Pietro Piffetti: la meravigliosa arte dell’ebanista sabaudo

Nel Settecento, mentre molte città italiane sulla meravigliosa onda dei secoli precedenti coltivano la bellezza dell’arte in tutti i suoi aspetti come manifestazione di potere e prosperità, contendendosi i migliori pittori e scultori ‒ pensiamo a Roma, a Firenze, a Milano, a Napoli, a Genova e a Venezia ‒ Torino e il Piemonte vengono considerati dai critici d’arte una realtà periferica, incapace di gusto e originalità.

Pietro Piffetti Paliotto
Pietro Piffetti Paliotto

Colpa della grigia corte dei Savoia, promossi da duchi a re con la pace di Utrech del 1713, impegnati in giochi politici pericolosi, con le casse spesso vuote per finanziare le guerre, che li vedevano coinvolti con e contro i grandi stati europei.

Tuttavia Carlo Emanuele III, che muore nel 1773, non solo modernizza l’esercito, ma si occupa anche dell’urbanistica, rendendo Torino una vera capitale europea, una piccola Parigi. Se la loro corte non è molto raffinata, i Savoia valorizzano un’ebanisteria elegante, arte considerata allora poco più che artigianato, e ne fanno uno dei vanti del regno, tanto che opere lignee dei mobilieri piemontesi vengono donate alle corti europee come simbolo di un’eccellenza del regno.

Pietro Piffetti nasce a Torino nel 1701 e, a trent’anni, per la sua abilità è nominato primo ebanista di corte, un ruolo esclusivo che gli impedisce di svolgere lavori per altri committenti senza l’autorizzazione reale. Nel corso degli anni molte delle sue opere di arredamento sono state spostate a Roma dopo il trasferimento della capitale, altre sono diventate proprietà di gallerie, collezionisti e ricchi amatori.

Nel 1879 è stata portata a Roma la sontuosa biblioteca che adornava Villa della Regina, splendida dimora dei Savoia tra i vigneti della collina torinese; l’opera venne adattata a una delle camere della regina Margherita, consorte di Umberto I. La regina era un personaggio molto popolare. Il Carducci le dedicò l’ode, ruffiana ma forse sincera, ‘Alla regina d’Italia’: “[…] fulgida e bionda ne l’adamàntina/ luce del serto tu passi, e il popolo/ superbo di te si compiace/ qual di figlia che vada a l’altare; […].” Più prosaicamente il cuoco napoletano Raffaele Esposito sfornò per lei la popolarissima pizza tricolore, che ancora oggi porta il suo nome: Pizza Margherita.

La biblioteca dalla struttura in pioppo è rivestita di palissandro, ulivo, bosso e tasso, impreziosita da intarsi in avorio. Attualmente è al Quirinale e conserva libri di fine Ottocento, molti contrassegnati con lo stemma sabaudo e appartenuti proprio alla regina Margherita.

Nel 2018 una scrivania realizzata dal Piffetti, trafugata dopo l’ultima guerra mondiale in Francia, in Svizzera e infine negli Stati Uniti, dove fu esposta al Metropolitan Museum di New York, è stata recuperata dal Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri. Il valore dell’opera è stato stimato in due milioni di euro.

A Torino opere del Piffetti possono essere ammirate al Museo Civico di Palazzo Madama, nella Palazzina di caccia di Stupinigi e al Museo Accorsi-Ometto.

Al Museo Accorsi-Ometto si può ammirare quello che da molti è ritenuto ‘il mobile più bello del mondo’. Si tratta di un’opera di uno sfarzo che lascia senza parole: un mobile doppio corpo, firmato dal Piffetti e datato 1738. Alto più di tre metri, arricchito da intarsi in avorio e tartaruga, riporta con fedeltà scene riprodotte in famose incisioni del periodo, con particolare riferimento agli affreschi di Pietro Berrettini, più noto come Pietro da Cortona, a Palazzo Pitti. Il mobile, realizzato per un matrimonio, sviluppa il tema della dicotomia uomo/donna, Sole/Luna, Apollo/Diana. Davvero una bellezza unica, anche se non troppo funzionale.

Lavorando per i Savoia, Piffetti ha poche occasioni di confrontarsi con l’arte sacra, ma quando lo fa, il risultato lascia estasiati.

Nel 1749 realizza per la congregazione dei Padri Filippini uno splendido paliotto. Il paliotto, in parole molto povere per chi non lo sapesse, è un rivestimento destinato ad abbellire l’altare maggiore nelle celebrazioni solenni, in particolare la Pasqua, la Pentecoste ecc

Il Piffetti crea il suo capolavoro per la chiesa di San Filippo Neri a Torino; per chi volesse visitarla, è situata in via Maria Vittoria a meno di cento metri dal Museo Egizio.

