ed al cane ferito, entra. Dovrò aspettare di più di quanto previsto.
Dopo pochi secondi la porta che dà sulla strada si apre di nuovo per far entrare una femmina di spinone con il suo padrone, quest’ultimo sulla settantina.
Lo spinone è molto vispo ed allegro, fa le feste a tutti e si gode le coccole dei presenti.
Ed il padrone racconta che la cagnetta, di mezza età o poco più, è senza voce.
Una banale tracheite, sentenzia il giovanotto dall’alto della sua esperienza (ha girato le cliniche di tutta Italia e speso un capitale per tentare di fermare il cancro che cresce nel suo cane).
Di nuovo la porta di ingresso si apre. Mi sorprendo a pensare “peggio che in un Pronto Soccorso!”
Entra una giovane con in mano una casetta per cani, si siede e la posa delicatamente per terra.
Dalla mia posizione non riesco a scorgere nulla, ma il giovanotto sorride, segno che dentro alla casetta ci devono essere cuccioli, gatti o cani che siano.
Poco dopo scopro che sono due cagnolini, e lo scopro quando lei li libera dalla casetta e loro cominciano a zampettare, annusando il territorio intorno.
Ma uno dei due ha la zampe posteriori rigide, allungate in modo innaturale.
E la ragazza spiega alle altre persone che i due cuccioletti sono adottati: vengono dalla Sicilia, dove li hanno trovati in un cassonetto dell’immondizia. Uno dei due con le zampe posteriori legate in un modo crudele. Dovrà essere operato, il piccolo, e forse riuscirà a recuperare l’uso degli arti, chissà. I cagnolini giocano su di un telo che la giovane ha steso a terra, giocano tirando con i denti il guinzaglio che la ragazza tende loro, mentre il giovane proprietario della femmina di pastor tedesco commenta la cattiveria di alcuni uomini: vorrebbe averli tra le mani!
Pochi attimi dopo squilla la suoneria del suo cellulare; io intuisco che sta parlando con qualcuno che, in serata, dovrà passare a casa sua e della sua compagna per proporgli un tipo di piastrelle. In effetti il giovanotto mi aveva parlato, qualche minuto prima, di una casa in costruzione e di come le spese per le cure del tumore del cane avessero rallentato l’edificazione del suo nido d’amore.
Sento aprirsi la porta che dà sulla strada: entrano due uomini che trasportano un cane di grossa taglia. Ha il muso sfigurato, il corpo ed il capo sono ritorti in una posizione innaturale, impressionante, ed è disteso su di un giaciglio fatto di un telo di iuta tenuto in posizione orizzontale da due bastoni laterali. Sembra adagiato su di una barella, che i due uomini posano poi delicatamente a terra. Spiegano a noi tutti (già, perché gli sguardi convergono tutti su quel punto, su quel povero animale) che è un cane molto vecchio, assediato da parecchie patologie. Stringe il cuore vederlo in quello stato: la sua postura è stranissima, non ho mai visto nulla di simile. A parte il muso, pare quasi un essere bidimensionale, come schiacciato, stirato, sulla barella, con le zampe posteriori che escono dal telo, insieme al muso.
E’ irrigidito, ricorda molto Oetzi, la mummia di ghiaccio di Similaun. Solo che il cane è ancora vivo! Ma è un’entità deformata; una visione incredibile, uno spettacolo pietoso.
Mi guardo intorno, siamo in dodici, tra animali e umani, in quell’ambulatorio gestito da tre veterinari.
Poi, ad uno ad uno, i clienti (oggi solo cani: non vi è alcuna traccia di gatti) entrano dai dottori e poi ancora ne escono, ognuno con la sua cura, ciascuno più o meno malandato, il cuore e l’animo dei loro padroni più o meno confortati.
Dopo il cane steso sull’improvvisata barella, a cui va ovviamente la precedenza, passano poi la giovane con i due cagnolini e il ragazzo con la femmina di pastor tedesco.
Rimaniamo solo io e Zagor, in compagnia della coppia formata dallo spinone e dal signore anziano, arrivata dopo di noi e che entra nell’istante in cui io, con il mio fedele amico ed i suoi reumatismi, esco sulla strada all’imbrunire della sera.
Mi avvio, con Zagor che tira il guinzaglio annusando per ogni dove, verso la mia vettura e mi trovo a pensare: se in un’ora, in un solo studio medico, ho visto tanto dolore, quanto grande può essere quello che si manifesta in un mese, o in un anno, nel mondo intero?
Sistemo Zagor nel bagagliaio, tra due minuti sarò a casa, salgo ed accendo la radio: la chiave USB di mia figlia riprende il pezzo interrotto circa un’ora prima.
Emette note dolci, leggere, lievi, che diffondono una musica breve, cento secondi o poco più, un brano intitolato “Danza normanna”: fatto di note delicate, nostalgiche, tristi ….. troppo tristi!
SEZIONE A – POESIA
UN’ALTRA VIA
Se solo sulla terra,
tra le stirpi della luna e della stella,
avessimo memoria per davvero
di esser tutti parte di un sol cielo
Togliessimo dai nostri occhi il velo,
ragioni divisorie, inutili bandiere,
gli inganni che non ci fan vedere
lo scempio della guerra
e gli occhi di fratello o di sorella
Se solo rifiutassimo
di spargere ancora sangue
e versare lacrime intorno
Partissimo dai gesti e le parole
per costruire Pace
Sarebbe, allora sì,
l’alba di un gran giorno!
Il giorno in cui sceglieremo
di rifiutare l’odio in ogni sua forma
Il giorno in cui sceglieremo
di non nutrire più i nostri demòni
E tracceremo un’altra via
tra i passaggi oscuri del mondo,
portando avanti i passi
come attivi testimoni
Perché un’altra via è possibile!
Sì, anche quando tu non credi
o quando sconfitto,
disperato o impaurito
non vedi!
Un’altra via è possibile!
Oh, fratello mio!
Oh, sorella!
Oh, padre e madre!
Oh, figlio e figlia!
Un’altra via è possibile!
Sì, un’altra via è possibile!
Un’altra via è possibile!
Un’altra via è possibile!
( Nora Capomastro)
Accetto il presente regolamento (sez. a) e l’autorizzo al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016)
All’orizzonte
Ormai – noi lo sappiamo – l’orizzonte
è solo un bieco trucco, una chimera
si sposta di continuo, è sempre in fuga
prima è carota, poi bastonata dura.
Abbiamo visto tanta e tanta acqua
da aver squamate anche le budella
che al fin sarem mangime per le orate
o il sole ci farà, crudele, arrosto.
La morte senza suoni dà sollievo
a chi ci vede solo come pesi
sulla coscienza che così la farà franca
rimandata alla prossima partenza.
Sez. A – Accetto il regolamento
Altri giorni
Esistono altri giorni, amore mio?
Sai, quei giorni presi in prestito al mattino,
usati fino in fondo e consumati,
vissuti come fossero un regalo,
non scritti in nessun altro calendario,
giorni privi di nome e data certa.
.
Giorni nostri, dipinti di passione,
privi di ore, senza giorno e notte,
fatti di tempo che non è trascorso,
senza ricordi, senza investimenti,
lontani dal passato e dal futuro.
.
Eppure nostri più di tanti altri,
eppure vivi, eppure scritti a fuoco,
nel luogo più profondo della vita,
in quella grotta dove si conserva
la storia scritta dell’anima del mondo.
accetto il regolamento, sez. a
NEL GIARDINO DEL PENALE (del mio papà novantenne Domenico Marzano)
Tra insulti, rabbia e tristi creature
la cosa bella che voglio ricordare
è quel gattino che sento miagolare.
Salici piangenti congelati
sorrisi spenti privi di speranza
tutto facciamo per migliorare
la nostra misera esistenza
appanna i sentimenti più profondi
uccide lentamente tutti quanti
a volte sembra d’impazzire
e soffochi il pianto con muti lamenti.
Se potessi aprire la porta a tutti quanti
e dargli la possibilità di ricominciare
una vita nuova senza più cadere
in questo posto dove non esiste amore.
Ripensando al miagolio del gatto
che io credevo fosse amore
invece ho capito piano piano
che anche lui piangeva di dolore.
SEZ. A. Domenico Marzano accetta il regolamento
Roberto, ti ringrazio per aver specificato la partecipazione a nome di tuo padre (e complimenti al papà poeta novantenne)
Il racconto di una immigrata
(dal poemetto “La terra contesa” Puntoacapo edizioni”
Sono stata io a convincere mio padre
a venire in Israele.
Anche se stavamo bene in Marocco
mi sembrava un bene emigrare.
Ho mandato avanti i miei genitori
ma non hanno trovato il lavoro promesso.
Non si aspettavano una vita tanto dura.
È questo che ha reso così amari i marocchini.
Io ero giovane. Avevo creduto ai discorsi che ci facevano,
alla merda che ci vendevano. Oggi non ci crederei.
Li hanno raggirati quei marocchini.
Io per prima sono stata raggirata.
Ripetevo quello che mi avevano raccontato
ma le promesse erano parole al vento.
Mi spiace di averli imbrogliati.
Ti ho detto tutta la verità o, forse, ho dimenticato qualcosa.
Forse ci sono cose che preferisco dimenticare.
Non lo so.
Mi sono sposata nel ‘54.
Abbiamo avuto otto figli.
Il più piccolo è stato ucciso nella guerra del Libano.
Era il ragazzo più bello del mondo.
È per questo che non sopporto più Israele.
Sono una madre. Niente si può paragonare a una madre.
