“Iperione” di Friedrich Hölderlin: un cinico idealista?

Nella mitologia greca, Iperione era figlio degli dei Urano e Gaia, che erano il Cielo e la Terra, ed ebbe a sua volta tre figli, Elio, Selene ed Eos, con cui si identificavano il Sole, la Luna e l’Alba.

Iperione - Friedrich Hölderlin
Iperione – Friedrich Hölderlin

Protagonista del romanzo di Friedrich Hölderlin è Iperione, un giovane problematico, che poco ha a che fare con la divinità e che tanto fatica a essere umano. Egli fu infatti un cinico idealista.

La mia è una definizione doppia, dubbia. È come se dicessi che un tale è simpaticamente insulso. In ogni ossimoro è celato un paradosso irrisolto. Si può iniziare a tentare di scioglierlo allentando il proprio blocco critico, nell’augurio che sia sì irrimediabile, ma in costante evoluzione.

Scrivere è risalire un’erta che, in teoria, dovrebbe recarti alla vetta. Poi sorge la problematica che definisco cognatesca, perché me l’ha insegnata un arguto affine, il cui nome per una volta sottaccio: la teoria l’aggio capita, ma è la pratica che mi esce difficile!

I romanzi epistolari sono spesso forieri di disgrazie. Due esempi in tal senso sono I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang von Goethe (precedente a Iperione) e Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo (di poco successivo).

Si confida nell’assurdo: che Iperione, simile al gatto di Schrodinger, non finisca né vivo né morto, ma fatalmente sospeso in una sua ambigua esistenza. Doppio, egli appare da subito e tale rimane fino al momento di questa mia prima scrittura, che ha il suo spazio-tempo qui e allorché ho appena concluso il Primo Volume. Lo scrittore è colui che ama rivivere vaneggiando il suo tempo di lettore.

Sto ora cominciando a tessere, tra il lusco e il brusco del mio primo sonno, ‘ste imprecise e grasse banalità. Non aggiungerò una riga sino al termine dell’avventura. Lo spero, almeno. Ce l’ho fatta.

Ora posso dire, senza tema d’essere smentito da me stesso, che, per quest’ameno (antifrasi) uomo, che sento doppiamente analogo a me, provo una simpatia repulsiva e che sono felice che l’autore abbia terminato il suo romanzo con le parole: “Cosí pensavo. Presto, di piú.” – e che quel presto ancora non si sia manifestato. Come sempre sarà la speranza a perire per ultima.

Chissà se un bel dì si scoprirà in un cassetto dei fogli in cui…

Felice colui al cui cuore una patria fiorente dona gioia e forza.” – mentre agli altri non resta che gemere (eppure dovremmo essere tutti abbastanza umani): “… Mi pare di essere stato gettato in un pantano, come si inchiodasse su di me il coperchio di una bara; quando qualcuno ricorda la mia patria e quando qualcuno mi chiama greco, mi sembra sempre che qualcuno mi serri la gola con il collare di un cane.” – e con tutta la mia ingenuità di umano espatriato in patria dissi un giorno a un amico albanese che il suo popolo era di origine greca (forse dissi addirittura mezzo greco), al che lui mi rispose con fare secco che erano i greci di etnia albanese (forse disse mezzi albanesi). Agli occhi di un venusiano essi apparirebbero dei terrestri uguali sputati.

In che senso mi sento espatriato in patria: lo sapessi! Lo ignoro. Patisco il mio essere un umano e nulla più.

Il romanzo è una raccolta di lettere scritte da Iperione all’amico Bellarmino e all’amata sua donna, che talvolta ama rispondergli.

Così dice di sé Iperione:Ero cresciuto come una vite senza sostegno, e i viticci selvatici si allargavano al suolo, senza una direzione.” – per me la famiglia era l’olmo a cui mi sentivo aggrappato, e i miei amati genitori la patria madre su cui avrei sempre potuto contare. Anche oggi confido in loro, perché essi son sempre al contempo Colà e insieme a me.

Tutto il resto mi pare come avvolto in un’oscura fumana.

“Felice colui che, nella sua giovinezza, ha incontrato, su questo cammino, un nobile spirito.” – se un tale magico evento m’è occorso, non è servito a granché. Non più che per altre presenze, che m’entravano e uscivano, manifestando immagini, sensazioni, emozioni fugaci, che non mutarono radicalmente la mia anima.

Per Iperione non fu così. La prima anima che buttò all’aria il suo cuore si chiamava “Adamas”: quell’adhāmāh era il suolo su cui i suoi piedi iniziarono a seguire il loro primo percorso.

