“L’odio” di Heinrich Mann: la folla cerca un capro espiatorio?
Il libro “L’odio. Come il nazismo ha degradato l’intelligenza” scritto da Heinrich Mann, fratello del più famoso Thomas, fu originariamente pubblicato in Olanda nel 1933, anno dell’incendio del Reichstag, dopo la precipitosa fuga di Mann dalla Germania.
Il tema affrontato, disgraziatamente, è ancora attuale nell’Europa nel nostro secolo, segnata incredibilmente e di nuovo da guerre, terrorismo, populismi e nazionalismi.
«L’odio non solo come mezzo; ma come unica ragione di vita di un potente movimento popolare: è questa l’idea venuta in mente al “grande” Hitler […] Mai finora si era visto un popolo pieno di odio contro la propria gente, i piccoli, i deboli e i poveri, ma nel contempo anche contro gli isolati che si danno pensiero in suo favore e per senso di giustizia si pongono a fianco degli oppressi.» scrive Heinrich Mann in uno dei saggi finali del volume[1].
Per Mann, scrittore e saggista, l’odio è il sentimento che si trova alla base di tutta la narrazione di Hitler. Un odio primordiale, un odio che si scaglia, come abbiamo letto nella citazione, contro gli stessi cittadini tedeschi, i più deboli, senza tutele, quindi gli ebrei, i marxisti e i diversi in genere, ma anche contro gli intellettuali, almeno, coloro i quali non scendono a patti con il nuovo potere. Tutte categorie, queste citate, che fungono da nemico interno.
Come scriveva Renè Girard[2], il capro espiatorio può essere individuale o collettivo, ma, alla base, il meccanismo persecutorio rimane lo stesso. Nei periodi di crisi sociali acute la folla è quasi sempre alla ricerca di un capro espiatorio sul quale riversare l’odio.
Hitler individuò questo bisogno della folla in modo abbastanza istintivo, come ci fa capire Mann. L’odio non solo come mezzo ma come unica ragione di vita di un movimento popolare.
Chi meglio della comunità ebraica poteva essere additato come colpevole della crisi. Gli ebrei, come sempre nella storia, costituivano il capro espiatorio ideale e assieme a loro, tante altre categorie che, per vari motivi, non corrispondevano alla presunta “razza ariana”.
Il volume, che si compone di brevi saggi e di poche essenziali scene dialogate, si riferisce al 1933, il fatidico anno che segna la definitiva presa di potere del regime nazista, cogliendo dunque il particolare clima sociale e politico di quel periodo, che vide infine Mann, in quanto intellettuale antifascista, costretto all’esilio, come tanti altri, del resto.
Stupisce di questi scritti la particolare capacità di comprensione e di previsione dell’autore rispetto agli avvenimenti storici che stava vivendo.
Il breve saggio “L’odio” (Der Hass) funge da nucleo centrale dell’intero volume, in quanto esprime nel modo più diretto il clima socio-politico imperante, nel quale scomparve qualsiasi ancoraggio di ordine etico e morale, lasciando libera espressione alla violenza e alla sopraffazione, con riferimento, in particolare, alle orrende figure di Göring, Goebbels e Hitler stesso.
Ciò che nota l’autore è una sorta di ingenuità politica da parte dei repubblicani,[3] che portò a sottovalutare la natura profondamente antidemocratica e immorale dei nazisti, non prevedendo quindi le successive involuzioni che il crescente odio instillato dai nazisti nel popolo tedesco produsse. Un odio vero, selvaggio, incommensurabile.
Invece, nel breve saggio intitolato “Il grand’Uomo”,[4] Mann ricorda come: «persino in tempi di pace, talvolta, singolari esplosioni di odio hanno scosso l’Austria.[5] Una delle più note è stato il movimento antisemita, che divampò intorno al 1900. Anch’esso era già pervaso delle medesime insensate pretese e vacue dichiarazioni che dovevano poi pienamente prender piede più tardi, e in condizioni favorevoli, in Germania.»