Era un amico, un fratello, un padre, tutto.
Per me era tutto.
Aveva 20 anni quando l’hanno ucciso.
Gli restavano solo cinque mesi di servizio militare.
È andata cosi.
Israele trabocca di tutto. È un bel paese.
Non manca di niente grazie a Dio,
ma la gioia di vivere non c’è.
Ogni giorno vieni a sapere che uno è morto in Libano,
l’altro in Siria, un altro a Gaza,
che un soldato è saltato su una mina o è stato rapito.
Non voglio più ascoltare queste notizie. Ti cadono le braccia.
Sono tutti esseri umani. Umani, credimi.
Si dice: l’arabo è cattivo, l’ebreo è malvagio,
ma io dico che tra noi dobbiamo fare la pace,
riavvicinarci alla pace.
Il resto è inutile. È tempo perso.
Si può vivere insieme, ebrei e arabi,
come era in Tunisia, come era in Marocco.
In tutti i paesi arabi si viveva insieme.
Gli arabi erano i nostri vicini.
La mia casa era qui, quella del mio vicino arabo, lì.
La semplicità era bere un bicchiere di tè insieme.
Non come qui, dove anche se hai tutto, non hai niente.
Qui la vita non ce la godiamo. Non è vita.
È stato un errore venire.
“Non accadrà mai più” è scritto su una lapide. Di che si tratta?
“Non ne sappiamo niente.” rispondono i ragazzi.
Studiano storia ma non sanno nulla
dei morti per la loro terra.
Anche se è scritto “per non dimenticare”
dimenticare non sarebbe male
se serve a superare i vecchi errori.
Meglio sarebbe imparare a sognare
perché quello che conta veramente
non è il molto male che c’è stato,
ma il bene che, se vogliamo, ci sarà.
La luna dorme sopra le pietre.
Sogno gli Yemen blues che cantano nella luce.
Arabi e giudei nello stesso posto,
musica e cibo mischiati.
Gerusalemme è sacra per tutti.
Voi non immaginate cosa sarebbe questo:
suonare nelle strade fianco a fianco
e gettare via il conflitto
semplicemente ballando.
È la speranza la musica di un popolo.
sez. a accetto il regolamento
NERA
Divora anche gli occhi
e sembra la morte (che)
spegne lo sguardo,
strozza la penna,
stanca la vita smarrita.
Vedo:
passare una bara
di vetro e di ortiche,
attraversa:
una folla che ho gia’ visto una volta
una marcia funebre e beffarda
sugli accordi di un punk potente,
lo stesso che ha cercato di accendere,
artificiale,
i miei giorni più difficili.
Che sia la musica
ad accarezzare il volto sconvolto,
a cullare il bambino.
Un bambino che piange.
Quasi quasi mi commuovo,
nel vedermi feretro,
con gli stessi miei sogni
che mi portano a spalla.
Accetto il regolamento, sez. a
Accetto il regolamento: Sezione A.
Oltre il muro.
Oltre il muro c’è la guerra spietata
le macerie di una terra violata,
oltre il muro creature indifese
e negli occhi il terrore e vite recise.
Cosa vedo oltre il muro?
Vedo tutto l’orrore di una e più guerre
e lo sfascio di case e rovine di terre,
vedo fame, ferite nel corpo e nel cuore
scruto, sento, assimilo tutto il loro dolore.
Poi sconvolta non voglio più sentire o vedere,
cosa c’è oltre il muro che gorgoglia tranquillo?
Solamente un sereno trasparente ruscello,
c’è l’immenso giardino dove giocano i bimbi
ed un cielo senza nuvole scure e nembi
c’è una folla di gente per bene e capace
che alla vita ci tiene ed anche alla pace.
Sezione “A” Poesia
Titolo: HO RIVISTO IL SOLE
Rumori assordanti come stridenti sibili ci violentavano le orecchie.
Ho visto la speranza fuggire dagli occhi della gente.
Malefici ordigni di morte piovevano dal cielo come infuocate stelle cadenti
Ho visto la paura infiltrarsi nell’animo di noi disgraziati innocenti.
Palazzi interi si sgretolavano come sabbia nell’oceano.
Ho visto la giustizia sciogliersi come neve al sole.
Enormi e indelebili cicatrici si aprivano in quella terra insanguinata.
Ho visto candidi angeli lasciare quei luoghi di sofferenza e di dolore.
Carri armati vomitavano senza pietà il loro brusio mortale.
Ho visto insabbiarsi una miriade di sogni e speranze.
Corpi straziati e senza identità si stringevano per l’ultimo viaggio.
Ho visto cuori uniti pronti per un eterno riposo.
Bambini si aggrappavano con tenerezza alle loro bambole di pezza.
Ho visto infinita voglia di pace nei loro abbracci.
Dalle macerie infuocate un timido arcobaleno fa capolino.
Alzo la testa, mi giro intorno e di nuovo ho rivisto il sole.
ACCETTO IL REGOLAMENTO SEZIONE A
Sezione “B” Racconto
Titolo: IL PREZZO DI UNA MEDAGLIA DI LATTA
Tre parole, prese a caso e senza un vero e proprio nesso fra loro,
possono essere sufficienti per creare un racconto.
Tre parole, possono diventare la struttura portante e robusta di un testo,
Tre parole possono spiegare il bello e il brutto della vita.
Tre parole per farci capire le cose inutili e distruttive che abbiamo nel nostro mondo, prima fra tutte LA GUERRA…
…solo “tre parole”! …. FORTE – VERDE – CASA
Intorno a me ancora tanto fumo.
L’odore acre di sterpaglie bruciate, e non solo, mi violenta le narici.
Un’aria di vite spezzate aleggia tutt’intorno.
Le prime luci della sera tentano di far calare il sipario su un’altra inutile battaglia,
mentre gli ultimi colpi di mortaio si rincorrono come echi impazziti in una vallata colma di tristezza.
Ho tanto freddo e tantissima paura.
Non sento più le mie gambe.
Vorrei piangere a dirotto come un bambino, ma non posso.
Devo essere FORTE, forte e coraggioso perché è questo che vogliono i miei Generali, i miei compagni, la mia Patria.
D’improvviso due manichini in camice bianco sbattono me, i miei sogni e le mie speranze su una barella improvvisata e, mentre vedo l’erba VERDE sotto di me tingersi di un rosso sangue a me familiare, continuo a non sentire più le gambe.
Finalmente ora potrò tornare alla mia amata CASA materna.
Lì farò ritorno con una medaglia di latta appiccicata al petto: ringraziamento del mio Paese al suo ennesimo figlio eroe.
Adesso mi domando:
quante medaglie di latta saranno già state coniate per ripagare noi giovani soldatini
ricchi di sogni e speranze come me?
ACCETTO REGOLAMENTO SEZIONE B
OMBRA
Stanotte
ho tradito la mia ombra silenziosa
ed ho seguito la tua
solenne
conforme a quella dei miei sogni
ondeggiante
come un cavallo ubriaco
Ho litigato con le lucciole
gelose compagne mie
e la luna, oh,…quella luna
restava inutilmente a corteggiarmi
Io seguivo la tua ombra
sognante, quieta
scevra dell’onta di quest’epoca
risonante di un romantico sorriso
ma…ho temuto quando
è scomparsa all’alba
ed io quasi gridavo
spasmodico mi agitavo
abbracciato ad un’altra donna
sez. a accetto il regolamento
Sez. A- Accetto il regolamento
IL GIORNO DELLE MEMORIE
Ventisette gennaio,
giorno della memoria,
ma il non dimenticare
non risana le coscienze,
e la memoria non è una,
le memorie sono tante;
ventotto gennaio,
finite le cerimonie
e sparsi i versi al vento
muoiono le parole,
e continua lo sterminio
senza pietà e senza soluzione,
si mescola col sangue
l’acqua che la terra bagna,
nell’olocausto di bimbi-bombe
lanciati ad ammazzar le madri,
il nuovo Erode nasconde
la sua faccia tra la folla,
col fanatismo della dominanza
a soffocare la ragione,
e la baronia della violenza
arma l’odio fratello
e gonfia il conto in banca,
intanto nella tavola rotonda
si recita la solita
commedia millenaria;
Pilato lava le sue mani in mare,
immenso campo di concentramento
che ammassa i morti
del profitto e dell’indifferenza,
e tutto intorno è già innalzato
il millennio nuovo del filo spinato.
Miliardi sono le croci,
centinaia gli anni,
com’è difficile sperare
ed essere ottimista,
finirà questa rovina
quando l’uomo
perderà il dono della vista
e guarderà col cuore,
e una carezza non avrà colore,
né fede,
né l’odore del denaro,
ma solo
il calore dell’amore.
(Maricà)
Sez, B – accetto il regolamento
LE BOLLE DI SAPONE
Un giorno d’inverno, gennaio ancora freddo, ma il cielo sopra casa mia era terso, e silenzioso, un cielo di pace, dove i sogni più belli potevano trovare un rifugio sicuro prima di volare sui cuori in attesa laggiù. Si, loro non hanno preferenze, anzi, sarebbero felici di poter svolazzare intorno a quei cuori aridi e colmi di odio e rancore che, invece, preferiscono sogni oscuri, senza alcun barlume di luce, come il cielo tenebroso che li nasconde.
Sfogliavo delle foto su internet, quando una mi colpì e mi fermai: una bambina appoggiata al muro faceva delle bolle di sapone, dietro e intorno polvere e rumori di guerra.