Anch’io ne incontrai parecchie, di anime siffatte. Gli amici erano dei racconti borgesiani. Ognuno di loro mi conduceva con sé, ma prima o poi ci lasciavamo per strada, ognuno a rincorrere i suoi guai.

Per te, Iperione, ogni umano rappresenta un genitore a cui aggrapparti e a cui poter dire: “Benedicimi, padre mio…” – avendo finito di farti benedire da chi sai tu.

Pare non sia mai esistito un umano che non avesse la necessità d’essere assistito dalla voce amorevole di “Voi, spiriti di un tempo migliore…”.

Che bella e spaventevole similitudine: “Amavo i miei eroi, come la mosca la luce, cercavo la loro pericolosa vicinanza, ne rifuggivo e la cercavo di nuovo.”

Morto o emigrato un eroe, se ne fa un altro, per cui occorre cercarlo, per poi eleggerlo nel conclave dell’anima nostra. Conviene recarsi fuori dalla propria patria, poiché egli per lo più vive all’esterno di noi, e distante. Lo cercai in libri che più diversi dal mio cortile non potevano essere. Concluse tali aspre letture, occorreva per me rinvenire il successore su quel cartaceo trono.

“Alla fine mi sentii stanco di questo buttarmi via, di questo cercare uva nel deserto e fiori su campi di ghiaccio.” – io cominciai a confidare nella ricerca di quel poco che ero. A mio padre che mi chiedeva che avrei voluto fare da adulto, rispondevo: Ingegnere del quasi nulla. Del mio specifico quasi nulla.

“Vivevo deliberatamente solo e il gaio spirito della mia giovinezza era quasi completamente scomparso dalla mia anima.” – io non ero granché gaio e non m’accorsi di nulla.

Ora a te, mio Iperione, capita un diverso maestro. Il tuo problema è che dalle tue bande non s’è mai scorto un bidello che, all’ora della merenda, ti possa cedere per un soldo la giusta dose di gnocco di farina e strutto: al gnôc arşân ha redento una caterva di umani!

Dici del tuo nuovo solidale, “Alabanda”:Le nostre anime dovettero accostarsi l’un l’altra con maggior impeto perché, contro la loro volontà, erano rimaste reciprocamente chiuse.” – e tralascio la successiva similitudine, essendo essa troppo complessa e umida per le mie attuali condizioni.

Borbotta quell’aspirante custode della tua anima: “… oh prendete dunque i vostri figli via dalla culla e gettateli nel fiume per salvarli almeno dalla vostra vergogna!” – bell’impeto pedagogico, davvero!

Questo bel tomo ha un’anzianità che muta a ogni sua descrizione, parendo talvolta ‘na criatura e, un attimo dopo, l’avo di se medesimo. Secondo me ha cessato di crescere e di deperire all’età in cui si gattona. Mi fa una pena infinita ma non lo vorrei veder scorrazzare sotto casa.

“… quell’uomo faceva di me un bambino…” – così poteva trastullarsi con te, svolgendo la parte dell’infantile maestro.

“Se la vita del mondo consiste nell’alternarsi dello schiudersi e del chiudersi, nell’uscire di sé e nel ritornare in sé, perché non può accadere la medesima cosa nel cuore di un uomo?” – avrai l’intera vita per tentare di rispondere. E per organizzare la dipartita. Ergo, espatri di nuovo.

“Tutto il cielo è puro, la luce bianca è come alitata nell’etra.”a cui Albert Einstein mai rinunciò, al fine di conferire un senso ai fenomeni fisici. Eppure quell’etere non esiste, avvertono i soliti informati. Non può farlo, risponderebbe Parmenide, poiché È. Non so quanto ciò possa Essere vero, e quanto attestabile. Intanto ne possiamo soltanto discorrere, fra una ciliegia e la successiva.

“Un tempo fui felice, Bellarmino! Lo sarei ancora? Lo sarei anche se il sacro istante in cui la vidi per la prima volta fosse stato l’ultimo?” – l’unico ed eterno attimo in cui il Divino parve così somigliante all’umano, come s’augurava Mircea Eliade.

“Non domando piú dove essa è: è esistita nel mondo e può ritornarvi; vi è soltanto nascosta.”come l’umbratile verità heideggeriana, che fa capolino tra i cespugli, sogghigna e all’improvviso svanisce. Eppure la sensazione che ci lascia è intrisa d’amore.

“Il suo nome è bellezza.” è “Diotima”, uno dei tanti appellativi di tale divinità, che vale per Amore, il cui codice fiscale rimarrà però ignoto. Esso sarà utilizzato da pur brevi (rispetto a lei) autori come Platone e Robert Musil.

