“Self-portrait as Othello” di Jason Allen-Paisant: la Venezia impressa nella mia carne

“Il derubato che sorride,
ruba qualcosa al ladro […].” (Otello, il Moro di Venezia ‒ atto primo, scena III – W. Shakespeare traduzione di Goffredo Raponi / Che cosa sono le nuvole? (1968) P.P. Pasolini)

Self-portrait as Othello di Jason Allen-Paisant
Self-portrait as Othello di Jason Allen-Paisant

Venezia. Qui s’incrociano tutte le strade della mia vita. Un incrocio cosmopolita di genti, menti, anime e corpi. Mi trovo alla Cantina do Mori in Calle do Mori presso il mercato di Rialto. Il bacaro è stato aperto nel 1462, è ‒ forse ‒ il più antico di Venezia. Tutto è immerso in un’atmosfera vivace e fuori dal tempo. Campo S. Giacomo di Rialto, il ponte di Rialto ‒ il ponte più antico sul Canal Grande ‒ e ancor prima ponte di barche e poi di legno detto “de la moneta” non sono lontani da qui come pure il Mercato di Rialto dove, forse, E. Hemingway passeggiava flirtando con Adriana Ivancich ‒ in fondo anche io, come scriveva Ernest ad un amico “Sono un ragazzo del basso Piave… sono un vecchio fanatico del Veneto ed è qui che lascerò il mio cuore.”

Oggi a guidarmi lungo le calli e i campi della città in un itinerario fra passato e presente saranno le poesie dell’ultima raccolta poetica di Jason Allen-Paisant Self-portrait as Othello.

“Sul Ponte di Rialto mi guardo scivolare su distanze di tempo/ e di mari/ Rialto freme come il profilo della laguna/ come il sogno/ di marmo nelle mie vene/ onde che fluiscono verso il paese lontano/ e indietro a questo ponte/ verso il paese dove io imparai per la prima volta il nome Rialto

attraverso Shakespeare insegnato in una lingua giamaicana/ dove lo lascio risuonare/ echeggiare e svanire nel tempo/ ora io arrivo e lo scopro vero/ La Serenissima/ i miei sensi si librano/ come lingue di fuoco di Bellini/ come le spirali di fiamme di Tiziano e Giorgione Tiepolo e Tintoretto […].[1]“Sul ponte di Rialto” di Jason Allen Paisant

Dal ponte di Rialto mi immergo in una visione inondata di luce, di marmi e finestre dal gusto orientale ed il mio sguardo spazia lungo la linea di marea del tempo. Proseguo il mio cammino verso Piazza San Marco.

“I mattoni di Venezia si sbriciolano se li sfioro con le dita. Rosa carne o rosa cotto, colore antico. In questo giorno di pioggia rivelano luccichii di diamanti. I muri sono silenziosi quando piove. Venezia è una città di giardini invisibili, di rose e pettirossi nascosti, di rametti neri di pioggia. Poi è la trachite di passi, la sinfonia dei grigi. La pioggia sulle vetrate dei negozi dona una visione pointilliste. […] da una calle all’altra c’è solo il suo volto. […] Tu non sai quanto mi hai aiutato a capire, mi hai spiegato perché sono solo. Perché eri solo.” Così scriveva il poeta friulano P.P. Pasolini percorrendo le calli veneziane, come me e come mio nonno prima di me ed altri esuli arrivati dalle terre d’Istria e dalla Dalmazia. “Foresti e Schiavoni” si direbbe in dialetto veneziano.

“A Venezia le teste del Moro sono ovunque” scrive Allen-Paisant. Ci sono molti luoghi a me cari qui a Venezia ‒ c’è un che di nostalgico e sentimentale a immaginarli calcati dai passi di Marco Polo, A. Dürer, L. da Vinci, Giorgione, Tiziano, Veronese, Tintoretto, Canaletto, J. Brodskij… Uno di questi luoghi del cuore è il Campo dei Mori su cui si affaccia palazzo Mastelli del Cammello adorno delle statue di Sior Antonio Rioba con i suoi fratelli Sandi e Afani, mercanti greci originari della regione greca un tempo chiamata Morea. Sono arrivato a Piazza S. Marco, alle mie spalle la Torre dell’orologio detta dei Mori, teste di Moro mi osservano dai capitelli di Palazzo Ducale.

“Mori” chi siete? La parola deriva dal latino Maurus ed è stata originariamente utilizzata per riferirsi ai Berberi e altri popoli dell’antica regione romana della Mauretania e Numidia, nell’attuale nord Africa, nonché dal greco Mauros (abitante originario di Morea). Con il passare del tempo il significato è stato esteso ai musulmani che vivevano in Europa. All’inizio del Rinascimento, “moro” o “moresco” venivano utilizzati anche per descrivere qualsiasi persona di carnagione scura.

Nel 711 d.C. un gruppo di nord africani musulmani, condotti dal generale berbero Tariq ibn-Ziyad, si impossessò della penisola iberica (oggi Spagna e Portogallo). Con il nome di al-Andalus, il territorio diventò un florido centro economico e culturale, dove l’istruzione, le arti e le scienze prosperavano. Successivamente alla battaglia di Granada e all’espulsione dei Mori dalla Spagna il termine “moro” venne usato per riferirsi a chiunque avesse un incarnato scuro o fosse musulmano.