Cominciai a parlarle:
-Ciao, bambina, sei sola? Come stai? Ti ho vista giocare con le bolle di sapone-
Gli occhi accennavano un sorriso nella polvere acre di rovine di case e sangue rappreso.
-Sono sola. Ho paura-
-Affianco a te ci sono soldati col fucile imbracciato, in attesa. Sai? Vorrei sentire i battiti dei loro cuori, leggerne i pensieri, convincermi che quell’odio gli è estraneo, come a te è estraneo, lo guardi, lo vivi e non comprendi, aspetti solo che si riprenda il gioco con i tuoi compagni. Molti di loro sono morti, le scarpette volate qua e là, il pianto straziante e inascoltato, da lontano ci si consola pensando che sono angeli, ma le madri e i padri rimasti vivi (e avrebbero voluto morire loro, te lo assicuro), non possono accettare che ci sia un paradiso dove un Dio sta a guardare, aspettando solo anime da santificare…ora, sai, è dura la rassegnazione, è dura ogni comunione laddove c’è odio, i fili sono spinati e i cieli squarciati dalle bombe.-
-Perché ci uccidono?-
-Sai, bambina, fanno credere che proprio in nome di quel Dio scenda pioggia infuocata a rubare vite e terre, ma nessun Dio vuole uccidere, nessun Dio è complice dell’odio che l’uomo sparge nel mondo. “Non uccidere, Non rubare, Ama il prossimo tuo come te stesso. Mi renderete conto”. Ma è sempre tardi ormai per gli innocenti che non possono aspettare un giudizio universale-
Lei continuava a guardarmi, con la sua solitudine e tristezza, mi ascoltava ma forse nemmeno mi capiva, continuava a fare bolle di sapone e le guardava volare libere nel cielo. Il soldato di là dal muro continuava a sparare.
-Ho paura. La mia casa non c’è più, mamma, papà…-
Vidi nettamente le lacrime scendere silenziose sul suo viso.
-Vorrei tanto abbracciarti, bambina, stringerti forte e portarti via, lontana da ogni violenza e da tanto orrore.-
Il soldato girò un attimo lo sguardo, come a dirle “Vattene, corri lontana, salvati, ragazzina, questa maledetta guerra non ti appartiene”.
Vedevo in quella foto tutta la stoltezza umana, la brutalità, la bramosia di potere, sentivo il fragore delle rovine, le urla disperate dei morenti, il colore denso delle lacrime degli innocenti, gli occhi spenti delle migliaia di bambini, il dolore e la pietà che non conoscono più discordie, l’amore che indomito sorge dalle rovine e implora una fine a ogni sterminio, ogni cattiveria, ogni sopruso, voluti solo e soltanto dai peggiori governanti che non amano il loro popolo, non amano altri che se stessi, da qualunque parte stiano.
Sentivo nel mio cuore affollarsi un miscuglio di sentimenti, turbinare, ribellarsi: angoscia, rabbia, compassione, paura, e un’impotenza infinita, ma anche un’idea di speranza e di fiducia che mi scaldava l’anima. Sorrisi a quella bimba e la implorai guardandola:
-Allontanati, bambina, si, nasconditi in un posto sicuro, perché continueranno a piovere bombe, continuerete a morire, a Gaza, in Ucraina, in ogni terra in tensione di guerra… ora e anche dopo… dove i potenti daranno ascolto all’unico Dio da loro conosciuto e idolatrato: il denaro, facendo tacere il cuore.-
Ovunque si alzi la mano su un fratello, ovunque la voce divenga più alta di un grido di giustizia, ovunque la prepotenza prevalga sul dialogo, ovunque il denaro riesca a comprare la fiducia dell’uomo, ovunque si accenni a una guerra… la violenza e l’impero delle armi trionfano, in ogni nazione, in ogni angolo della terra, e sarà sempre genocidio, tragedia che si rinnova nei secoli.
-Bambina, scappa, nasconditi, cresci … so quanto soffri e quanto soffrirai ancora, ma non serbare rancore dentro di te, ti prego, non insegnare MAI ai tuoi figli la vendetta né i giochi delle armi… trasforma la tua rabbia in speranza e coltiva la Pace, per favore, su ogni cosa, coltivala sempre, come una figlia che da sempre è in te e gioca con i suoi fratelli, portando amore, armonia e gioia.-
Nuove generazioni crescano senza odio, con rispetto, tolleranza e coscienza dell’appartenenza di tutti gli Uomini allo stesso Universo, di cui NULLA è solo di uno o di pochi.
-Mandale in alto quelle bolle di sapone, bambina dagli occhi tristi e un timido accenno di sorriso, impaurito, disorientato, che chiede e non ha risposte, mandale in alto e urla l’angoscia di non capire la crudeltà di quei padri assassini-
Solo allora mi accorsi che il soldato era caduto. La bambina non si era accorta di nulla, continuava a far volare le bolle di sapone da un inesauribile contenitore.
Mi avvicinai al soldato… era morto, mi chinai su di lui, avrà avuto 25 anni al massimo.
-Perché sei rimasto qui, da solo, sotto il fuoco del nemico?-
-Non volevo che uccidessero la bambina, che colpa ha lei di tutto questo scempio?-
-E tu, che colpa avevi?-
-Nessuna, o forse quella di non aver saputo dire di no. Non amo la guerra, non amo i mostruosi giochi politici che mietono solo vittime… in guerra o nella società. Non ho avuto il coraggio di dire di no-.
-Se avessi detto di no, è possibile che ti avrebbero condannato a morte, ma sei morto lo stesso… per la causa sbagliata.-
Sollevai gli occhi, la bambina era scomparsa, una grande bolla di sapone volteggiava lenta nella stanza, dentro, quasi impercettibili, le sfumature di una parola che ancora cercava una ragione: Amore.
Era tardi, spensi il PC e andai a dormire. Come sempre lasciai aperta la finestra.
Giuseppe Loda
Accetto il regolamento, sezione B.
Il venditore di grappa
Mi ricordo una sera al bar in cui, parlando con alcuni amici, eravamo
andati sul discorso di lavori che oramai non esistevano più, e ne avevamo elencati alcuni.
Più tardi, nel ritornare verso casa, mi ricordai di quando ero bambino e trascorrevo le vacanze dai miei nonni.
Fu proprio durante una di quelle vacanze estive che vidi per la prima volta un anziano signore, che sembrava avere circa cinquant’anni, entrare nel cortile del nonno con una vecchia bicicletta.
Con un sorriso lo salutò, poi iniziarono a parlare.
Io anche se piccolo ero abbastanza curioso, e mi avvicinai per capire di cosa stessero parlando. Fu a quel punto che il signore con la bicicletta mi guardò e poi mi chiese:
— Anche tu piccolo vuoi assaggiare questo liquore speciale?
Io lo guardai senza sapere come rispondere… Chissà cosa mai vorrà farmi assaggiare, pensavo tra me.
Il nonno mi guardò e mi fece un piccolo sorriso. Io avevo un certo timore del nonno, una persona molto alta per quei tempi, con un paio di baffetti da sparviero, come direbbe un comico che vidi un giorno in televisione.
— Vai a Prendere un bicchiere Giuseppe, — disse allora il signore arrivato con la bicicletta; e mentre lo diceva lo vidi rimuovere una coperta che nascondeva un cesto. All’interno mi sembrò di vedere una ruota di un’automobile.
Rimasi lì, sbalordito, a guardare, mentre il nonno si allontanava per ritornare subito dopo con un piccolo bicchiere.
— Dai fammi assaggiare se è buona, — disse il nonno.
Quel signore piegò la ruota che aveva nel cestello e aprì una valvola, rimasi sorpreso nel vedere che non ne usciva dell’aria, come avevo pensato, ma una specie di liquido bianco.
Dopo averne versato solo alcune gocce nel bicchiere, disse nuovamente al nonno:
— Dai Giuseppe bevi e dimmi se ti piace.
Il nonno dopo averla assaggiata esclamò: — Buona! Meglio di quella dell’altra volta! — E subito tornò in casa e ne uscì poco dopo con una bottiglia, che quel signore si affrettò a riempire di quello strano liquido bianco.
Dopo avere concordato il prezzo, il nonno pagò.
L’uomo, dopo avere salutato il nonno con una stretta di mano, si avviò per uscire dal cortile. Arrivato sul portone si girò:
— Ciao Giuseppe! Ci vediamo fra tre mesi, — disse, poi si allontanò con l’aria felice.
Allora il nonno mi disse:
— Dai piccolo vieni con me, andiamo a trovare un posto dove nascondere la bottiglia. — Mi diede la mano e rientrammo in casa.
— Mi portò all’interno di un sottoscala; quando fummo giunti a ridosso di un vecchio armadio rimosse un asse, poi infilò all’interno di una cavità la bottiglia, richiuse con estrema cautela, mentre io con curiosità gli chiedevo: — Nonno come mai hai nascosto la bottiglia?
Lui mi guardò con un sorrisetto malizioso e mi rispose:
— Sei troppo piccolo e non ancora furbo abbastanza, adesso ti spiego per quale motivo nascondo la bottiglia.
— Dai nonno! Dimmi perché.
— -Devi sapere che a me piace bere ogni tanto un goccetto di grappa, e la nascondo perché, se per caso la trovassero i tuoi zii me la berrebbero tutta in pochi giorni, e io rimarrei subito a secco. Quel signore che hai visto prima viene solo ogni tre mesi a portarmi questa deliziosa grappa.
— Perché la chiami grappa, se nella bottiglia quel signore ha versato dell’acqua?