“Parlammo assai poco insieme. Ci si vergogna della propria lingua.” – del suo vano agitarsi tra i denti.

Di questo tuo folle amore poco mi viene da riportare, essendo così simile a quello di tanti selaci. Ciò mi pare importante: “La mia anima è come un pesce gettato, fuori dal suo elemento, sulla riva; si agita, si dimena sino a che non dissecca nell’ardore del giorno.” – per essere poi esposto in un museo intitolato a Lazzaro Spallanzani e posto di fronte ai Giardini (e ai Vespasiani) Pubblici.

Quando citi un detto greco: “l’uno distinto in se stesso” – devo per forza rimembrare il rimbaudiano Je est un autre.

“L’autunno era, per noi, un fratello della primavera…” – due gemelli dizigoti separati alla nascita, quasi dei Dioscuri. Anche a me non spiacciono ‘ste mezze stagioni, così lievemente assordanti.

“… se anche il bello matura muovendo in tal modo incontro al suo destino, se anche il divino si deve umiliare a dividere la mortalità con tutto ciò che è mortale!” – che senso avrebbe sopravvivere in una tediosa eternità?

Il tuo sogno: “I Greci saranno liberi…” – come tutti gli illusi, confondi un’irrisolta indipendenza con la salvifica libertà.

T’allontani da lei, per poi precipitare in un kaos ogni giorno peggiore, in quel miserabile cancro che non perdona perché è imperdonabile: la guerra!

La stupidaggine che colgo a pagina 120 non sarebbe spiaciuta a Filippo Tommaso Marinetti. A me fa schifo.

Così ora ritrovi il tuo coetaneo “buon vecchio”: Alabanda, insieme a cui combatti per ritrovare ancora “l’etra natia”.

Scopri poi di quale scorza sono i vostri alleati, non difformi dai nemici, per cui giungi all’infame conclusione: “… cosí i tiranni si sterminano da sé.” – avanti i prossimi!… che c’è posto!

Una tua vana speranza t’è donata dal tuo vetusto e pargolo amico, il quale ti dice: “… Il giovane è un eroe, l’uomo è un dio quando sa vivere questo bel periodo.” – amen e così sia!

Quell’avo, giunto all’estrema stagione, è diventato un nichilista: “… mi sento libero nel senso più alto della parola, mi sento senza un principio, per questo credo di essere senza una fine, indistruttibile.”: sempre stolida fede è.

Friedrich Hölderlin citazioni Iperione
Friedrich Hölderlin citazioni Iperione

A esagerare è anche la tua ormai dipartita e mancata consorte, Diotima, che dice: “Noi moriamo per vivere.” – e chissà se, Ovunque ella si trovi, la pensa sempre in siffatto modo.

L’ultima sua lettera è così lunga che vien quasi da dire che non sapeva come trascorrere l’estremo scampolo d’esistenza. Che pena che mi fa! Però una cosa giusta la dice: “… l’uomo non può mutare nulla e la vita viene e riparte, come essa vuole.” – immersa in quell’intruglio kósmico di cui disporrà per un po’ ancora.

Mi delizia il tuo definire il popolo in cui t’illudevi d’appartenere, come composto da “operai”, “pensatori”, “sacerdoti”, “padroni e servi, giovani e gente posata”, “ma non uomini” – (espressione che ripeti quattro volte). Ma forse ti sbagli. O siamo uomini tutti in modo uguale, tu e io per esempio, o nessuno lo è.

Parlando della “natura” – così ammonisci gli umani: “… voi non potete cacciare il suo autunno e la sua primavera, non potete corrompere la sua etra.” – possiamo però ipotizzare che non sia lei a gestire l’esistenza. Chissà!

“… Tutto ciò che avevo imparato si sciolse come ghiaccio, tutto ciò che avevo fatto durante la mia vita, tutti i progetti della giovinezza si dileguavano in me e, voi, miei cari, che siete lontani, voi morti e voi vivi, come eravamo intimamente una cosa sola.” – quella matta singolarità in cui confidavano i maestri in cui confidavi.

Da cui tentiamo ogn’ora di fuggire, come quella fulva radiazione di cui cianciava Stephen Hawking. Una di essa ricadrà in quel bruno kaos, mentre l’altra finirà per disperdersi manco lei sa dove.

“… chi può separare gli amanti?”

Un’estrema risposta mi doni, caro il mio intimo e disperso amico: “Simili ai dissidi degli amanti sono le dissonanze del mondo, conciliazione è entro la discordia stessa e tutto ciò che è separato si ricongiunge.”: e ogni tempo suol finire anzi-tempo.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Friedrich Hölderlin, Iperione, Feltrinelli, Quattordicesima edizione  maggio 2023

 

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