“Self Portrait” album di Bob Dylan: uno, nessuno e centomila?

All the tired horses in the sun/ How ‘m I suppos’d to get any ridin’ done?” – Bob Dylan

Self Portrait album di Bob Dylan
Self Portrait album di Bob Dylan

Self Portrait è uno dei capitoli più controversi della biografia artistica di Bob Dylan. È rimasto famoso l’incipit della recensione che al disco dedicò il noto critico di musica rock Greil Marcus, in altre occasioni acceso sostenitore del cantautore: “Cos’è ‘sta merda?”. Dylan fu accusato di giocare deliberatamente ad alienarsi il suo pubblico, e rispose dicendo che la Storia avrebbe dimostrato l’importanza delle sue sperimentazioni.

Cos’era l’oggetto di tanta querelle?

Dopo l’incidente del 1966 e quasi due anni di silenzio discografico (durante i quali in realtà aveva scritto e inciso con la Band un’infinità di canzoni confluite poi in The Basement Tapes e vari bootlegs) Dylan era “tornato” con l’album John Wesley Harding, un disco molto diverso dai precedenti ma accolto assai favorevolmente, e poi con Nashville Skyline, in cui il deciso avvicinamento a un certo tipo di musica country aveva lasciato perplessi i critici, ottenendo d’altro canto un gran successo di vendite.

Self Portrait, uscito l’8 giugno del 1970, era un LP doppio, dove però su 24 tracce solo 14 erano canzoni di Dylan, di cui 10 nuove (ma solamente 5 potevano definirsi propriamente “canzoni”, come vedremo) e altre 4 registrate live dalla disastrosa esibizione con la Band al Festival dell’Isola di Wight dell’agosto del 1969.

A questo album – unanimemente stroncato e tuttora considerato uno dei momenti più bassi della produzione dylaniana – sono state date molte possibili giustificazioni: un momento di crisi creativa (ma Dylan aveva comunque sfornato due dischi di materiale originale in due anni e mezzo, e solo quattro mesi dopo sarebbe uscito il bel New Morning), un accesso di autolesionismo, oppure la pura e semplice voglia di distruggere il proprio mito.

Queste ultime due tesi hanno sicuramente una base di verità: se da un lato Dylan è una delle persone più schiave dei propri umori (talvolta autolesionistici) di questa terra, dall’altro ha sempre avuto un pessimo rapporto con la fama intesa come glamour e soprattutto come museificazione (indicativo il suo snobbare la cerimonia di consegna del Premio Nobel assegnatogli nel 2016).

Chi scrive vorrebbe però proporre un’altra tesi: fermo restando che Self Portrait non è un bel disco, ma se si fosse effettivamente trattato di un esperimento? Magari non del tutto riuscito, ma comunque un tentativo di concept album più interessante di quanto appaia in superficie?

Il titolo, innanzitutto: è stato visto come ironico, o addirittura irriverente nei confronti del pubblico, ma potrebbe in realtà essere fondamentalmente sincero. In questo disco Dylan presenta soprattutto delle cover, ma forse era un modo di omaggiare la propria storia musicale, le proprie radici, come più di vent’anni dopo inizierà a fare con Good As I Been to You, proseguendo fino agli anni recenti con l’assurdo album di canzoni natalizie Christmas in the Heart e la trilogia dedicata al repertorio di Frank Sinatra e all’American Songbook.

In ogni caso, a un ascolto obiettivo a tanti anni di distanza direi che fra le cover di Self Portrait ci sono dei piccoli gioielli, soprattutto lì dove l’uso della voce da parte di Dylan rivela un filtro sottilmente ironico nell’approccio a queste canzoni (I Forgot More Than You’ll Ever Know About Blues; Early Mornin’ Rain: fate caso a come Dylan attacca i primi due versi della terza strofa!; Let It Be Me), come pure ci sono dei momenti veramente bassi, forse perché lo stesso filtro ironico non ha funzionato (ad esempio in The Boxer).

Una buona fede di fondo, insomma, in cui si insinua quel che di maldestro e di non finito che spesso ha accompagnato Dylan nei suoi progetti più grandiosi (il film Renaldo & Clara ne è il maggior esempio). Dylan è un artista geniale soprattutto nell’estemporaneità, ma l’estemporaneità, si sa, comporta molti rischi, a cui del resto il cantautore non si è mai sottratto.

Quella che sicuramente non sembra improvvisata è la struttura dell’album: quattro facciate (nell’LP originale) con sei canzoni ciascuna; al di là dell’“introduzione”, la prima e l’ultima traccia sono due versioni della stessa canzone.