— Somaro! Nella bottiglia non c’è dell’acqua! — E nel dirmi questo mi fece annusare il suo bicchiere, io appoggiai il naso e feci un lungo respiro, subito capii che nella bottiglia non c’era dell’acqua, ma qualcosa che io non avrei mai immaginato potesse esistere, tanto era terribile il suo odore.
Con uno sguardo divertito il nonno mi disse:
— Hai visto che non è acqua?
— Mi fai assaggiare?!
— Sei troppo piccolo, tra qualche anno la potrai bere anche tu.
Da quella volta vidi spesso arrivare quel vecchio signore con la bicicletta e portare la grappa al mio nonno.
Ora purtroppo il mio caro nonno è morto.
Ma devo dire che, anche se molti anni sono oramai trascorsi, mi è rimasto sempre nel cuore il viso sorridente del mio caro nonno, quando vedeva entrare dal portone quel signore con la bicicletta, che nascondeva sotto la coperta, la vecchia ruota di una macchina piena di grappa.
Questa notte ho sognato la fabbrica occupata, le scuole e le università. Era buio e stavo ritornando dalle docce, nudo, in quel casino avevo scordato vestiti ed asciugamano ma nessuno ci faceva caso.
Sognate mai qualcosa che poi vi faccia stare bene per parecchio tempo? Ecco, era un sogno di quelli. Di quelli che ti danno da mangiare un cibo introvabile e speciale, di quelli che ti fanno andare avanti.
Se io fossi una donna incinta avrei una voglia a forma di Palestina e passerei in rassegna tutti i nomi a noi inconsueti. Sfoglierei un elenco interminabile di morti e suggerirei a tutte le amiche come potrebbero chiamare le loro speranze, a me piacerebbe si chiamasse Amir.
sez. b, accetto il regolamento
Sezione A. Poesia
QUANDO DIO HA ABBANDONATO IL MONDO
Quando Dio ha abbandonato il mondo
tutti siamo corsi là, sui moli.
Sfiniti, ora, ad uno ad uno
in lunghe file ordinati, ci spingiamo sulle navi.
Nuvole si stanno alzando,
brividi sfilano dal cielo,
speranza gocciola, scivola tra le onde:
prendiamo il largo, intatti, scombussolati,
le grandi prue abbaglianti in rotta
verso terribile oscurità.
ACCETTO IL REGOLAMENTO del Contest “Oltre il muro Gaza”
Aspettando l’alba
“Vivevamo in un paese bellissimo, fra valli verdi di ulivi e alberi da frutta. La nostra casa aveva tre piani e un giardino pieno di fiori. Ma
un giorno fummo costretti a fuggire, ad abbandonare tutto, a vivere in un paese straniero dentro una misera tenda”.
Così il nonno e mio padre iniziano la storia della nostra famiglia, noi bambini ascoltiamo in silenzio cercando d’immaginare il lontano paese che non abbiamo mai visto.
Io e i miei fratelli siamo nati ad “Occhio Bello”, un campo-profughi nel sud del Libano. La nostra casa non è più una tenda, ma una costruzione in mattoni imbiancati con un
solido tetto anch’esso in mattoni: all’interno c’è un bagno, una cucina con un tavolo e un fornellino a gas, due camere da letto.
Siamo molto fortunati ad avere tutto questo perché papà è un commerciante.
In molte case, invece, non c’è il bagno e nemmeno il gas. Quando piove, il tetto in lamiera fissato con i chiodi diventa un colabrodo e tazze sparse ovunque raccolgono le gocce impedendo alle persone di spostarsi.
Come tanti bambini del mondo, la mattina mi alzo per andare a scuola, arrotolo il materasso su cui ho dormito e lo sistemo nel portamaterassi, un mobile che mio padre ha
costruito coi mattoni.
Quando saluto la mamma, la trovo spesso intenta a rovistare nella “scatola dei ricordi”: ogni donna ne possiede una dove custodisce gelosamente foto e oggetti appartenuti alla
sua famiglia.
Esco.
La paura mi appartiene.
Spero non succeda niente, oggi.
Nel pomeriggio vengono a trovarci i cugini e i vicini di casa.
Giochiamo nel cortile, il cuore della casa, da dove i grandi ci vietano di uscire.
Non possediamo giocattoli, solo qualche biglia e un pallone.
Non manca, però, la fantasia di inventare giochi nuovi e, soprattutto, non manca mai la compagnia di tanti bambini.
E’ da poco passato mezzogiorno, sono finite le lezioni e mi avvio verso casa in compagnia di
Sonia, mia sorella più piccola.
Di colpo una sirena squarcia l’aria, poi un boato fa tremare la terra.
Sonia si aggrappa a me, piange ed io la proteggo col mio corpo.
Persone che corrono, nomi urlati, sirene che fischiano, polvere negli occhi: tutto si avvolge e si confonde come in un vortice.
Arriviamo a casa.
Salvi.
Più tardi ci dicono che nostra cugina Amina è rimasta gravemente ferita ed ha perso l’uso delle braccia.
Sonia è scossa, la paura si riflette nei suoi grandi occhi scuri.
Mi viene accanto.
“Hassan, devi promettermi che non mi abbandonerai mai. Tu sei grande e grosso, col tuo corpo puoi proteggermi. Se perdo anch’io le braccia, chi mi sposerà? Chi sposerà una
storpia?”
“Certamente, Sonia, sta’ tranquilla”.
La sera Sonia vuole addormentarsi accanto a me.
Spesso è agitata e non riesce a prendere sonno.
Allora inizio a raccontare.
“Vivevamo in un paese bellissimo, fra valli verdi di ulivi e alberi da frutta. La nostra casa aveva tre piani e un giardino pieno di fiori. Ci torneremo, te lo prometto!” sussurro.
Sonia dorme.
Ora, sembra quasi sorridere.
Sez B accetto il regolamento
2025 GIORNO SPECIALE
Oggi, il giorno splende di sole
e di una dolce e grande data:
2025 !!!!!!!!!!!!!!!!!
Che meraviglia!
Un Nuovo Anno!
Un Anno Nuovo,
l’abbiamo scolpito nel cuore!
Dappertutto sorge questa data
Che ci illumina di speranza
Di un mondo migliore.
Oggi, un giorno speciale,
che in tanta prosperità e pace
ci fa sperare.
Il 2025
Si specchia luminoso!
Dappertutto, tanti coloratissimi
e splendenti fuochi d’artificio
ci hanno annunciato il suo arrivo,
e noi l’abbiamo accolto nel cuore
con tanta gioia e amore!
Oh mio Gesù,
Ti prego, oh Padre Nostro
aiutaci, benedicici, perdonaci.
Tienici stretti a Te,
aiutaci, benedicici,
proteggici, salvaci!
1- 2025
Giovanna Li Volti Guzzardi
Quanto pesiamo?
Pesiamo sogni
desideri infranti?
Pesiamo abbracci,
di quelli che tolgono il fiato,
e risate che esplodono
come stelle nel buio?
Pesiamo
le scelte fatte?
Ma quanto pesiamo davvero?
Pesiamo amore
non grammi né chili,
ma la luce
che lasciamo negli altri.
come un cuore intrappolato in una conchiglia.
accetto il regolamento sez. a
Sez A – accetto il regolamento
case distrutte –
altrettante macerie
dopo ogni guerra
ancora si spalano
scavando i nostri cuori
(Tanka)
©️ Benedetto Patti
Roma 27/01/2025
Cento e una vita
Sarà una spada di Damocle o uno scettro di potere regale?
L’ho agguantata, la volgo contro di me, trafiggendomi fino al costato. Sono vivo!
Mi trascino in un tunnel, ho violato le barriere del tempo.
La memoria s’inceppa, cento e una vita reclamano e si accavallano l’una sull’altra
nella brama di essere raccontate
L’anima spaurita ripercorre vittorie esaltanti e fragili miserie
Sotto l’arco celeste le stelle immobili stanno.
Solo l’umiltà mi sarà di aiuto
Silente atterro sull’umide zolle
Le mani operose si avvicinano
Di sporco marrone cospargo il mio volto.
Chiara Sardelli
Accetto il regolamento sezione A
Sarà vera pace?
Quell’avviso ben visibile all’ingresso del locale, posto accanto allo scrivinpiedi sul quale si possono consultare le recensioni e il guest book, è l’ultima sferzante provocazione. Noi manteniamo le nostre promesse! Un motto che suona insulto ai nostri orecchi.
Certo in amore e in guerra tutto è ammesso. Oramai tra i Francoforte e noi, i Beneamati, è proprio guerra.
Qualcuno potrebbe dire che ce la siamo cercata. In effetti, quando abbiamo aperto il nostro locale, senza aspettare che le beghe giudiziarie che avevano colpito i nostri concorrenti fossero appianate, o almeno definite, è stato un colpo basso. Tuttavia non dipende da noi se i padroni del The Bacco’s Boys hanno commerciato in traffici illeciti e in affari poco limpidi. Mentre i componenti della nostra famiglia hanno una fedina penale immacolata e la loro buona aura si è estesa al nostro locale che, sebbene di stile poco ricercato e adatto a una clientela meno raffinata, ha goduto subito di un’ottima fama.
Inoltre, allocare la nostra locanda nella medesima piazza, dirimpetto a The Bacco’s Boys, era l’unica scelta praticabile per chi volesse iniziare l’attività in tempi brevi.
