“Le cinque donne” di Hallie Rubenhold: chi sono le vittime di Jack lo squartatore?

Lo schermo della finzione letteraria aiuta; sappiamo che anche i drammi più dolorosi sono fiction. Ci turbano; ma ricordiamo che il verosimile è altro dal vero. Questa volta no. Questa volta nessuno schermo; nessun sollievo. Il dolore non si stempera; perché la vicenda è spietata Verità.

Le cinque donne di Hallie Rubenhold
Le cinque donne di Hallie Rubenhold

Romanzo-Verità; questo è Le cinque donne (Neri Pozza, 2020, pp. 380, trad. di Simona Fefè) di Hallie Rubenhold. Chi sono queste cinque donne? Cosa hanno fatto per diventare materia di Letteratura? Hanno vissuto. Hanno sofferto, pianto; sentito i morsi della fame, del freddo; hanno patito il pubblico disprezzo. Sono morte; strappate alla vita nel modo più brutale. Sono state uccise. Ma nemmeno da morte hanno trovato la pace; il carnefice ne ha oltraggiato i corpi, li ha squartati, eviscerati. Ne ha sfregiato i volti per annullarle, per cancellare la loro identità; perché della loro presenza in questo mondo non restasse più niente. Bestie macellate, ridotte a brandelli di carne, grumi di sangue; irriconoscibili anche a chi le aveva conosciute. E, pur morte, hanno continuato a subire l’onta; “solo prostitute”. Così si disse all’epoca; così si è detto fino a oggi. Chi sono veramente le cinque donne? Sono loro; siete voi.

Mary Ann Nichols, “Polly”; Annie Chapman; Elizabeth Stride; Catherine Eddowes; Mary Jane Kelly. Siete le cinque vittime canoniche di Jack the ripper; uccise tra settembre e novembre del 1888. Mentre la sua lugubre figura diventava leggenda, voi siete sbiadite nella nebbia; mortificate, infimo gradino dell’umanità. Ultime tra gli ultimi; reiette dai reietti: donne pubbliche, di tutti e di nessuno. Nemmeno di sé stesse. Il pensiero di voi mi ha ossessionato; non mi lascia. Vi ho cercato; ho visto i vostri volti e i vostri corpi straziati. Ora vi conosco. Non c’è pace per voi; e non c’è pace per me. Voglio che usciate dai vicoli bui di Whitechapel; voglio che usciate dal mantello di Jack. Voglio che siate conosciute per la vostra luce; non solo per le vostre ombre. Voglio parlare con voi, per voi; voglio parlare di voi.