Mi sia consentito qualche cenno sulla travagliata storia della costruzione della chiesa, durata più di duecento anni. San Filippo Neri è il più grande edificio sacro di Torino.

Gli oratoriani, la congregazione formatasi a Roma intorno a Filippo Romolo Neri, nato a Firenze nel 1515, spesso ricordato come ‘il santo della gioia’, ‘Pippo il buono’ e per come esortava i suoi allievi più vivaci: “State bboni, se potete!”, a Torino già avevano una loro chiesa dedicata a sant’Ignazio, ma ne desideravano una più centrale e rappresentativa. Ottenuto dal duca Carlo Emanuele II il terreno per l’edificazione, i lavori iniziarono nel 1675. Il superbo progetto dell’architetto Antonio Bettino fu ripreso e continuato da altri, tra cui Guarino Guarini; poco dopo il 1700 venne edificato l’altare maggiore. La cupola, quasi finita, venne danneggiata da un bombardamento francese nel 1706, durante l’assedio che vide il sacrificio di Pietro Micca e, dopo la vittoria, l’edificazione a ringraziamento del Santuario della Madonna delle Grazie sulla collina di Superga.

Nel 1714, forse per i danni subiti o per le fondamenta non sufficientemente solide, dopo un lungo periodo di piogge la grande cupola collassò rovinosamente. A salvare il salvabile fu chiamato Filippo Juvarra che, benché oberato di incarichi, disegnò un nuovo imponente progetto, eliminando completamente la troppo impegnativa cupola centrale. La costruzione si protrasse, tra ripetute pause legate a problemi finanziari e crisi, fino agli anni burrascosi della Rivoluzione francese e dell’impero napoleonico. Sulla facciata dell’adiacente Oratorio, è ancora possibile vedere conficcata una palla di cannone sparata dagli austriaci durante l’assedio del 1799, dopo che la città era stata abbandonata da Carlo Emanuele IV in fuga dai giacobini francesi. I lavori riprendono con la restaurazione e, un pezzo dopo l’altro, sono considerati finalmente terminati nel 1891.

Durante la Seconda guerra mondiale la chiesa viene ferita da bombardamenti aerei nel luglio del 1943, subendo danni al tetto e agli infissi.

Per curiosità, siccome è un errore comune che fanno i visitatori, nella pala dell’altare maggiore è raffigurato sant’Ignazio e non san Filippo Neri che, invece, è al centro del paliotto realizzato dal Piffetti.

Al centro del paoliotto, san Filippo Neri è mostrato nelle catacombe di san Sebastiano, dove era solito recarsi a pregare, nell’episodio in cui, durante la Pentecoste del 1544, lo Spirito Santo, simile a una sfera infocata, entrò nel suo corpo dalla bocca raggiungendo il cuore, che si dilatò, gonfiando la cassa toracica verso l’esterno. La frattura di alcune costole è stata confermata nel 2022 dagli esami effettuati sul corpo del santo, le cui spoglie sono conservate a Santa Maria in Vallicella a Roma.

La scena raffigurata ha delle discrepanze rispetto all’episodio come è narrato dalle cronache del periodo e sembra fondere insieme il racconto dell’estasi di san Filippo, dove nessuno cita ad esempio la presenza di angeli a sostenerlo, con quella più famosa di san Francesco.

A destra nel paliotto ammiriamo uno splendido Mosè con le corna e le tavole della legge, a sinistra un personaggio che è stato a lungo ritenuto Aronne, fratello di Mosè, ma più probabilmente si tratta di papa Gregorio Magno. In alto, nei cartigli sorretti da nudi angioletti, il battesimo di Gesù e l’evangelista Giovanni; al centro, davanti al tabernacolo, un pellicano che nutre i propri figli, così si credeva facesse, con il proprio sangue, simbolo del Cristo che si sacrifica e versa il sangue sulla croce per redimere l’umanità. Completano il paliotto un crocifisso in legno e avorio scolpito, con un decorato rivestimento superiore.

Il capolavoro è realizzato in legni diversi, intarsiati magistralmente senza uso di colle, con madreperla, pietre preziose, diaspro, tartaruga e avorio.

Conservata dal 2010 al Museo Internazionale delle Arti Applicate Oggi (MIAAO), che ha sede presso uno dei chioschi della chiesa, l’opera è stata restaurata nel 2019 ed esposta alla Venaria Reale, per poi essere restituita alla congregazione degli oratoriani. Nei primi gelidi giorni del 2025, ho avuto l’occasione di ammirarla fuori dalla sua teca presso la sagrestia della chiesa di San Filippo Neri.

Nel sito Paliotto Piffetti, a cura dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare di Legnaro, è possibile apprezzare in immagini ad alta risoluzione la bellezza unica di questo manufatto, con un dettaglio tecnicamente perfetto anche al massimo ingrandimento.

 

Written by Marco Salvario

 

Info

Visita il sito Paliotto Piffetti

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *