Il dio degli impiccati: la leggenda vichinga sul sacrificio di Odino
“Un nono ne conosco: se avessi necessità di salvare la nave nella tempesta, saprei placare i venti che spazzano i flutti, addormentare la distesa del mare.” ‒ “Il dio degli impiccati”
Nella prima leggenda esaminata “La cattura di Loki” si è parlato di quanto sia controverso l’etimo del termine “vichingo”, si passa infatti da “mercato” a “corsaro che sta lontano dalla patria”. Inoltre questi popoli del Nord ebbero anche diversi appellativi, ogni popolazione con cui venivano a contatto li identificava con una parola diversa: normanni, vichinghi, ascomanni, gente del nord, uomini con i remi, demoni pagani (da madjius, arabo).
Certamente seminarono il panico in Europa e nel Mediterraneo: dal 780 ad oltre il 1000 d.C. le tribù danesi, norvegesi e svedesi simboleggiavano sia le scorrerie nei mari sia un ricco pantheon di divinità antiche.
“Il dio degli impiccati”, ad esempio, racconta di Odino, personificazione del sacro. Menzionato con vari appellativi come Padre del tutto (degli dèi e degli uomini), il Monocolo, il Molto Saggio, il Terribile ed anche il dio degli impiccati. Ogni nome richiama un mito nel quale Odino si adoperò per raggiungere la saggezza.
Qui si nota una differenza sostanziale con Zeus, il padre degli dèi dell’Olimpo, i cui miti raccontano maggiormente delle passioni amorose. Ogni impresa di Odino è raccontata in modo enigmatico, in questa leggenda tramandata nell’Hávamál[1] si racconta dell’estremo sacrificio per riuscire a diventare padrone della sapienza magica ed occulta.
“Il dio degli impiccati”
“Tra gli dèi, Odino era il più sapiente, una supremazia pagata a caro prezzo. Se per bere alla fonte del saggio Mimir[2] aveva lasciato in pegno un occhio, per acquisire l’occulta conoscenza dei morti e poi riportarla nel mondo dei vivi, il Padre di Tutto aveva addirittura immolato se stesso.
Si era così meritato, oltre al titolo di Signore della Sapienza, anche quello di Dio degli impiccati. Nessuno era stato testimone del supremo sacrificio, e Odino lo ricordava così:
«Io so che fui appeso al grande tronco esposto ai venti, nove notti intere, ferito di lancia e immolato a Odino, io stesso sacrificato a me stesso. Nessuno sa da quali radici nasca l’albero antico!
Non uno mi diede il conforto di un pezzo di pane, non uno mi porse un corno d’acqua per bere, mentre scrutavo i mondi al di sotto e raccoglievo le rune. Le trassi a me gemendo, poi ricaddi al suolo.
Nove canti possenti appresi dal famoso figlio di Bolthor[3], padre di Bestla[4]; bevvi un sorso del prezioso idromele dal calderone Odrorir[5].
Allora cominciai a prosperare e a guadagnare in saggezza, a crescere e a sentirmi in forze. Da una parola ricavai molte parole; da un’opera giunsi a molte altre.
Io conosco magici canti che non conosce nessuna sposa di re Né alcun figlio d’uomo. Il primo si chiama Aiuto: ti soccorrerà nel dolore e nella calamità, allevierà la tua pena.
Un altro ne conosco, utile agli uomini che vogliono farsi guaritori.
Un terzo ne conosco: se avessi estremo bisogno di difendermi saprei smussare la lama nel pugno del nemico, ammorbidirne il randello. Così l’avversario non potrebbe ferirmi.
Un quarto ne conosco: se qualcuno imponesse vincoli alle mie membra, appena lo cantassi, salterebbero i ceppi che mi impastoiano i piedi, si scioglierebbero i lacci che mi avvincono le mani.
Un quinto ne conosco: se qualcuno pensasse di nuocermi con radici di un albero verde incise di rune, quell’uomo, pieno d’ira, sarebbe roso dalla mala sorte al mio posto.