L’introduzione è costituita da All the Tired Horses, certo un brano non bello. Un coro femminile, accompagnato da chitarra, organo e archi (con tanto di pizzicati e tremoli), ripete i versi: “All the tired horses in the sun/ How ‘m I suppos’d to get any ridin’ done?”[1]

L’assonanza fra ridin’ (cavalcare) e writin’ (scrivere) ha fatto pensare a molti a una dichiarazione di crisi creativa: “come potrò più scrivere?”. Ma la cosa più evidente (e importante) è che Dylan non canta in questo pezzo d’apertura. L’“autoritratto” comincia quindi in absentia, e la prima facciata del disco prosegue in maniera altrettanto programmatica: la prima canzone che Dylan canta, Alberta#1, è una sorta di “prima lettura” registrata (che inizia con rumori di fondo nello studio di registrazione, esattamente come accadrà più di 25 anni dopo in Time Out of Mind), un non finito un po’ sciatto che troverà il proprio compimento nell’ultima traccia del disco: la perfettamente confezionata Alberta#2.

Poi iniziano le cover: le due citate I Forgot More… e Early Mornin’ Rain, seguite da una grintosa Days of 49 (l’unica canzone dell’intero album in cui la voce e il modo di cantare di Dylan sono vicini a quelli pre-incidente – la canzone è una ballata del periodo della “febbre dell’oro”).

Già solo a questo punto si potrebbe intuire che Dylan non vuole essere uno, rivendica il suo non essere univocamente né quello di Freewheelin’, né quello di Blonde on Blonde, e neanche quello di John Wesley Harding, proprio nel momento stesso in cui si mette in un certo senso a nudo spacciandoci tanto le sue (all’epoca inimmaginabili) “canzoni preferite”, quanto il brano sinfonico iniziale quale possibile sogno nel cassetto. E anche un autoritratto vero e proprio in copertina, rendendoci edotti di una sua passione pittorica fino ad allora rimasta strettamente privata: all’epoca con un tocco un po’ goffamente ispirato a Chaïm Soutine, ma negli anni Dylan-pittore si evolverà fino a ricevere una consacrazione ufficiale a partire dalla seconda metà degli anni Duemila.[2]

Tornando a Self Portrait, si direbbe quindi che l’album giochi sull’ambiguità del Let It Be Me o del Take Me As I Am (or let me go),[3] non a caso due delle cover incluse nel disco stesso, la cui prima facciata si conclude con In Search of Little Sadie. È strano che (quasi) nessuno si sia accorto di come questo “abbozzo”, dichiarato tale dal titolo stesso, sia la rappresentazione dell’elaborazione progressiva di una canzone. I giri armonici assurdi sono in realtà tentativi di trovare quella che poi, sull’altra facciata del vinile, sarà la versione definitiva della canzone. Può non piacere, ma è interessante – e unica – l’idea di rappresentare una canzone nel suo farsi.
Se prendiamo allora in esame le aperture e conclusioni delle quattro facciate del disco avremo: 1 All Tired Horses seguita da Alberta#1, e alla fine In Search of Little Sadie; 2 Let It Be Me e la versione dal vivo di Like a Rolling Stone, di cui diremo; 3 Copper Kettle, e Take Me As I Am; 4 Take a Message to Mary e la versione “definitiva” di Alberta a concludere l’album.

La traccia di Like a Rolling Stone è in assoluto la prima registrazione live pubblicata ufficialmente da Dylan. Perché proprio quella, viene da domandarsi: tratta da un concerto non proprio fortunato, sgangherata, un bel po’ stonata e accolta da sonori fischi alla fine dell’esecuzione?

Forse a Dylan pubblicare questo incidente, in questo contesto, serviva proprio ad (auto)distruggere il ricordo del Dylan-rocker di prima, così come in fondo accade anche con Copper Kettle – con buona pace di Rinzler e Heylin che amano tanto questa versione[4] – rispetto al Dylan-folksinger, grazie a un arrangiamento veramente pacchiano di questa splendida ballata. Quanto a Take a Message to Mary, a mio modestissimo parere è la cosa meno dylaniana in assoluto che Dylan avesse mai inciso fino ad allora.

Tra tutti questi eccessi, tra un Dylan-crooner e un Dylan riveduto e corrotto da Dylan stesso, tra un Dylan “sinfonico” e uno che si avventura in campi non suoi, c’è il Dylan vero. Tutto sta a trovarlo.

