“Rough and Rowdy Ways” album di Bob Dylan: una tradizione americana

Bob Dylan, è risaputo, ogni tot anni cambia pelle.

Rough and Rowdy Ways album di Bob Dylan
Rough and Rowdy Ways album di Bob Dylan

Dal folk con connotazioni di protesta sociale al rock, dal country al pop, dal rock/soul cristiano dei primi anni Ottanta all’American Songbook, Dylan ha attraversato nella sua carriera i generi e gli stili musicali più diversi, cannibalizzandoli sulla via e reinventando continuamente anche le proprie canzoni tramite nuovi arrangiamenti (un esempio per tutti: “Don’t Think Twice, It’s Alright” dal suo secondo album The Freewheelin’ Bob Dylan del 1963 rifatta in puro stile reggae nell’album dal vivo At Budokan del 1978).

Dalla fine degli anni Ottanta l’attività del cantautore americano si è svolta principalmente dal vivo, in quello che tutti (a eccezione di Dylan stesso) hanno definito il Never Ending Tour: tra i 90 e i 110 concerti all’anno ‒ soltanto negli ultimi tempi il Nostro, oggi 83enne, ha limitato l’attività a “solo” una settantina di esibizioni…

Parallelamente, l’attività discografica si è rarefatta (anche se sono usciti innumerevoli album di vecchi inediti o di concerti storici): dopo il bellissimo Oh Mercy (1989) e il meno riuscito Under the Red Sky dell’anno successivo, Dylan pubblicò “a sorpresa” due album solo voce-chitarra-armonica che proponevano vecchie ballate tradizionali o cover di canzoni altrui in versione folk. Un “ritorno alle origini” che stupì non poco, in anni in cui peraltro le sue performance dal vivo non brillavano per qualità e circolavano voci non buone sul suo generale stato di salute.

Dopodiché: non più di cinque album, sempre di ottima qualità, nell’arco di quasi vent’anni. Album con canzoni originali, molte delle quali basate sulla struttura del blues o delle ballads, con sempre più frequenti citazioni da classici dell’American Songbook.

Finché, con Shadows in the Night del 2015, Dylan si propose direttamente in versione confidential ‒ quasi un paradosso, considerando la particolarità della sua voce (anch’essa continuamente trasformatasi negli anni, e non sempre in senso positivo) ‒ interpretando vari classici del repertorio di Frank Sinatra. Seguirono altri due album di cover di pop e jazz standards.

Nel frattempo Dylan era stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 2016 (tra mugugni vari, soprattutto di chi ignorava che il cantautore fosse stato già in precedenza più volte ufficialmente candidato), del Polar Music Prize, aveva vinto un Oscar e un Golden Globe, vari Grammy Awards e via dicendo. Si potrebbe dire che la “leggenda vivente” avesse decisamente soverchiato i detrattori di una vita.

Qualcuno ha scritto che, dietro la proteiforme personalità di Dylan e i suoi repentini e imprevedibili cambiamenti di rotta, si potrebbe in realtà trovare una coerenza di fondo: il progressivo ripercorrere, incarnandola, la tradizione musicale americana, eleggendola quasi a Tradizione nel senso sapienziale del termine.

Non stupisce quindi che, quando il 27 marzo del 2020 fu improvvisamente pubblicata la canzone “Murder Most Foul” ‒ la prima composizione originale di Dylan dall’album Tempest del 2012 ‒ l’iniziale sorpresa, legata anche alla peculiarità musicale e all’estrema lunghezza del pezzo, presto lasciò spazio alla constatazione che Dylan si stava spingendo verso una sua personale rivisitazione della storia americana.

“Murder Most Foul” è una sorta di parlato-intonato su un tappeto sonoro di pianoforte e contrabbasso – e un minimo di batteria discretamente sullo sfondo – della durata di quasi 17 minuti (superando quindi in lunghezza altre epiche composizioni come “Sad-Eyed Lady of the Lowlands”, “Tempest” e “Highlands”, rispettivamente di 11’, 14’ e 16’33”). La canzone parte dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy a Dallas nel novembre del 1963, ripercorrendo i possibili scenari politici ed economici nascosti dietro la tragedia, nonché le sue conseguenze, con un’amara constatazione di come il “sogno americano” si sia infranto:

“«What is the truth, and where did it go?»
«Freedom, oh freedom, freedom over me / I hate to tell you, mister, but only dead men are free»
«The day that they killed him someone said to me “son / The age of the Antichrist has just only begun»
«I said the soul of a nation been torn away / And it’s beginning to go into a slow decay»[1]

Tutta la canzone è infarcita di riferimenti musicali, letterari e cinematograficiIf you want to remember, you better write down the names»[2]) così da costruire una sorta di mitologia moderna della cultura statunitense: appunto un viaggio nella Tradizione (ci sono anche alcuni riferimenti shakespeariani, e il titolo stesso della canzone viene dall’Amleto).