Stando al merito della questione, da noi le promesse si mantengono: A tavola come a casa, recita la nostra insegna e i nostri piatti sono tutti genuini. Puntiamo sulla qualità dei prodotti avendo ottimi fornitori che ci garantiscono il meglio consentendoci l’accesso all’ eccellenze del territorio. La cucina rivisita le pietanze tradizionali, la carta dei vini è ben rifornita, tuttavia ci asteniamo da proporre specialità consentite solo ai portafogli ben rigonfi.
Il servizio è accurato, non manca mai di disponibilità e di cortesia, solo si evitano eccessive smancerie e l’impiattamento è semplice. Curiamo con massima attenzione l’igiene, il tovagliato è sempre ben stirato, i cristalli, le ceramiche e le posate tirate a lucido.
In questi pochi mesi, abbiamo arricchito la nostra offerta con un menù vegetariano che ci ha procurato una nutrita clientela, garantendo peraltro, come necessario, una continua attenzione alla questione delle intolleranze e allergie alimentari.
L’invidia da parte dei Francoforte si taglia a fette. Il subbuglio maggiore tra le loro file si è sparso e spanto a macchia d’olio quando circa un mese fa si è risaputo che avevamo accolto nella nostra squadra culinaria uno chef proveniente dalla vicina costa francese
Abbiamo annunciato per il prossimo sabato un lunch serale dedicato a piatti di pesce freschissimo tra cui si nota la famosa bouillabaisse e abbiamo fatto il pieno delle prenotazioni. Tra gli invitati speciali spicca il nome di un illustre intenditore del gusto che collabora a riviste patinate sulla gastronomia con lo pseudonimo di Brillante Savarin
Fin qui tutto in ascesa per noi, non fosse che un particolare ridesta la nostra preoccupazione e ci sta guastando il sonno.
Sono stato sempre molto severo con il personale pretendendo che i rapporti con l’altro locale si mantenessero nei limiti dell’educazione e del rispetto reciproco.
Tuttavia i servitori ai tavoli sono tutti molto giovani e il sangue giovane, si sa, fa presto a scaldarsi.
è stato così che tra il nostro cameriere Jonny originario del Sud d’Italia e il sommelier impiegato presso The Bacco’s Boys si è verificato un episodio spiacevole. Non solo i due sono venuti alle mani, ma dalla rissa sono scaturite delle lesioni a carico del sommelier e purtroppo il fattaccio è avvenuto all’ingresso, nella terrazza che dà accesso alla locanda.
Non si sa come, ma è stato tirato fuori un coltello da cucina e il tizio ha riportato una ferita al fianco dichiarata guaribile in oltre quaranta giorni così che la questione è diventata penale.
Si vocifera in paese che le ragioni dell’alterco fossero di carattere personale tra i due, poiché è noto che Fabrizio il mio giovane dipendente sarebbe sensibile al fascino della figlia dell’altro: la quale, sempre a dare retta alle voci, gradirebbe le attenzioni di costui.
Mannaggia, è stato un vero guaio! Per due giorni abbiamo dovuto chiudere e lo spazio a terrazza è stato transennato per consentire i rilievi della scientifica.
Ancora non mi sono del tutto ripreso, ma la sorpresa più grande è che mi sono dovuto sorbire la visita di Luigi Francoforte.
Non so se sia sincero, ma mi ha giurato che il sommelier non lavorerà più presso il suo locale, consigliandomi un analogo provvedimento nei confronti di Fabrizio.
Abbiamo suggellato un patto sancito dal fumo di sigari toscani, l’unico gusto che, a quanto ne so, ci accomuna.
Se tali sono, ben vengano tempi di pace.
Accetto il regolamento Sezione B
Incombe il presente
Forse tornerò
A contemplare
le piccole cose perdute
A vivere lentamente
i momenti
che passano fugaci
evocando l’eterno
Ma il presente
incombe algido
Sui convogli dei soldati
che partono
senza immaginare il ritorno
Sui padri impotenti
che seppelliscono
i figli caduti
Sui bambini smarriti
tra le macerie fumanti
Sui profughi che cercano
le loro case distrutte
con l’ardua tenacia
di guardare al futuro
Forse tornerò
Quando il sole sorgerà
sui giorni
restituiti alla vita
sez. a accetto il regolamento
Giorgio Norberto Marchini
Sezione A
Accetto il regolamento.
Capovolto cielo
Guardi le mosche
infierire su quei corpi
patiti
sdraiati nella polvere
a volte storpi
Quasi t’impressioni
che
vorresti abbracciarli
teneramente
te lo dice il cuore
e pensi
potessi far qualcosa
Poi te li trovi davanti
e non è apparenza
tiri la tua briglia
non hai capito una mazza
Speranze vuote
esistenze da scartare
Chi di altra appartenenza
chi semplicemente non ti somiglia
solo perché di un’altra razza
Ideologie remote
che ti fan sputare
violente sentenze agghiaccianti
A volte mi sale il nodo in gola
non odio
no
perché non mi consola
maledetto capovolto cielo
Teneramente me lo dice il cuore
e penso che saper discernere è cosa preziosa
L’ALDILÀ
Guardavo assorto l’infinito
Cercando il motivo della vita
che si svolge come un film
con un inizio e poi la fine.
Nessuna risposta pervenuta
pur sforzandomi nell’attesa
aprendo bene occhi e padiglioni
delle orecchie mie vetuste.
Allora chiudendo gli occhi
ho immaginato di estraniarmi
cominciando nel cielo a navigare
per trovare soluzioni alla domanda.
A malincuore ho dovuto desistere
nessun astro o nuvole da me incontrate
con dovizia ed arguzia interpellate
non han saputo dare in merito risposta.
Quindi quell’atroce dubbio
che in me straziava alberga ancora
e quella voglia di scoprire l’ aldilà
viene ancora forse, per poco rimandata.
ACCETTO IL REGOLAMENTO sez. a
Dietro la porta
Stanno per sfondare la porta. Io sto rannicchiata nell’angolo più buio della casa. Mia madre mi stringe le mani per farmi coraggio, per trovare lei stessa quel coraggio che ci hanno obbligato a coltivare da quando ci hanno invasi. Non so quando siamo diventati il nemico di qualcuno né il perché, non so chi sia il nemico fuori.
Prima la nostra città aveva giardini profumati dove giocavamo, scuole dove imparavamo con maestre gentili, case coi tetti rossi che brillavano al sole e alla pioggia, piazze alberate, bar dove ci sedevamo in famiglia per vedere il passeggio domenicale e berci qualcosa. Ora si vedono solo fumo e macerie, si sentono spari e esplosioni e di notte boati cupi che ci fanno saltare dai letti dove cerchiamo di dormire.
La fabbrica dove lavora mio padre è stata bombardata ma nessuno sa veramente quanti siano i morti e i dispersi. So solo che lui da tanti giorni non viene a casa, che non mi prende più in braccio tornando dal lavoro, che non mi insegna ad andare in bicicletta nel cortile. Mia madre piange di nascosto ma io la sento. Mi chiedo se anche il nemico abbia una madre che piange di nascosto.
Il rumore fuori si fa sempre più forte. Il legno della porta sta cedendo. Non so cosa cerchino in casa nostra, non abbiamo ricchezze né colpe. Ho paura e molte cose non le capisco. Dicono che questa terra non è la nostra, vogliono cancellarci. Mio nonno racconta storie vecchie di secoli dove i nostri antenati hanno coltivato questi campi, pregato gli dei del vento e della pioggia, partorito i loro figli. Io ci credo alle storie di mio nonno perché lui è un uomo buono e saggio. Ma lì fuori ci assedia un’immeritata violenza e la menzogna.
Mia madre mi copre gli occhi con le sue mani gelate, mi stringe al petto e loro, questi sconosciuti venuti da un altro paese, sfondano la porta e con un grido di bestia famelica entrano.
sez. b accetto il regolamento
Piange Palestina
Piange Palestina lacrime di polvere e cera.
Piange Palestina nel vuoto senza requie della sera.
Piange Palestina tra macerie e urla di frontiera.
Brucia Palestina come legna inerte nel camino
o il corpo senza vita di un bambino.
Sogna Palestina mentre ha ancora i chiodi
conficcati nella pelle.
Muore Palestina, come muoiono,
nel giorno,
le sue stelle.
sez. a accetto il regolamento
S’AGITA INQUIETO IL MIO FANTASMA
S’agita inquieto il mio fantasma
nel freddo della nebbia morente,
fluttua verso una cripta di luna
greve di pallide stelle.
Ammuta tra le verruche di pene
d’un cielo che più non s’allieta di sole,
schiacciato dalla dispotica notte,
pipistrello senza pace né anima.
Sente il cuore dannato avvoltolarsi
nella sua prigione di solitudine,
nel fango urlante dei silenzi
scialbati da triste alchimia.
Avvelenato d’amore si disperde
nel deserto d’un sudario d’inferno,
divorato dalla funebre sinfonia
dell’incubo in cui bruciante cade.
In sinistro stridio, allora, è il suo pianto
memore di salati osculi giglianti,
d’un azzardo di passione storpiata
dagli anni, dal verminare dell’ossa.
Eccome raspa di convulso desio
fertile e gonfio d’eterna bramosia,
eccome s’offre al solletico frenetico
della folle clessidra che si svuota.
Sandra Ludovici
Sezione A
Accetto il regolamento
L’ULTIMO ADDIO
Mi sono voltata.
Ho lasciato gli occhi
affacciati alla finestra,
ancorati alla tua ombra.
Te ne sei andato.
Resta solo il ricordo
di ciò che poteva essere
ma non è stato mai,
mentre la realtà si infrange,
tra denti che stridono
e fiato che manca.