Parlerò di te, Polly. Sei nata Mary Ann Walker; venuta al mondo tra il rumore delle macchine da stampa. Il 26 agosto 1845; dicono che era una giornata gradevole e asciutta. Figlia di fabbro; la tua non era una famiglia agiata ma tuo padre era illuminato. Credeva nel valore dell’istruzione; così ti ha permesso di studiare. Cosa insolita, per una ragazza; poi la tua vita è cambiata per sempre. Il 25 novembre 1852, un giorno che non avresti mai dimenticato; vero, Polly? Come dimenticare la data in cui hai perso la mamma? Tuo padre ha dato prova di amore; avrebbe potuto affidare voi figli a una workhouse. Vi ha tenuto con sé; tu sei diventata la donna di casa. A te la cura domestica; a te, figlia di vedovo, il compito di consolarlo. Un affetto saldo, tenace; gli hai dedicato quasi tutta la vita. Non ti sei allontanata nemmeno quando hai scelto il marito; William Nichols. Ricordi? Era biondo; il viso allegro e aperto. Il 16 gennaio 1864 vi siete sposati; a St Bride, la chiesa dei tipografi. Un nuovo inizio per la tribù Walker-Nichols; tutti insieme. Poi il primo figlio, William Edward; nell’autunno successivo una nuova gravidanza. Le nascite, le morti; la famiglia come l’onda. È iniziato un nuovo capitolo; hai lasciato la mano di tuo padre. Non avresti più camminato accanto a lui. 31 luglio 1876; un altro giorno memorabile. Per la prima volta eri in una casa pulita, moderna; l’interno 3 di un edificio Peabody, a Stamford Street. Eravate entusiasti; vero Polly? Sembrava che tutto andasse per il meglio. Quando cominciarono le liti con William? Non lo sappiamo. Forse le difficoltà economiche aprirono una crepa tra voi? Se ascoltiamo William, la causa degli screzi è altra; diceva che avevi preso ad amare l’alcol. Dopo la nascita di Harry la situazione è precipitata; tu hai cominciato a cedere. Forse eri rosa dalla gelosia? Avevi intuito una simpatia tra William e Rosetta? Probabile. Depressione post-partum; infelicità; alcol. Una combinazione micidiale, Polly. E poi è vero quello che diceva William? Tra la fine del 1878 e i primi mesi del 1880 saresti scappata di casa; ben cinque o sei volte. Tuo marito era diventato cattivo; lamentavi. Tuo padre, tuo fratello; uomini. Cosa speravi ti dicessero? Dovevi tornare a casa; al tuo dovere di moglie e madre. Di donna. Ogni volta tornavi; e ogni volta litigi. Fino a quando sei crollata. Rosetta ci sarebbe sempre stata; hai detto basta. Il 29 marzo 1880 hai varcato il cancello, da sola; non saresti tornata mai più. Sapevi che la colpa del fallimento coniugale sarebbe stata solo tua; sapevi che ti avrebbero giudicata perduta. E che stavi per gettarti tra le braccia della povertà. Undici mesi in una tetra workhouse; poi hai trovato rifugio da tuo fratello. Ma il demone dell’alcol ha ripreso a divorarti; continui litigi con i tuoi. Basta; dicesti ancora. Un nuovo uomo; l’alcol; l’ennesimo abbandono. Nell’ottobre 1887 le notti erano fredde; tra i senzatetto accampati a Trafalgar Square c’eri anche tu. Confusa tra una folla cenciosa, sporca e variopinta; rannicchiata contro un piedistallo, sdraiata su una panchina. Come soffitto, il cielo. La polizia ti conosceva bene; diceva che eri la peggiore della piazza. La donna garbata era scomparsa; c’era una disturbatrice volgare e chiassosa. Sai perché, Polly? Perché ormai ti eri rassegnata a una vita di stenti; cosa avevi da perdere? Qualcuno ti ha teso una mano; la signora Cowdry ti ha voluto come cameriera. Casa e abiti puliti, cibo; la tranquillità. Allora perché hai sprecato questa occasione? Perché hai rubato e sei scappata? Forse eri consumata dalla solitudine; forse bruciava il bisogno dell’alcol. Quel gruzzolo ti ha sostentato per poco; fino al 24 agosto hai dormito in un letto. Poi il denaro è finito, dissipato in bevute; mendicavi. La notte del 31 agosto eri ubriaca; il custode della pensione ti ha respinto. Ti ha consegnato al destino; hai nascosto il disappunto dietro una risata. L’orologio batteva le 2.30; Ellen Holland ti ha visto per l’ultima volta. Barcollavi verso Whitechapel Road; il cappellino di paglia bordato di velluto nero. Poi il buio ti ha inghiottito.