Un settimo ne conosco: qualora vedessi ardere il tetto della sala al di sopra dei convitati, estinguerei anche la fiamma più alta. Saprei cantare l’incantesimo adatto allo scopo.
Un ottavo ne conosco, il suo uso è proficuo a ognuno: ovunque l’odio crescesse nelle nobili menti, io saprei sradicarlo.
Un nono ne conosco: se avessi necessità di salvare la nave nella tempesta, saprei placare i venti che spazzano i flutti, addormentare la distesa del mare.
Un decimo ne conosco: se vedessi streghe volteggiare nell’aria, il mio canto le farebbe smarrire. Non ritroverebbero le forme primitive né la porta di casa.
Un undicesimo ne conosco: se dovessi guidare in battaglia vecchi amici fidati, canterei incantesimi dietro lo scudo, ed essi marcerebbero intrepidi. Sarebbero incolumi nella mischia, illesi dopo la battaglia, sani e salvi al ritorno.
Un dodicesimo ne conosco: se vedessi un impiccato oscillare alto su un albero, appena incidessi e dipingessi le rune, egli si staccherebbe dal ramo e scenderebbe a parlare con me.
Un tredicesimo ne conosco: se spruzzassi d’acqua un bambino, non cadrebbe mai in mezzo alla mischia, non si piegherebbe né vacillerebbe di fronte alle spade.
Un quattordicesimo ne conosco: se lo volessi, saprei enumerare agli uomini gli dèi e gli elfi a uno a uno. Uno sciocco non potrebbe fare altrettanto.
Un quindicesimo ne conosco: lo cantò il nano Thjodrorir davanti alle porte di Delling, un incantesimo che diede forza agli dèi, successo agli elfi, saggezza a Odino.
Un sedicesimo ne conosco: se avessi voglia d’amore, sconvolgerei la mente e confonderei il cuore delle donne dalle braccia di giglio.
Un diciassettesimo ne conosco: con questo canto, una fanciulla non mi lascerebbe mai.
Un diciottesimo ne conosco: non lo insegnerei mai a vergine o a donna maritata, a meno che essa, sola, giacesse tra le mie braccia o mi fosse sorella. Quello che tu, e solo tu, sai è sempre il più efficace.
Sia questo l’ultimo dei miei canti!”
***
Note
[1] L’Hávamál è la seconda composizione dell’Edda poetica. Il significato del termine è Discorso dell’Eccelso. Si presenta come un lungo monologo nel quale a parlare è proprio Odino, denominato con l’Alto oppure con l’Eccelso. Si ritiene che sia risalente al X secolo. Il testo presenta importanti riferimenti al popolo e lo si legge come una sorta di documento psicologico del tempo.
[2] Mimir era un gigante conosciuto grazie alla sua smisurata saggezza, Odino volendo acquisirla intraprese un viaggio per bere dalla fonte magica presso Jǫtunheimr, la mitica terra dei giganti di ghiaccio e roccia. Odino acquisì saggezza ma in pegno dovette sacrificare l’occhio destro. Si dice che Mimir sia lo zio materno di Odino, fratello di Bestla e figlio del gigante Bölþorn (o Bolthor).
[3] Bolthor è un gigante primordiale, come accennato nella nota precedente è padre di Bestla e presunto padre di Mimir, dunque risulta essere il nonno di Odino.
[4] Bestla è la madre di Odino. Gigantessa del ghiaccio è figlia di Bolthor, presunta sorella di Mimir. Si sposò con Borr, di cui però non si sa molto perché nell’Edda in prosa non viene descritto come personaggio. Spesso Odino viene menzionato con l’appellativo “figlio di Borr”. È probabile che Borr non venisse venerato.
[5] Calderone contenente l’idromele della poesia. Potrebbe essere proprio il calderone nel quale venne miscelato il sangue di Kvasir di cui si è velocemente raccontato in una nota ne “La cattura di Loki”.
Bibliografia
Miti e leggende dei vichinghi, curato da Gabriella Agrati e Maria Letizia Magini, Mondadori, 1990
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