“Simone Weil” di Michela Nacci: impegnata in politica o mistica?
Simone Weil, «una ragazza che tiene testa a Trockij!»[1].

Davvero una bella idea quella della Carocci di creare una serie editoriale volta a valorizzare la ricchezza e l’originalità dell’apporto femminile al pensiero filosofico e politico dal ‘700 ad oggi. Benvenuta, dunque, questa terza uscita dedicata a Simone Weil di Michela Nacci, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università degli Studi di Firenze.
Ricordo che il critico letterario e saggista Alfonso Berardinelli, tempo fa, aveva addirittura definito Simone Weil come il più grande filosofo del ‘900, scandalizzando i più, soprattutto tra gli accademici maggiormente conformisti e conservatori, i quali rimproverano a Weil, più che altro, di non avere sviluppato trattati sistematici. Si può dire che questi accademici non avessero colto appieno quanto la grandezza di Weil stia proprio nella sua capacità di calarsi nelle contraddizioni e nelle aporie teoretiche, senza timori o infingimenti di sorta.
Un’altra grande lettrice ed estimatrice della Weil fu Elsa Morante, la quale disse addirittura che quella lettura aveva cambiato la sua vita.
Michela Nacci in questo suo breve excursus ci rimanda la complessità e originalità del pensiero di Weil. Non è per nulla semplice inquadrare il suo pensiero all’interno di un’ideologia o di una precisa weltanshauung codificata, strutturata e definitiva.
Il primo bisogno di Weil, infatti, è sempre stato quello della ricerca della verità, non intesa come una verità ultima e incontrovertibile, ma come un agire, un ricercare in spirito di verità, vale a dire avendo sempre la verità come scopo.
Simone Weil non ha mai avuto timore di cadere in contraddizione nell’evolversi delle sue esperienze di vita e della sua elaborazione teoretica, aspetti, quest’ultimi, in lei sempre collegati. Esistono, tuttavia, anche alcuni punti fermi nel suo pensiero: il suo antifascismo e la contrarietà a ogni tipo di totalitarismo, lo stare sempre dalla parte degli oppressi e il suo femminismo sans le dire, come lo chiama Michela Nacci.
Per Weil tutti i rapporti umani che esistono al mondo sono composti da potere e sottomissione, tanto che per questo suo modo di pensare rifiuterà di vivere esperienze amorose o sentimentali. Non a caso Cèlestin Bouglé, direttore della Ècole normale supérieure che lei frequentò, la soprannominò, non senza cattiveria: “vergine rossa”.
Weil, afflitta da una grave miopia e da frequenti emicranie, era considerata una donna strana, anomala rispetto al modello femminile allora prevalente, ma con un carattere forte e deciso.
Una che, scrive Nacci, nei giorni del Natale 1933, ebbe una discussione molto accesa con Lev Trockij, ospite a casa sua, tanto che uno di coloro che vi assisterono commentò: «una ragazza che tiene testa a Trockij!».
D’altra parte, Simone Weil rifiuterà sempre il ruolo subordinato a cui le donne erano relegate, adottando comportamenti e amicizie in piena libertà e indipendenza.
Simone Weil suscitò anche l’interesse di George Bataille, del quale Nacci riporta la descrizione che ne fece, direi non proprio lusinghiera, riprendendo il termine “vergine”:
«Era una ragazza di venticinque anni, brutta e visibilmente sporca […]. Era strana, anche abbastanza ridicola. Era difficile spiegare l’interesse che provavo per lei. Bisognava supporre un disturbo mentale. […] Aveva abiti neri, mal tagliati e macchiati. Senza cappello, i capelli corti, ispidi e mal pettinati erano come ali di corvo da ogni parte del volto. […] Ciò che mi interessava di più era l’avidità malsana che la spingeva a dare la vita e il sangue per la causa dei diseredati. Riflettevo: sarebbe stato il sangue povero di una vergine sporca (Bataille, 1957, pp. 36-38).»[2]
Simone Weil si avvicinò alla sinistra rivoluzionaria, non tenendo però in grande considerazione i partiti, a partire da quello comunista, sia per le loro posizioni ideologiche sia, soprattutto, per la loro tendenza alla burocratizzazione, mentre credeva fortemente nel ruolo rivoluzionario che il sindacato poteva rivestire. Nacci richiama una possibile influenza di George Sorel sul suo modo di vivere l’esperienza del lavoro e il rapporto con i partiti della sinistra.