Parlerò di te, Annie. Annie Eliza Smith; sei nata nel settembre 1841. Ma in quale giorno? Non lo sappiamo; all’epoca i tuoi genitori non erano ancora sposati. George era soldato di Sua Maestà; Ruth cameriera. Una famiglia “sistemata”, si diceva; godevate piccoli privilegi. Hai studiato; eri più istruita degli altri bambini. L’infanzia a Windsor, all’ombra della residenza reale; lo spettacolo di carrozze, dame eleganti, gentiluomini ti avrà fatto sognare. Fin da piccola ti hanno insegnato l’orgoglio per il ruolo di tuo padre; l’amore per la regina; l’onore e la dignità. A quindici anni è arrivato il momento di lavorare; sei andata a servizio. Eri cameriera presso un architetto; una vita rigida, pochissima libertà, rare le visite alla famiglia. La famiglia, Annie. Dopo la carriera luminosa di tuo padre, il baratro stava per inghiottire tutti voi. Era un momento cruciale; è stato allora che lo hai conosciuto. John Chapman. Avevi ventisette anni; la vita ti dava la possibilità di decidere. Di diventare ciò che la società voleva che fossi; moglie, madre. Hai scelto; vi siete sposati il primo maggio 1869. John era cocchiere; un buon salario che ti permetteva qualche piccolo lusso. Dieci anni dopo, un incarico prestigioso; primo cocchiere di sir Francis Tress Barry. Eri orgogliosa di quell’ascesa sociale; perfino vanitosa. La tua vita avrebbe potuto continuare serena; ma un’ombra si allungava su di te. Nella campagna del Berkshire, lontana dalla mamma e dalle sorelle, la solitudine pesava; l’alcol era l’unica compagnia. L’origine della tua disgrazia, la tua maledizione; e dei tuoi bambini. Sapevi che eri tu la causa delle loro patologie; tu, che cedevi al demone anche in gravidanza. Ti sentivi indegna; e annegavi il rimorso nell’alcol. Volevi vincere la dipendenza; ce l’hai messa tutta. Ma non è bastato; l’abisso ti ha inghiottito. Una alcolista presso la dimora di un sir? Scandaloso. Che doveva fare John? Non avrebbe voluto, non lo avrebbe permesso; ma ti ha lasciata andare. Avresti potuto chiedere aiuto a tua madre; alle tue sorelle. Perché non lo hai fatto, Annie? La vergogna; della dipendenza, dell’incapacità, della separazione. La vergogna ti ha ucciso. Come sei arrivata a Whitechapel? Hai conosciuto qualcuno? Facevi coppia con tale Jack Sievey; avevate una passione in comune: la bottiglia. Ormai eri una donna caduta; emarginata, come una prostituta. Poi Sievey si è sbarazzato di te; non gli portavi denaro, eri sempre malinconica. Sei rimasta senza un protettore; a vagare da sola per quelle vie sudicie. Eri indifesa. Nel 1887 i primi sintomi di malattia; tubercolosi. 1888; l’ultimo segmento di vita. Era Edward Stanley a pagarti una camera; la prima settimana di settembre sei sparita. Dove sei stata per sette giorni? Il 7 sei ricomparsa; consumata dalla malattia ma decisa a lavorare. Avevi bisogno di soldi. Quella notte ti hanno cacciato dalla pensione. Malata e ubriaca, hai sceso le scale; hai indugiato un attimo. Cosa hai pensato, Annie? Con chi hai parlato per strada? Sapevi dove andare; al 29 di Hanbury Street. Un luogo appartato, adatto per dormire; ti sei rannicchiata con la schiena contro il muro. Sai cosa rattrista? Che avresti potuto riposare a casa, in un letto; avere il conforto della famiglia. Se la vergogna non avesse avuto la meglio. Se la dipendenza non avesse spento le tue speranze. Quella notte l’assassino si è preso solo una parte di te; quella che l’alcol aveva risparmiato.