Molto interessante, nello stesso saggio, anche l’analisi caratteriologica del dittatore austriaco fatta da parte di diversi medici, senza che questi abbiano potuto esprimerlo in modo pubblico, chiaramente. I medici parlavano di una grave mania di persecuzione che affliggeva “Il grand’uomo”.
Stupisce, tuttavia, come quest’uomo, con la sua oratoria, sapesse toccare le corde più profonde dell’animo del cittadino tedesco di quel periodo. Un’ulteriore caratteristica della struttura mentale del “grand’uomo”, ben delineata da Mann, è che egli non distinguesse affatto tra idee e persone. Mettendo dietro le sbarre le persone, se non peggio, allora si convinceva di aver eliminato anche le idee. Anche questa ritengo che sia una costante che si ritrova più o meno in tutti dittatori, passati, presenti e futuri.
Heinrich Mann dedica poi un altro breve e interessante saggio[6] alla sgraziata quanto crudele figura di Göring, secondo per importanza solo a Hitler, del quale svela la dipendenza dalla morfina.
Scrive l’autore: «Ammazzare ebrei, spedire in campi di concentramento socialisti e farli poi colpire “durante la fuga”, torturare lavoratori intellettuali, ben noti all’estero, dentro le carceri, se non hanno abbandonato a tempo il paese; mantenere in condizioni di terrore una parte della popolazione e scatenare l’altra in modo bestiale; per potere svolgere appuntino un tale compito, occorre certo la morfina.»
Parlare di un carattere profetico di questi testi di Mann non è affatto esagerato. Egli, infatti, afferma, nell’ulteriore breve saggio “La guerra sicura”, in modo abbastanza perentorio, che se un regime ha come base l’odio, quel regime è destinato allora ad aggredire anche il mondo.
La dittatura hitleriana è comprensibile unicamente in funzione della guerra. In fondo le persecuzioni delle minoranze, di tutti coloro che non si adeguano al nuovo potere, vanno viste in quest’ottica, cioè come la neutralizzazione dei nemici interni, i potenziali alleati di domani del nemico esterno.
Scrive ancora Mann che la sconfitta subita dalla Germania nella Prima guerra mondiale sia stata così mal digerita dai nazional-socialisti da dover essere vendicata. Tutto ciò non vi ricorda niente di attuale rispetto a quel che sta accadendo in Europa oggi?
Nell’ultimo saggio della raccolta “L’intelligenza degradata”, l’autore prende in esame l’accanimento con il quale i nazisti perseguitavano in modo metodico gli scrittori e gli intellettuali in generale, facendo riferimento in particolar modo a Hinkel, uno dei commissari tedeschi messi da Hitler a sovrintendere le istituzioni culturali, colui che inventò il termine “bestia intellettuale” per designarli. Ricorda, tra l’altro, il vergognoso evento in cui i nazisti bruciarono in piazza i libri, sia di scrittori viventi che opere classiche.
Heinrich Mann conclude il suo volume ricordando come lo stato razzista abbia tolto di mezzo la libertà, nell’ambito intellettuale come ovunque, motivo per cui agli intellettuali non asserviti al potere dei nazisti, come lo stesso Mann, non rimaneva che abbandonare la Germania per continuare a operare in libertà di espressione.
Sono veramente soddisfatto di avere “incontrato” un intellettuale intelligente e illuminato come Heinrich Mann che, prima di leggere questo libro, non conoscevo per nulla.
Written by Algo Ferrari
Note
[1] “Anche questa è una rivoluzione.”
[2] Renè Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, 2020.
[3] La Repubblica di Weimar cadrà definitivamente nel 1933.
[4] Pur senza nominarlo espressamente, è chiaro il riferimento a Hitler.
[5] Paese d’origine di Hitler.
[6] “Tremori e sudori in Göring”.
Bibliografia
Heinrich Mann, L’odio. Come il nazismo ha degradato l’intelligenza, L’orma editore, 2024