Josyel (Giusy Locatelli)
Accetto il regolamento di questo concorso, sez. a
ALLA RICERCA DI TE
Cos’è questo Silenzio
calato sulla palpebra
della notte distante
dal nostro Amore
che nell’esser predestinato
ha tracciato la via
di un ansimante
Ritorno?
Cos’è questo Vuoto
infiltrato nelle trame
del solitario Essere
che più al vivere
somiglia ad uno zoppicante
andirivieni dalle stanze
del sopravvivere?
Cerco tra le parole
il calore della Presenza,
ma ciò che trovo
non è altro che Sembianza
di ciò che un tempo
fu Fuoco e Altisonanza
di un Esistere
forgiato col metallo dell’Essenza
che liquida
riempì di sé la traccia
lasciata esposta e vulnerabile
alla smagliatura del Tempo.
E io allora cerco,
e di te ancora
ritrovo l’ombroso passo
che si insinua mesto
tra le vesti di questo mio Andare,
consapevole che non tanto la Meta,
ma piuttosto il Viaggio
è ciò che unisce l’Anima all’Animus
di ogni nostro singolo sguardo.
Rita Coda Deiana
Sezione A – Accetto il regolamento
LE CICATRICI DEL CIGNO
Nella notte accecante, un cigno guidava la sua sagoma verso la deriva di un’esistenza solitaria come la morte. Un’esistenza che era esistita ma che non voleva esistesse. Perso tra il profumo di un tramonto oscurato, deluso da una nuvola portatrice di scompiglio.
Nel Cielo, una nuvola rendeva l’acqua del lago oscura e lui la osservava, mentre ai suoi occhi era stata proibita la Luna, un occhio eterno su un dipinto opaco, offuscato davanti a ciò che sentiva nel profondo…un dolore lancinante.
Desiderava annegare ma era legato a quella Luna e il suo sguardo era ammaliato da quella vista. Impossibile distogliere lo sguardo da Lei…era vittima di un incanto che lo portò là dove le sue ali non potevano arrivare.
Erano spezzate, come se volutamente fossero state schiacciate da un gesto distratto, ma studiato nei minimi particolari. Le ali che segnarono la Vita, ora erano segno di Morte.
Piangeva, ma quelle lacrime non le avrebbe viste nessuno, il suo lamento non sarebbe stato udito e in un dipinto sarebbe stato solo una macchia di colore non ben definito…uno sbaglio.
Sapeva di essere uno sbaglio e le cicatrici che portava erano come un marchio a fuoco.
Le sue cicatrici erano illuminate dalla Luna, ma voleva nascondersi e oscurare la sua ombra nel lago. In fretta si diresse verso l’ombra della vegetazione ristoratrice…sanguinava e il liquido che lo circondava aveva perso la parvenza dell’acqua.
Era solo sangue denso che macchiava le ali spezzate che trascinava lentamente verso una possibilità di salvezza.
Alzò gli occhi al cielo e iniziò il suo canto,
desiderava che la sua voce flebile risuonasse nella foresta, per risvegliare gli spiriti dormienti che dimoravano intorno al lago cremisi, come il dolore interiore che lo assillava.
Lo stava divorando e nulla accadde per impedire che ciò avvenisse
Una lacrima sgorgò dai suoi occhi iniettati di dolore e andò a mescolarsi con il rosso che lo circondava nel lago. Sembrava quasi di sentire il lento crollare della lacrima nell’abisso purpureo. Una piccola lacrima, amara come l’assenzio, fragile come un’ala di farfalla, bella come il Volo di un Angelo.
L’odore del sangue delle sue ferite impregnava la foresta circostante, la superava con un unico volo…un volo eterno, e incredibilmente maestoso.
Il cigno sprofondò nell’abisso del suo stesso dolore, ma non riuscì a raggiungere il buio nel quale voleva morire. La Luna non desiderava che ciò avvenisse. Lo osservava da molto tempo, mentre il lago continuava a cambiare colore come una foglia durante le stagioni della propria esistenza. Una foglia che non era ancora caduta sul viale della sua Vita, non voleva perdere la sua forza vitale ma non poteva continuare a fingere di essere una rosa quando invece ormai si trattava di un giglio appassito sulla sua tomba. Si osservarono e, mentre il canto rievocava strane sensazioni nella Madre Terra, mentre la voce saliva al Cielo per accompagnare la sua ascesa inevitabile, il tempo si fermò e intorno farfalle notturne volarono confuse come se avessero qualcosa da dire…qualcosa da comunicare.
Nessuno le vide. Vennero ignorate.
Il loro battito d’ali era convulso, ma l’attimo non poté mai essere sciolto come fosse neve al vento. Il volo impetuoso e macabro non riuscì ad allontanare i due amanti per eccellenza, non ora, non domani…mai!
Il canto avvolse il lago e la solitudine penetrò nella Bianca Foresta. Non ci furono Angeli per il cigno. Non vennero a portarlo via da ciò che era e che non voleva essere. Non era atteso da alcuno…se non da Lei…la Luna.
Continuava a ripeterselo nella mente e la voce cambiava di tonalità: era vigorosa ma triste come il canto di un ultimo violino in un concerto da requiem.
Ascendeva e non sentiva più il corpo. Non voleva pensare ad altro che alla propria voce spezzata da quel battito accelerato…il canto impazzava.
La Foresta si ridestò dal suo sonno profondo. Le farfalle si aggiravano confuse, come impazzite.
Nulla nella loro intimità. Nulla nella sua Morte se non Lei.
Nulla potrà esserci al di là di ciò che desiderava sapere. Non voleva andare oltre ciò che aveva sempre saputo. La consapevolezza che le cicatrici avevano causato la caduta in se stesso era troppo forte e presente per essere allontanata. Ma la Luna continuava ad osservarlo.
Allontanava dal proprio cuore questi pensieri e cantava. La voce profonda, spezzata dal dolore fisico…spezzata dalla Bellezza che lo circondava in quella Notte, era un unico conversare tra Amore e Amore. Due divinità incarnate e due vite nella Solitudine. Farfalle impazzite. Ali in frantumi e sangue penetrante nel cuore della Madre, un canto di Morte nell’atmosfera rarefatta. Il canto cessò. La Vita cessò. Il cielo si oscurò e la Luna si ammantò di nuvole di Tempesta.
Iniziò a piovere…stava piovendo. Farfalle morte sul fango del lago che non assumerà più l’aspetto di un lago. Divenne un letto funebre e il liquido cremisi di cui era formato, si tramutò in un feltro liscio più della seta orientale. Un feltro, una stoffa che ora era integra.
Tutto dormiva nella Foresta…ma mentre le gocce colmavano le fosse del terreno scosceso, qualcuno intonò l’inno e il ciclo ebbe nuovamente inizio, per protrarsi all’infinito, come le parole degli amanti carnali della Notte. Il silenzio giunse da lontano e per sempre ebbe luogo la reincarnazione…la liberazione dall’ostacolo.
Il cigno si lasciò morire per non soffrire più, ma la Luna continuò nell’eternità della sua condizione a cercare la sua voce spezzata tra le Nuvole di Tempesta e la ricerca non ebbe mai fine. La condanna era stata pronunciata e il Giustiziere era stato accontentato nel suo volere.
Lacrime come nebbia calarono su quel letto di Morte e battiti d’ali scandirono il Tempo impetuoso dell’esistenza.
Una lacrima venne trasformata in un giglio che dolcemente giacque sulla sua fossa che incontrò durante il suo cammino. Un giglio che macchiò le sue dita come quella Notte il suo sangue macchiò il Lago.
Rita Coda Deiana
Sezione B – Accetto il regolamento
Sez A poesia accetto il regolamento
Il Pane reso ogni giorno
La poesia
è un’acrobata stellata
un canto degli avi
Un approdo di un estro
E’ un vento
che tutto scompone e ricompone
È il pane reso ogni giorno
Sez. A – Accetto il regolamento
OLTRE IL MURO
Oltre il muro …
oltrepassando quella porta
già il viandante ritrova ristoro
passo dopo passo
tra l’aspro selciato…
del suo faticoso andare!
Pare che la natura,
compagna generosa
apra le sue porte all’uomo,
cinico abitatore del mondo!
Oltre quel muro…
chiuso tra massi e incorniciato
da verdi chiome
già s’intravede oltre quella porta
appena appena socchiusa,
un meraviglioso mondo…
pieno di luci, colori e mille riflessi
e tramonti e aurore da sogno
e pennellate gioiose di vita!
Sezione B – Accetto il regolamento
QUELLA CASA IN COLLINA
Quella casa che Francesco aveva ristrutturato in collina era ormai diventata il suo rifugio; forse da sempre aveva sognato un luogo dove ritirarsi in solitudine, lontano dal caos della città, per assaporare momenti diversi dove il sentirsi a contatto con la natura significava un dolce ritorno al passato.
Era stata, prima di acquistarla, in condizioni pessime, una antichissima casa di pastori.
– Vedi, in queste valli – cominciò Bustianu mentre versava dell’acquavite – spesso e in questo periodo non puoi stare in giro, e l’unico modo per trascorrere queste giornate è starsene buoni buoni dentro casa e aspettare; anche per il mio bestiame e meglio tenerlo nell’ovile vicino casa.
– Hai ragione Bustianu, speriamo che domani la giornata sia delle migliori così si potrà organizzare una bella camminata su verso il monte – terminò Francesco, speranzoso, mentre sorseggiava l’acquavite. Bustianu andò via subito dopo pranzo per accudire al suo bestiame mentre Francesco si ritirò in camera per un breve riposino.