Hallie Rubenhold citazioni
Hallie Rubenhold citazioni

Parlerò di te, Elizabeth. Dopo una figlia femmina, tuo padre sperava in un maschio. Invece il 27 novembre 1843 sei nata tu; Elisabeth Gustafsdotter. Torslanda, in Svezia; una famiglia di agricoltori laboriosi e pii. Ti reggevi appena in piedi; già ti facevano raccogliere le uova. Dovevi imparare presto i ritmi e i rituali della vita contadina; questa eredità ti sarebbe servita, una volta donna. Non ti hanno mandato a scuola; l’istruzione non era necessaria. Avresti appreso da tua madre la lezione davvero utile. Ti hanno insegnato il catechismo; volevano che sapessi distinguere il Bene dal Male. Ti hanno vestito di un’armatura invincibile; la parola di Dio. Le tentazioni del mondo non l’avrebbero scalfita; non saresti caduta. Non avevi compiuto diciassette anni; sei partita per Göteborg. Eravate in tante ad andare a servizio; avreste messo da parte del denaro per la dote. Vi sareste sposate. Questo era anche il tuo destino. Lavoravi dagli Olsson. Perché hanno rescisso il contratto? Cosa è successo in quella casa? Un uomo ti ha sconvolto la vita; hai portato il suo nome nella tomba. Nel marzo 1865 la tua pancia era cresciuta troppo; non potevi più nasconderla. La polizia, i vicini lo sospettavano; ne hanno avuto la certezza: conducevi una “vita dissoluta”. Già, la polizia; cosa ti hanno fatto quegli uomini? Quante lacrime hai versato? Quanta umiliazione hai provato? Nemmeno la dignità del nome ti hanno lasciato. Ti hanno ridotto a un numero; ti hanno cucito addosso il disprezzo. Sul registro ufficiale eri Allmän Kvinna numero 97; “donna pubblica” 97. Non bastava questo; accusavi i sintomi della sifilide. La terapia sembrava funzionare; eri al settimo mese di gravidanza. La tua bambina non era pronta per la vita; non hai potuto abbracciarla. Ormai eri perduta; non avresti trovato un lavoro onesto. Lo pensavi; lo sapevi. Ti chiamavano donna pubblica? Allora tanto valeva esserlo davvero; per sopravvivere. Una coppia pietosa ti ha raccolto dalla strada; ti ha assunto come cameriera. Potevi essere serena; ma in città il passato si affacciava in ogni angolo. Con i ricordi, la vergogna. A Londra avresti voltato pagina; non avresti dimenticato ma, almeno, ricominciato a vivere. Il 7 febbraio 1866 Göteborg era sepolta dalla neve; tra i passeggeri avvolti nelle pellicce, c’eri anche tu. Ti sei imbarcata, da sola; una ragazza di ventidue anni. A Londra eri Elizabeth Gustafsson. La residenza, al limitare di Hyde Park, era elegante; il tuo ruolo prestigioso, nei ranghi della servitù. Ma il prezzo era alto; regole assai rigide da rispettare. Qual è il motivo per cui ti sei allontanata? Forse un amore illecito? Poi, un giorno, hai conosciuto un uomo. Avevi patito tanto; il suo affetto doveva sembrarti un rifugio. Il 7 marzo 1869 John Stride ti ha preso in moglie; eravate solo voi, l’officiante e due testimoni. Avete aperto un caffè; la concorrenza dei pub era spietata. Il vostro sogno è fallito. La malattia ti ha negato la maternità. Era il castigo di Dio per la tua immoralità? Forse ti sentivi l’unica responsabile delle tue disgrazie. Il matrimonio ha cominciato a vacillare; dopo otto anni, la fine. Cosa avresti fatto per vivere? Hai scelto la strada che conoscevi già; il passato ritornava. Sei diventata astuta; recitavi il ruolo della vedova. Qualcuno ti offriva del denaro; perché, dicevi, avevi bambini da sfamare. Nel dicembre 1881 sei finita negli inferi; Whitechapel. Lì nessuno ti conosceva; potevi interpretare il personaggio che volevi. Sei stata serva; mantenuta; prostituta; Maddalena redenta. Sempre più spesso affogavi la rabbia nell’alcol, diventavi molesta; eri nota alla polizia. Spesso davi in escandescenze; e venivi arrestata. L’ubriachezza ti rendeva aggressiva; ma c’era altro. La sifilide ti aveva attaccato il cervello; ecco l’origine della tua furia. Il 29 settembre 1888 era un giorno qualsiasi; come potevi immaginare? La sera hai pagato per un letto; ti sei messa in ordine. Hai pulito il vestito dal fango. Dove eri diretta? Chi era con te? Non lo sapremo mai. Non ti confidavi con nessuno. La tua morte ha lasciato tante domande senza risposta; sei rimasta un enigma. Era questo che volevi? Quella notte avevi con te una rosa rossa; era legata con del capelvenere. Tra le dita, una busta di carta; conteneva caramelle. Pochi dettagli a parlare di te; Elizabeth Stride si è dileguata nelle tenebre. Insieme all’assassino.