L’album Rough and Rowdy Ways fu annunciato ufficialmente l’8 maggio del 2020, e un mese dopo fu svelata l’intera track list: nove canzoni più la conclusione con la suddetta “Murder Most Foul”.

Con struttura intenzionalmente circolare, l’album si apre con “I Contain Multitudes”: il titolo è una citazione da Walt Whitman che introduce una sorta di autoritratto immaginifico dell’“uno, nessuno e centomila” che Dylan è stato – ed è – nella sua vita e carriera (in un certo senso, a Dylan si addirebbe ancora di più il paragone con Fernando Pessoa: del resto il Nostro più di una volta ha usato pseudonimi e alias).

Come in “Murder Most Foul”, il brano comincia con un parlato-cantato su una base di chitarra, organo e pedal steel guitar quasi senza ritmo, con il testo a rime baciate che cita in questo caso non solo canzoni e autori americani, ma anche inglesi (da William Blake ai Rolling Stones definiti – questi ultimi – i British bad boys), e si conclude un po’ inaspettatamente sui versi «I play Beethoven’s Sonatas, and Chopin’s Preludes/ I contain multitudes»[3].

All’interno dell’ideale cornice rappresentata dalle due canzoni di cui sopra si inseriscono gli altri otto brani, a cominciare da “False Prophet”: un brano bluesizzante con una delle frasi indimenticabili del disco («Can’t remember when I was born/ And I forgot when I died»[4]); segue “My Own Version of You”, armonicamente basata su un tetracordo discendente e zeppa di citazioni shakespeariane, ma anche di riferimenti alla Storia antica, alla Bibbia, a Freud e Marx, come pure a Scarface Pacino, Godfather Brando, Liberace e Leon Russell.

Si potrebbe dire che quella di Dylan è un’operazione legata al postmoderno e un po’ fuori tempo, ma forse più semplicemente il citazionismo – da sempre presente nella produzione dylaniana, ma finora soprattutto legato alla musica folk e al blues – viene spiegato dai due versi finali della canzone («I wanna bring someone to life, turn back the years/ Do it with laughter and do it with tears»[5]), che riprendono e spiegano l’inizio in cui, parodiando Frankenstein, l’io narrante parla di come vorrebbe creare una «sua propria versione di te», dove forse te incarna la Tradizione stessa («I’ll be saved by the creature that I create»[6]).

La canzone meno convincente dell’album è forse la seguente “I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You”, costruita su un riff che echeggia il tema della “Barcarolle” da Les contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach (vedi nota 3!), mentre la successiva “Black Rider” è al contrario estremamente interessante ed è musicalmente la più complessa di tutto il disco. In tempo ternario su un basso ostinato quasi da passacaglia[7], presenta un testo molto “notturno” e amaro che sembra essere una riflessione sulla solitudine, accompagnato solo da una chitarra e un mandolino, con isolati e lontani colpi di tamburo, uno a conclusione di ogni strofa. Dylan sembra rivolgersi a un rivale che è forse solo un alter ego; molti critici hanno voluto però vedere nel Cavaliere Nero del titolo un riferimento al Libro dell’Apocalisse, o identificarlo con la Morte stessa.

Degno di nota è un verso che ha sconcertato molti critici: «The size of your cock will get you nowhere»[8] che in realtà sembra essere una parafrasi di un passaggio della Satira IX del poeta romano Giovenale. Dell’interesse di Dylan per la Storia antica e per i classici latini si sapeva da qualche tempo, e in Rough and Rowdy Ways viene nominato Giulio Cesare (in “My Own Version of You”) e – dopo “Goodbye Jimmy Reed”, un omaggio al celebre bluesman del Mississippi – le canzoni che seguono si intitolano “Mother of Muses” e “Crossing the Rubicon”.

Come dice il titolo, la prima è una vera e propria invocazione alla “madre delle Muse”, che aiuti a cantare di coloro che combatterono per la libertà e il progresso: eroi di guerra, ma anche Elvis Presley e Martin Luther KingI could tell their stories all day»[9]); poco dopo Dylan dichiara di essersi innamorato di Calliope, la Musa della poesia epica, e tutto il finale della canzone sembra essere un atto di fede nell’unica salvezza esistenziale: l’ispirazione poetica.