La serata era particolarmente scura e novembre come sempre da quelle parti aveva mostrato il suo lato peggiore. Sarebbe stato salutare e bellissimo uscire per la campagna in quelle magnifiche valli e Francesco era contentissimo di ritrovarsi tra i boschi di leccio e tra il profumo di erbe aromatiche, molto abbondanti in quei luoghi.
Certamente sarebbe riuscito ad arrivare sino al Monte Linas, con i suoi 1236 m. s.l.m., sempre che il periodo scelto non fosse stato così inclemente. I giorni sarebbero passati probabilmente senza mettere naso fuori da casa. Stava pensando infatti di rientrare in città. Lasciare il paese di Serru e i tanti amici che lo reclamavano per trascorrere qualche ora insieme al circolo il “Gabbiano” oppure al bar di Nicolino.
Sarebbe rientrato a Cagliari e avrebbe ripreso il suo lavoro in ufficio tra scartoffie e progetti da finire e altri da iniziare. Aveva deciso di riprendere il lavoro e lasciare a tempi migliori per trascorrere giorni di ferie in quella casa in collina.
La pioggia batteva forte contro le finestre e il vento fischiava tra gli alberi. Francesco si svegliò dopo qualche ora con una sensazione di inquietudine. Decise di accendere il caminetto per riscaldare l’ambiente per creare un’atmosfera più accogliente.
Mentre il fuoco iniziava a crepitare, si sedette sulla poltrona con una tazza di tè caldo aggiungendo un bel cucchiaino di miele. I suoi pensieri vagavano tra i ricordi del passato e le speranze per il futuro. La casa in collina rappresentava per lui un rifugio, ma anche un luogo di riflessione.
Si rese conto che, nonostante le difficoltà, quei momenti di solitudine gli avevano permesso di riscoprire se stesso e di apprezzare le piccole cose della vita.
Il giorno seguente, il cielo si schiarì e il sole fece capolino tra le nuvole. Francesco decise di approfittare della bella giornata per fare una passeggiata fino al Monte Linas. Indossò il suo abbigliamento di circostanza e si incamminò lungo il sentiero che attraversava i boschi di leccio. Il profumo delle erbe aromatiche riempiva l’aria e ogni passo lo avvicinava sempre di più alla cima.
Arrivato in cima, anzi non proprio, Francesco si fermò a contemplare il panorama mozzafiato. Sentiva una profonda e benefica sensazione in compagnia della natura e una pace interiore che non aveva mai provato. Decise che, nonostante il lavoro e gli impegni in città, avrebbe sempre trovato il tempo per tornare in questa casetta, quasi fosse nata in collina, il suo rifugio, il suo angolo di vita che assomigliava a un paradiso.
Così a cuore leggero e con un sorriso di soddisfazione sul volto, Francesco iniziò la discesa giù in collina, pronto a tornare alla sua vita quotidiana, ma con la consapevolezza che quel luogo sarebbe stato sempre lì ad aspettarlo il suo Paradiso.
Antonio Stasolla
Dichiaro di accettare il regolamento, sez. a
ODE ALLA DONNA
Donna,
sangue della terra,
terra di sangue,
amo il cielo che scorre nelle tue vene,
amo le stelle delle tue idee assolate
che piovono ad accendere
le nostre lampade solitarie,
ad illuminare i nostri cuori immobili,
come treni in una stazione in attesa di ripartire
verso nuovi sogni.
In te, donna,
l’aroma della pioggia nuda
come il tuo pianto nascosto.
In te, donna,
il vino che beviamo, quando stanchi,
ci fermiamo al fuoco del tuo amore universale
per ristorarci l’anima,
per non precipitare nel vuoto.
MILENA MUSU
SEZIONE A ACCETTO IL REGOLAMENTO
Il segnale per i parti delle locuste.
Troppo lunga notte
rigida di buio inverno
bestiale da nascondersi
sotto un sasso scuro di muschio,
unghie viola
bagnate di brina
intirizziti i piedi
come questo freddo sasso
che non copre.
Lunghissima tenebra
mai alba, solo notte,
dateci un tetto
almeno un muro di sassi:
i parti delle cavallette
inascoltabili schiudono,
sono locuste.
Buio conficcato
dentro questa notte,
densa tenebra
blu di livido
glassa di veleno.
Sfamandoci di sacrifici morimmo,
fermo buio di notte
e silenzio sillabato nero, ne-ro.
Le locuste arrivano,
gli orecchi sanguinano.
Non eravamo pronti,
neanche oggi.
Melissa Biasin sezione B accetto il regolamento
DOLCE FATA
Vai dove vuoi,
Vai dove vuoi tu che puoi.
Tu puoi osare, tu puoi amare.
Il tuo sguardo è rivolto all’infinito e
si dice che solo con i tuoi occhi
preghi dio, senza bisogno di usare parole.
Anche se ti dicono che sei strana,
tu con il tuo sorriso da buona ribelle,
Corri battendo i piedi nell’erba,
volando, danzando,
In questa magia che sarebbe il tuo mondo e la tua vita,
che ti sorride, senza mentire.
Vai ragazza strana, dagli occhi che parlano,
vai dolce compagna di viaggio.
Il sole ti aspetta, mentre la luna ti canta lunghe melodie di pace.
Vai che l’alba è arrivata, salta e danza, tu che puoi, dolce fata.
POLVERE E LACRIME
Sul muro c’è scritto amore
ch’e amico del tempo perduto .
Nel fumo d’amaro sapore
s’è mischiato col sangue
il sale dell’acqua di mare.
Sull’asfalto riposano
tra le bombe ed il fuoco
il padre ed il figlio
con le viscere al cospetto
degli occhi del mondo.
Una striscia di terra
polvere lacrime
scarpe e capelli
tra le onde riposa
la bambina l’ orsacchiotto
la madre e gli anni più belli.
Una nube malsana
che sorvola l’ immenso
il cielo che vomita
riversa il suo grido
cercando vagabondo
brandelli di coscienza
che diano a tutto questo
un effimero senso.
Patrizia Basile
Sez A
Accetto il regolamento
Partecipo sezione poesia
Accetto il regolamento
Occhi di bambola
Guardi con occhi di bambola
ancora pronunci nome,
prendi la mano
per un saluto
cerchi ancora contatto
È incerto il tuo passo
in un tempo scaduto
che avanza lesto
vacilla la mente
nella nebbia che incombe
in che mondo sono
emozioni e ricordi ?
Occhi di bambola
ora fissano il vuoto
Eppure sorridi
nel tuo mondo incantato
Chissà se pensi
A quello che eri
Chi sei?
Chi sono?
D’amarezza è pregna l’ anima
Siamo niente
In questo universo
Bambini di Gaza
ottobre 2023
Ci sono
abbracci che non daranno
stretti
tra macerie e polvere
sogni frantumati
resti di quotidiano orgoglio
e brandelli di bandiera
che qualcuno rammenderà
per il vento.
Ci sono piccoli semi
tra i solchi delle bombe
e sbaglia chi pensa
non crescerà un bosco.
Il vento sta facendo il suo lavoro.
Ricama ogni nome sulla stoffa
lacrime
per la resistenza di un popolo
e la sua esistenza.
Correvano anche loro
i bambini palestinesi
correvano e danzavano
in bilico su due gambe della sedia
forse a scuola
e come tutti i bambini
si muovevano troppo.
Immobili poi sotto le bombe
scampati su barelle improvvisate
alcuni piangono
altri muti ti guardano
ma
i bambini palestinesi
tutti tremano.
Non chiederti perché
sopravvissuti
avranno ferma la mano.
Maria La Bianca
Sezione A
Dichiaro di accettare il regolamento del bando
L’UOMO E IL SUO CANE
Dal portone del palazzo, aperto all’improvviso, uscì di corsa una bambina velata, con le ciabatte ai piedi, veloce… La sua ombra sottile la seguì finché scomparve dietro l’angolo, in fondo alla breve via. Il vicino di casa, che dalla finestra socchiusa aveva osservato quel movimento concitato, quasi impercettibile, si ritirò nel silenzio polveroso del soggiorno e, una volta seduto sul divano mezzo sfondato, rimase lì, perplesso, avvolto nella matassa dei suoi consueti pensieri.
Dall’edificio di fronte, fino ad allora, non erano giunti segni di vita. Da molto tempo erbacce e persino grossi cespugli, aggrovigliati ai muri, costituivano l’unica decorazione esterna di un edificio ormai fatiscente. Alcune cassette delle lettere, poche e malmesse, stracolme di carte e buste sgualcite, stavano appese, in modo alquanto precario, alla parete di sinistra dell’androne, altre giacevano sul passaggio, accostate ai bordi dell’entrata.
Ora, ecco che alla corsa appena intravista occorreva dare un senso o, perlomeno, cercare di attribuire un nome a quell’essere minuto, capire se, oltre alla bambina, altre presenze avessero popolato il palazzo ritenuto disabitato.
“Ormai spuntano da tutte le parti… Chissà chi sono e da dove vengono” rifletté l’uomo. Non fece in tempo, però, ad articolare altri pensieri: la ragazzina (sì, gli sembrò un po’ più grande di una bimba) era lì, davanti a lui, più di lui sorpresa ma immobile, per nulla spaventata, piccola ladra sprovveduta, malcelata dal suo foulard che le copriva i capelli e parte del viso. Oltre il suo minuscolo profilo, l’uomo intravide la porta finestra del balcone spalancata e una corda che penzolava dal tetto, ondeggiante tra le tende del buio serale ormai calate quasi del tutto.