Parlerò di te, Catherine. Gli Eddowes, una famiglia in fuga; su una chiatta da Wolverhampton a Londra. Quella mattina del giugno 1843 eri con loro, Kate; avevi solo quattordici mesi. Negli anni sono nati altri figli; tuo padre ti ha permesso di studiare. Perché ha scelto te? Forse eri dotata; più incline all’apprendimento. La mamma vi ha lasciato, stremata dai parti; avevi tredici anni. Anche allora la prescelta sei stata tu; ti hanno mandato dagli zii. La tua infanzia è finita sul treno per Wolverhampton; con quegli sconosciuti avresti condiviso solo il nome. Eri una ragazza irrequieta; forse per quel senso di estraneità? A diciannove anni hai combinato un guaio; così grosso che hai fatto i bagagli. Hai deciso tu la destinazione; hai scelto quello zio che ti affascinava tanto, il pugile. Ma anche lì ti sentivi prigioniera. Thomas Conway doveva sembrarti un eroe romantico; eri incantata dai suoi racconti di terre esotiche, dalle canzoni. La sua libertà ti abbagliava; una vita girovaga che anche tu volevi vivere. Hai sfidato la famiglia ‒ dovevi tenerti alla larga da quel vagabondo ‒; lo hai seguito. Appena in tempo per evitare loro la vergogna; aspettavi un figlio. Eri la mano di Tom; ti dettava le canzoni, tu le scrivevi. La nascita di Annie non vi ha fermato; avete continuato a vagabondare. Poi siete tornati a Londra. Dalle tue sorelle il gelo; le gloriose speranze di Conway infrante. Tra voi due violenze, litigi; ti rifugiavi nell’alcol. Nel 1881 vi siete separati; le sorelle ti hanno respinta. Annie ti dava la colpa di tutto; non ha voluto più vederti. Anche tu sei finita a Whitechapel. Ti accompagnavi a John Kelly; ti andava bene. A unirvi era la necessità. Come te, amava bere; e non faceva domande. Nel settembre 1888 eravate insieme. Dopo, ha raccontato di te; ma non era attendibile. I suoi ricordi erano confusi; anche quelli relativi all’ultimo giorno. La sera di sabato 29 settembre vi siete persi di vista. Intorno alle 20.30 ti hanno arrestato; eri ubriaca. Ti hanno chiesto come ti chiamavi. “Niente”; hai risposto. Nel cuore della notte ti hanno rilasciato. Perché? Non vedevano che non eri ancora sobria? Nelle prime ore del 30 settembre le vie erano buie; appena illuminate dai lampioni a gas. Eri stanca; rassegnata a dormire sotto le stelle. Lì; in un angolino di Mitre Square. Hai scelto un punto lontano dalla luce; ti sei accasciata, la schiena contro il muro. Il tuo movimento; un tintinnio dalle tasche. Gli oggetti di latta che portavi con te; forse quel suono ti ha tradito. Forse ha attirato l’attenzione di lui; annidato nel buio, i sensi tesi a fiutare la preda. Hai chiuso gli occhi; ti sei persa nell’oblio del sonno.