Oppure Dylan è tutte queste cose, e risponde alla sua supposta crisi creativa mostrandocele come in un caleidoscopio. Nel disco c’è anche una versione di Blue Moon con “violino obbligato” che all’epoca scatenò le ire di non pochi ascoltatori (la rivista “Record World” scrisse a proposito dell’album: «La rivoluzione è finita. Dylan sta cantando Blue Moon a Mr. Jones»). Eppure – al di là della riuscita o meno della traccia di Self Portrait – è interessante notare che, trent’anni dopo, in Love and Theft (disco osannato e di grandissimo successo di pubblico), Dylan citerà Blue Moon nell’incipit melodico di Bye and Bye (un’anticipazione delle cover dall’American Songbook a venire), e che il violino diventerà uno strumento consueto del Never Ending Tour.

La vera “presa in giro dell’acquirente”, semmai, è in Woogie Boogie, di una banalità sconcertante. O in Belle Isle o Living the Blues – per rimanere agli originali dylaniani del disco – deliberatamente mediocri nella loro realizzazione. Ma ci sono anche un paio di cose piuttosto notevoli: It Hurts Me Too, per esempio, e Wigwam.

Wigwam è un pezzo che può piacere moltissimo o suscitare orrore: un tentativo di mexblues, per così dire, che probabilmente all’epoca – al punto del disco in cui è collocato – avrà fatto pensare a molti ascoltatori che Dylan fosse completamente impazzito. Eppure oggi possiamo capire che presagiva Pat Garrett & Billy the Kid (del 1973), o certi altri accostamenti alla musica texmex, fatti da Dylan negli anni successivi, che all’epoca sarebbero sembrati impensabili (come del resto era stato impensabile l’abboccamento col country di Nashville Skyline).[5]

Bob Dylan citazioni
Bob Dylan citazioni

Ma, alla fin fine, com’è questo disco?

Certo non è un bel disco, e sicuramente non una delle cose meglio riuscite della produzione dylaniana. I pezzi che lasciano veramente il segno si contano sulla punta delle dita di una mano (a essere buoni). Ma, dando credito a ciò che Dylan stesso dichiarò all’epoca – anche se, come sempre, non sarebbero mancate negli anni successivi dichiarazioni di segno opposto – e cioè che si trattasse di un esperimento, una buona metà dell’album acquista improvvisamente un senso al di là del risultato.[6]

Nel 1967 i Beatles avevano pubblicato Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, un disco che a quanto si dice aveva irritato Dylan, il quale contraccambiò l’essere stato incluso fra i personaggi in copertina celando i volti dei Fab Four nella foto di John Wesley Harding. Nel 1968 uscì The White Album, controverso esperimento dei Beatles. Forse Self Portrait è anche un’altra risposta al quartetto di Liverpool, un concept album azzardato e non del tutto riuscito (come, secondo alcuni, The White Album).

Se vogliamo azzardare anche noi, ricorderei che Otto e mezzo di Fellini era uscito pochi anni prima, nel 1963. E Dylan – si sa – ha sempre amato molto andare al cinema.

 

Written by Sandro Naglia

 

Note

[1] “Tutti i cavalli stanchi al sole/ Come potrò più cavalcare?”

[2] Con una mostra al Kunstsammlungen Museum di Chemnitz, in Germania, nel 2007, seguita dalla collaborazione con la Halcyon Gallery di Londra; nel 2013 ha anche avuto luogo una sua personale a Palazzo Reale a Milano curata da Francesco Bonami.

[3] “Lascia che sia io”; “Prendimi come sono (o lasciami andare)”. Let it be me è in realtà una cover in inglese di Je t’appartiens di Gilbert Bécaud, incisa nel 1960 dagli Everly Brothers in un singolo di grande successo.

[4] Alan Rinzler: Bob Dylan: The Illustrated Record, New York, Harmony Books, 1978 (tr. it.: Bob Dylan: profeta, poeta, musicista e mito, Milano, Sonzogno, 1980); Clinton Heylin: Dylan Behind the Shades, London, Penguin, 1991 (tr. it.: Jokerman, Firenze, Tarab, 1996).

[5] Nel 2001 Wigwam sarebbe stata inclusa nella colonna sonora de I Tenenbaum di Wes Anderson. Curiosamente, nello stesso anno All the Tired Horses fu a sua volta inserita nel film Blow di Ted Demme.

[6] Nel 2013 la Columbia Records ha pubblicato alcuni inediti e versioni alternative dalle sedute di registrazione di questo album in The Bootleg Series Vol. 10 – Another Self Portrait (1967-1971).

 

Info

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