“Crossing the Rubicon” utilizza invece la metafora del “passaggio del Rubicone” per un lento blues, un po’ come in una delle canzoni di Tempest, “Early Roman Kings”, il riferimento costituiva solo lo spunto per un testo – anche lì – tipicamente da blues.

Segue “Key West (Philosopher Pirate)”, canzone che ha riscosso uno straordinario successo critico. Chi scrive non la considera in realtà uno dei pezzi migliori dell’album: sembra un po’ uno spot pubblicitario per l’isola a sud della Florida, da Dylan spesso frequentata (ed effettivamente bellissima). Tuttavia costituisce una sorta di introduzione al finale del disco: comincia con un riferimento a William McKinley, 25° Presidente degli Stati Uniti d’America, anch’egli assassinato (nel 1901), introduce poi i nomi di tre grandi autori della Beat Generation – Jack Kerouac, Allen Ginsberg e Gregory Corso – incorporando inoltre nel testo citazioni da varie canzoni americane di epoche passate. Da un certo punto di vista “Key West” può essere considerata un contraltare positivo alla conclusiva “Murder Most Foul”.

L’album Rough and Rowdy Ways si conclude quindi con il brano da cui eravamo partiti, con gli ultimi versi che recitano: «Play darkness and death will come when it comes / (…) Play “The Blood-Stained Banner”, play “Murder Most Foul”»[10].

Dai destini politici all’ispirazione artistica, dal recupero di una Tradizione all’imminenza della Morte, Rough and Rowdy Ways (“Modi [o anche “strade”] ruvidi e turbolenti”) vuole essere un’opera epica, nella maniera peculiare e poco sistematica tipica di Dylan. Vale forse la pena di ricordare qui anche la Nobel Lecture dylaniana[11], in cui il Nostro, ripercorrendo le fonti di ispirazione e di influenza sulla sua attività creativa, si soffermava in particolare su tre libri, per lui fondanti: l’Odissea, Moby Dick e ‒ alquanto sorprendentemente ‒ Niente di nuovo sul fronte occidentale.

Dylan sembra quindi aver suggellato una ricerca artistica durata una vita intera. Ma quali altre sorprese potrebbe ancora riservarci?

 

Written by Sandro Naglia

 

Note

[1] «Qual è la verità, e dov’è finita?»; «Libertà, oh libertà, libertà su di me / Odio dirvelo, signore, ma solo i morti sono liberi»; «Il giorno in cui l’uccisero qualcuno mi disse “ragazzo / L’epoca dell’Anticristo è solo iniziata”»; «Dissi che l’anima di una nazione era stata strappata via / E si iniziava a entrare in una lenta decadenza».

[2] «Se vuoi ricordare, faresti meglio a scrivere [a mettere nero su bianco] i nomi.»

[3] «Suono le Sonate di Beethoven e i Preludi di Chopin / In me ci sono moltitudini». C’è da dire che da molti anni, prima dell’inizio dei concerti di Dylan, gli altoparlanti diffondono brani di musica classica, dalla Sinfonia “Dal nuovo mondo” di Antonín Dvořák a – ultimamente – La sagra della primavera di Stravinskij. In un’intervista del 1993 Dylan aveva dichiarato di ascoltare, almeno in quel periodo, soprattutto musica classica.

[4] «Non riesco a ricordare quando sono nato / E ho dimenticato quando sono morto.»

[5] «Voglio dare vita a qualcuno, riportare indietro gli anni / Farlo col riso e con le lacrime.»

[6] «Verrò salvato dalla creatura che avrò creato.»

[7] La passacaglia è una forma musicale barocca basata sulla ripetizione di una linea di basso, spesso tratta da celebri canzoni popolari dell’epoca. “Workingman’s Blues #2” dall’album Modern Times del 2006 utilizzava lo stesso basso del cosiddetto Canone di Johann Pachelbel, che propriamente è una passacaglia.

[8] «La misura del tuo cazzo non ti porterà da nessuna parte.»

[9] «Potrei raccontare le loro storie per tutto il giorno.»

[10] «Suonate l’oscurità e la morte arriverà quando arriverà / (…) Suonate The Blood-Stained Banner, suonate Murder Most Foul». “Blood-Stained Banner” (“Bandiera macchiata di sangue”) è ovviamente lo stravolgimento del titolo dell’inno americano Star-Spangled Banner (“Bandiera stellata”).

[11] Bob Dylan: The Nobel Lecture; New York, Simon & Schuster, 2017.

 

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