Parlerò di te, Mary Jane. A Londra ti presentavi come Mary Jane Kelly; ma chissà qual era il tuo vero nome. Chissà quale la tua vera storia. Dicevi che eri irlandese; che eri vedova. Che hai vissuto a Cardiff; che lì frequentavi una cugina dalla condotta indecorosa. Questo raccontavi; intrecciavi verità e finzione. Tanti vuoti, tanti dubbi irrisolti. Cosa ti ha portato in una casa di tolleranza nel West End? Questo è il mistero più oscuro. Eri istruita, eccellevi nelle belle arti, avevi un’aria rispettabile; lo dicevano in molti. Alta, occhi azzurri e capelli folti; la tua bellezza fioriva nel fulgore dei vent’anni. Eri richiesta; eri ambita. Quel gentiluomo ti avrebbe portato a Parigi; hai accettato. Perché privarti di un’occasione? Ma qualcosa non era chiaro; un’ambiguità sospetta. Hai fiutato l’inganno; hai scampato l’irreparabile. Ti sei fatta nemici temibili; hai dovuto riscrivere la tua esistenza. Nel West End non c’era più posto per te. La tua nuova casa; il 79 di Pennington Square. Da sobria eri una ragazza amabile; ma quando bevevi diventavi litigiosa. Capitava troppo spesso. Sei diventata una “amica sgradita” ai padroni di casa; era tempo di cambiare aria. Non sei andata lontano; sei rimasta su Ratcliff Highway. Qualcuno chiedeva di te; tuo padre. Ma quale padre? Tu un padre non lo avevi più; sapevi bene chi era l’uomo sulle tue tracce. Cominciavi a preoccuparti del futuro; Joseph Fleming sembrò la risposta alle tue angosce. Vi siete innamorati; siete andati a vivere insieme. Un soffio; tanto è durata. Era violento? Ti maltrattava? Eccoti a Whitechapel, Mary Jane. Sempre vestita con cura; ironica, gentile. Ti amavano tutti. Ma se il volto sorrideva, l’anima era afflitta; eri stanca del mestiere, forse disgustata. Joseph Barnett è passato come una meteora nella tua vita; diciotto mesi insieme. Pochi, ma per un po’ ti ha strappato alla strada. Avrebbe pensato lui a te; avrebbe pensato a tutto. Non ha mantenuto la promessa; ha perso il lavoro. Gli vomitavi addosso la rabbia, la delusione; i litigi erano sempre più violenti. Sei tornata lucciola; contro la tua volontà, nonostante la tua volontà. Di chiudere per sempre quel capitolo. Nell’ottobre 1888 Jack the ripper seminava terrore; era sulla bocca di tutte voi donne, nei vostri incubi. Giovedì 8 novembre; la sera Barnett ha bussato alla tua porta. Se ne era andato di casa; ma non senza rimorso. Forse avete parlato, forse litigato; in ogni caso non avete ricomposto la frattura. Dopo un’ora ti ha salutato; lo hai guardato uscire. Cosa provavi per le ceneri di quello che eravate stati? Tu ormai eri un’ombra della splendente Mary Jane; lo diceva quel corsetto di velluto nero consumato. Lo diceva la gonna; un tempo quel tessuto era pregiato. Dove sei andata dopo essere rimasta da sola? Poco prima di mezzanotte qualcuno ti ha visto; eri piuttosto ubriaca. C’era un uomo con te; lo hai condotto nella tua stanza. Fino all’una del mattino ti hanno sentito cantare; all’una e trenta, il silenzio. Era il 9 novembre. Notte fonda, tempo di dormire; hai riposto con cura gli abiti logori. La fiamma della candela languiva; l’ultimo tremolio. Si è spenta; il buio. Sei scivolata sotto le lenzuola. Nelle tenebre si materializzano gli incubi; in quella tenebra si è materializzato l’incubo.

Le cinque donne di Hallie Rubenhold - Photo by Tiziana Topa
Le cinque donne di Hallie Rubenhold – Photo by Tiziana Topa

Il vostro peccato originale fu nascere donne; la vostra sventura fu nascere donne nell’età vittoriana. Il mondo vi voleva edera; solo sostenute da un uomo potevate sostenere voi stesse. Senza di lui, eravate viticci striscianti; vivi, ma caotici. Intralci sul sentiero della rettitudine; quello che le donne oneste dovevano mantenere. Bastava poco per cadere; per diventare perdute. Ma nemmeno ai vostri contemporanei era chiaro; quali erano le vere prostitute? Una donna povera e alcolizzata, costretta ad abbandonare i figli; che viveva in un alloggio; che non aveva una casa; che mendicava; che dormiva all’addiaccio. Costei infrangeva le regole del proprio genere; era un modello di femminilità traviata. Dunque era una prostituta; la parte malata della società. Quelle donne insultavano la decenza. Dove era decoro, portavano vergogna; e corruzione dove era ordine. Cosa fa rabbrividire? Un pensiero taciuto da molti; espresso da alcuni. Jack avrebbe usato bene la sua lama; Angelo della morte, avrebbe ripulito l’East End dalla sporcizia di un’umanità dissoluta. I valori vittoriani hanno trasfigurato le vostre storie; valori maschili, autoritari e borghesi. Abbiamo alimentato il mito di Jack; e abbiamo gettato altra terra sulle vostre tombe. Vi abbiamo spinto ancora più in fondo. Jack si è preso i vostri corpi, le vostre vite; il mondo si è preso la vostra Verità. E, così deformata, l’ha consegnata a noi; non abbiamo dubitato. Chissà, Polly; chissà se, ormai fredda di morte, hai udito le parole di William sulle tue carni straziate.

“Ti perdono per come ti sei ridotta. Ti perdono nel ricordo di quello che sei stata per me”.[1]

Perdonati anche tu Polly; perdonatevi tutte. Per le bambine che siete state; per le ragazze, le giovani spose, le madri amorevoli; per la vostra caduta. Anche voi eravate Bellezza. Perdonateci tutti.

 

Written by Tiziana Topa

 

Note

[1]  The Times, 3 settembre 1888.

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