Weil criticava il capitalismo ma anche il produttivismo sovietico in quanto questi vorrebbe copiare quello americano (giudicato chiaramente in modo negativo anche quest’ultimo).
Weil rivolgeva critiche pesanti anche al Partito Comunista Tedesco, in primis per il rifiuto dei comunisti a formare un fronte unico contro il nascente nazismo, fino a stabilire con esso perfino sporadiche alleanze, inoltre alimentando l’odio per i socialdemocratici, definiti “socialfascisti”.
Weil accusava poi questo partito per un apparato occupato più che altro a lanciare scomuniche ai cosiddetti “deviazionisti”, ubbidendo a Mosca, ma incapace di dirigere il proletariato nelle sue lotte. Inevitabile quindi che Weil venisse a sua volta attaccata dai comunisti.
È interessante notare come le stesse critiche della Weil fossero state portate ai comunisti tedeschi anche da Heinrich Mann, come possiamo leggere nel suo libro “L’odio”, scritto nel 1933 e recentemente ripubblicato.

Weil strinse amicizia anche con Souvarine, autore di “Staline”, il primo a criticare lo stalinismo da posizioni di sinistra e come lei attivo fra gruppi e riviste rivoluzionarie.
Nella sua denuncia alla macchina burocratica che: «tende per la sua stessa struttura alla totalità dei poteri»[3], Weil affermava che l’individuo doveva essere difeso rispetto alla collettività. Questo tema diverrà sempre più ricorrente nel suo pensiero.
Weil studiò e approfondì la conoscenza del marxismo, che apprezzò, ma che nello stesso tempo criticò fortemente, a partire dal suo carattere dogmatico.
Per conoscere meglio il lavoro operaio Weil decise di andare a lavorare in fabbrica. Per fare esperienza in modo diretto. Come scrive Nacci, sarà per lei un’esperienza devastante, che determinò in lei una sofferenza concreta e duratura. Per Weil, la fabbrica rappresenta tre cose: innanzitutto il passaggio dall’astratto al concreto, secondariamente l’esperienza diretta della gerarchia e per ultima la sperimentazione dell’inumano, della degradazione fisica e morale.
Gli ultimi anni di vita di Simone Weil saranno caratterizzati anche da un’intensa ricerca spirituale. Ciò non toglie che nel 1936 decise di partire volontaria per unirsi ai repubblicani nella guerra civile scoppiata in Spagna, anche se un banale incidente la farà rientrare poco dopo a casa. Passò poi dal pacifismo assoluto all’appoggio a un intervento armato contro la Germania nel momento in cui la Germania dichiarò guerra alla Francia.
Nelle sue riflessioni spirituali Weil affermerà di avere sempre adottato uno spirito cristiano, nell’affrontare i temi del lavoro, la difesa dell’individualità di fronte a ogni tipo di collettivo e la solidarietà con gli ultimi.
Come spiega però la Nacci, ciò non muterà mai l’iniziativa di Weil in ambito politico e non la porterà mai ad aderire alla Chiesa, in quanto giudicato da lei come un collettivo tendente a schiacciare la persona.
Written by Algo Ferrari
Note
[1] Pètrement S. (1994), La vita di Simone Weil, p.253, Adelphi, Milano
[2] Bataille G. (1957), Le bleu du ciel, Pauvert, p.36-38, Paris
[3] Weil S., (1984), Simon Weil avant Simon Weil. Fragments inédits ed ecrits militants 1927-1934, Cleup, (PD).
Info
Leggi la recensione de “L’odio” di Heinrich Mann