“E tu che ci fai qui, piccola delinquente…” Non riuscì a completare la frase. Lo sguardo si posò sul cane, Morfeo, il suo fedele e vecchio compagno. Lo sentì guaire verso di lei, lo vide leccarle con cura le dita ancora infantili, ad una ad una, meticoloso e serio come sanno essere i cani. Lo osservò mentre si soffermava a pulirle le unghie sporche e poi proseguiva lungo il braccio tenuto contro il fianco, inerte.
S’avvide, infine, degli occhi attenti, luminosi: apparivano spiragli aperti tra i muri spessi di un sonno altrimenti impenetrabile. Colmi di una liquida, vivida trasparenza che si stava a poco a poco oscurando sotto le angustie di una smorfia leggera, affiorata da un’ansia interiore.
Il cane, allora, smise di leccare, intimorito, ansimando e scodinzolando lieve, la bocca semichiusa. In lui – l’uomo lo sapeva bene – quello stupore greve invadeva un sentimento che, nella sua misteriosa profondità animale, sentiva di poter provare davvero senza riuscire, tuttavia, a individuarne l’origine.
Quello stupore, anche nell’uomo, si era insinuato come un vino dolce che si spande dentro senza ubriacare.
“Chi sei?” eppure sapeva che non ci sarebbe stata risposta. Si mise, quindi, in attesa. La mano di lei, intanto, scuotendosi piano da una fissità probabilmente indotta dalla paura, aveva iniziato ad accarezzare il cane, appoggiato alle sue gambe, affondando nel pelo morbido, folto, con paziente attenzione reclinando il capo e, dall’umido riflesso dei suoi occhi, continuando a mantenere una osservazione disarmata, obliqua, lungo il volto dell’uomo che aveva davanti.
Lui rimase ancorato a quello sguardo dalla deriva della sua inquietudine anche quando si accorse d’essere rimasto solo: la ragazza era sparita mentre ancora si udiva l’uggiolio sommesso del vecchio animale disorientato.
L’uomo, allora, s’avvicinò di nuovo alla finestra che, questa volta, aprì del tutto, con forza, per potersi sporgere e scrutare la notte che, sopraggiunta di colpo, s’era infittita lasciando filtrare piccolissime gocce di luce: le vide, puntini fosforescenti, appese ai lampioni, diluirsi in sottili filamenti fino a sciogliersi sul selciato.
Tornando nella sua stanza, disteso finalmente ad aspettare un altro insonne riposo, qualcosa di quei gomitoli di luce gli parve d’avere in grembo come un peso o, forse, era il muso di un cane abbandonato a carezze soltanto immaginate.
SEZIONE B Accetto il regolamento del concorso
COME I BAMBINI
Celò,celò,mi manca,
recita una voce stanca
nell’amena casa di riposo,
un vecchio colmo di rughe
risponde compiaciuto,
all’elenco delle malattie
del compagno di stanza,
prostatite,sciatica,cistite,
celò,celò,mi manca,
replica giocosa la voce,
ora loro unico interesse
in questa fase della vita
è rimasta la mala salute,
covid,polmonite,artrite,
celò,celò,mi manca,
scandisce lieto il vecchio,
ricordando la formula
che ha sapore antico,
di quand’erano bambini,
e riempivano le giornate
scambiandosi le figurine
dei campioni del pallone.
accetto il regolamento, sez. a
ALDO RONCHIN
accetto il regolamento sez. A
Perché
Non capisco perché la gente è così nervosa
eppure è appena cominciata la festa,
dal terrazzo di casa mia si vedono i fuochi
si sentono le esplosioni.
Da tanto il cielo di Gaza non era così bello, così illuminato.
Perché mia madre mi cerca disperata,
che cosa avrò combinato stavolta?
Ma non parla, mentre mi trascina giù per la scala,
lì sottoterra dove altri bambini stanno piangendo.
Forse anche loro vogliono vedere la festa
forse anche loro hanno paura del buio.
Lasciami la mano mamma, lasciami uscire a vedere,
non senti il rumore della festa che si avvicina?
È vero, i fuochi sono un po’ strani, prima il botto e poi i lampi di luce
e sono di un solo colore ma comunque belli.
Esci anche tu mamma a guardare il cielo
anche se questo lampo improvviso mi ha accecato
ed ho sentito un forte colpo al petto.
Perché mamma mi prendi in braccio e piangi?
mi stringi al petto e si sente un solo cuore che batte?
Io non ho niente, non sento niente,
ma non riesco più ad aprire gli occhi.
Solo una domanda mamma, un’ultima domanda:
perché nel cielo di Gaza non volano più le colombe?
….Perchè mamma.
GAZA
Sotto una cupola
di saettanti vettori di morte
che oscurano il cielo,
incuranti delle ululanti sirene,
Shira e Noam
corrono al loro punto d’incontro.
Attraverso il reticolato si guardano,
intrecciano le loro dita
anelante leva
per lanciare i cuori
oltre l’inumano ostacolo.
Più forti dell’atavico odio
ora uniti per sempre
in una gabbia per matti
ciascuno colpito da fuoco amico…
In gola strozzato l’ultimo
a Dio:
shalom – salam.
accetto regolamento sez.A
OSTAGGI
Alla terra
la radice recisa
il secco tagliere
l’essere rimosso
il senso osceno
dell’arido odore,
giovane mai più,
lucide labbra perdute
nell’ultima scena
della saga dell’odio,
sterpi
mattoni sventrati
ostaggi vaganti
il futuro serbato
preparato fottuto
l’epilogo
della promessa bandiera,
in lontananza
dalla caduta dell’uomo
osservatori
dalle molte nazioni,
debole vento,
acqua nel suo argine chiusa.
Luigi Carlo Rocco
Accetto il Regolamento sezione A
Oltre l’illusione, la vera pace.
Siamo noi, siamo noi, la storia
canta con voce d’artista,
il cantautore Francesco De Gregori.
Forse nessuno se n’è accorto,
forse siamo più bravi ad applaudire
il cantautore, perché la storia
non è cambiata affatto.
Un dramma, l’ennesimo supplizio
generato dall’uomo contro l’uomo,
ma soprattutto, niente carità,
neanche… dal popolo eletto,
neanche da coloro che sono stati
eletti a portatori della vera pace.
Coloro che, da schiavi liberati in Egitto,
hanno trovato finalmente
la tanto agognata terra promessa.
Perché è da qui che giunge
la vera pace, la fine di un conflitto
che dura ormai da un tempo vetusto.
La domanda essenziale è questa:
chi sono veramente io nell’animo?
Perché il coraggio non è
quello di rimanere dentro un’enclave,
ma forzare il muro del nostro cuore
a uscire allo scoperto per dichiarare
chi siamo: appartenenti a un solo luogo,
o semplicemente a una sola razza
fatta di vera umanità.
Non fatta di variegate idee o tratti somatici,
perché altrimenti questo conflitto, questa causa,
non la supereremo mai.
Sì, mai e poi mai.
Non sarà un accordo politico
a portare la vera pace nel mondo,
ad abbattere il muro di Gaza,
il muro della speranza.
Un solo cuore, un solo viso,
una sola voce umana baciata
dalla rugiada eterna,
dalle stagioni che vanno e vengono.
Da un uomo moderno che non si fa Dio,
ma che, nel genuflettersi dinanzi all’amore,
si fa portatore della luce che placa la violenza
del non sentirsi uomini.
La Terra, la nostra Terra,
dove viviamo da sempre,
dove possiamo amarci e incontrarci,
semplicemente come uomini che vivono
e sorridono alla vita.
Fiorenzo Briccola
Accetto il Regolamento sezione A
Accetto il regolamento, sez. a
IL MOLLUSCO
Il mare si prende la sua rivincita:
tempesta, flutti, schiuma.
Dalle oscure profondità
smeraldi vegetali fluttuano
strapazzati dalle correnti,
costretti a seguire i poseidonii capricci
in eterno…
Baluardo unico alle acque crudeli:
un antico mollusco
con il suo domestico fardello gravoso,
atavico timore delle onde
della schiuma
delle forze marine
nemiche…
*** CONTEST TERMINATO ***
I finalisti riceveranno un’e-mail da parte della redazione.
Vi ringraziamo per la partecipazione!
FINALISTI CONTEST:
SEZIONE A
“Dalla foto s’irradia e mi avvolge” di Marcello Comitini
“Non era niente” di Antonio Blunda
“Fuori nevica” di Manuela Orrù
“Il segnale per i parti delle locuste” di Milena Musu
“La culla vuota” di Giuseppina Carta
“Dolce fata” di Melissa Biasin
“Ode alla donna” di Antonio Stasolla
SEZIONE B
“Aspettando l’alba” di Luisella Grondona
“Obulaguzi” di Mattia Airoldi
“Le bolle di sapone” di Maria Carmela Dettori
“Sarà vera pace?” di Chiara Sardelli
“Fuori dal pentagramma” di Marcella Donagemma
“L’uomo e il suo cane” di Marco Mastromauro
“Le cicatrici del cigno” di Rita Coda Deiana
Complimenti a tutti i partecipanti!
Grazie!
Grazie per la selezione a finalista sez. B! Auguri a tutti i finalisti
Grazie!
Grazie
Infinitamente grazie di cuore. Auguri a tutti.
Grazie di cuore
Grazie, sono onorato di essere finalista
Grazie per essere stata selezionata!
Chiara Sardelli