Uno dei riferimenti più celebri ai Mori è quello di Shakespeare nella Tragedia di Otello, il Moro di Venezia. Il protagonista è un Moro, generale dell’esercito veneziano. (Ai tempi di Shakespeare, la città portuale di Venezia era molto varia a livello etnico e i Mori erano la rappresentazione di un continuo scambio fra Europa, Medio Oriente, Asia e Africa). Nonostante il suo valore militare, Otello è descritto come un esotico e inaffidabile ‒ un “Moro lascivo” che sposa segretamente una donna bianca ‒ e riflette storicamente gli stereotipi sui neri.

Self-portrait as Othello di Jason Allen-Paisant edito da Carcanet Press nel 2023 è la seconda raccolta del poeta e accademico giamaicano successiva a Thinking with Trees (2021). Le poesie di questo volume intrecciandosi fra loro riflettono l’immagine di un Otello immaginario ‒ quasi una sorta di lente estraniante ‒ immerso nei paesaggi urbani delle moderne Venezia, Londra e Parigi e nel contempo creano le forme narrative che egli potrebbe utilizzare per raccontare l’intersezione delle sue identità. In parte memoir intellettuale ed esperimento ecfrastico, Self-portrait as Othello si sviluppa attorno ad un personaggio nel contempo reale ed immaginario. Otello incarna una sorta di “struttura di sentimento” (una percezione che andava delineandosi già nella Venezia del XVII secolo) ancora presente fra noi, un corpo “incongruente con la società egemonica”, una figura di molteplicità che, in quanto tale, sotto l’impulso delle logiche dello stato/nazione produce “l’alter”, il deviante. Secondo l’autore questo stigma ascritto all’identità dell’immigrato lo pone in una condizione tale da abitare in una dimensione liminale, una risorsa che gli consente di trovarsi al di fuori dagli indicatori paradigmatici dell’esperienza temporale tipicamente “bianca”. Attraverso questo progetto letterario l’autore intende indagare il mistero del razzismo, la sua comparsa come sistema di pensiero che ci definisce ancora oggi, la sua permanenza ed elusività. Una speculazione che consente di guardare nel passato con occhi curiosi e nel contempo nel presente verso quei corpi “neri” visti/trattati come “alieni”, verso quegli immigrati “sintomi post-coloniali” (Anna Marie Smith), come abitino i loro corpi/menti mentre “navigano attraverso ambienti ostili” creati dalla società, dallo stato, ecc. Il volume si interroga in merito al vocabolario visivo e spaziale degli inizi del XVII secolo riguardo l’immagine dello straniero maschio di pelle scura e come esso ci parli del mondo attuale. Ritraendo se stesso come Otello, Allen-Paisant osserva come “Il Moro rimane invisibile, nonostante l’ossessione per il suo corpo” e rifrange i suoi viaggi in Europa e propone una meditazione profonda e generosa sulla mascolinità, sul corpo maschile “nero”, la sua presenza, trasgressività e vulnerabilità. Il corpo “nero” è siglato come uno spazio aperto, sia fisicamente che psichicamente. Come scrive a riguardo la scrittrice e poetessa canadese nativa di Trinidad Dionne Brand:Uno spazio non posseduto semplicemente da quelli che lo incarnano ma costruito e occupato da altre incarnazioni”.

The Black body is signed as physically and psychically open space… A space
not simply owned by those who embody it but constructed and occupied by
other embodiments. Inhabiting it is a domestic, hemispheric… transatlantic…
international pastime. There is a playing around in it […].Dionne Brand, A Map to the Door of No Return

L’intersezione d’identità di Otello come “immigrato” e “nero”, che spesso operano come vettori che si rinforzano vicendevolmente, ci parlano nel panorama dell’Europa del XXI secolo.

In questa sua ultima opera poetica è un aspetto fondante la meditazione filosofica profonda e intensa venata di precarietà e ambiguità sulle tematiche dell’assenza, dell’identità, della perdita, del linguaggio, della rappresentazione e dell’arte. La lingua straniera con un suono che si suppone alieno, per Allen-Paisant, diventa un luogo d’affinità elettive, dove tornare a casa come dopo un lungo esilio. Per l’autore c’è un’intima relazione fra paesaggio e lingua. Entrambi sono immaginari e tuttavia fisici. La lingua è un luogo di cui il poeta ne percepisce la consistenza carnea, lo spessore mentre ci affonda e l’ombra fresca mentre gli fa scudo. La lingua madre di questo libro appartiene a “Mama”, una nonna che ha cresciuto l’autore, mentre “No-Dad” contemporaneamente resta un’assenza ed attesa sospirata. In questo contesto di “desiderio di padre” il “soldato africano” che è diventato il “Moro di Venezia” è sinonimo di una presenza.

Attraverso le tre sezioni del volume versi e immagini si intrecciano creando reciproche intersezioni, dialogano fra loro generando nuovi schemi tematici e linguistici. Arricchita dalla ricerca storica, Self-portrait as Othello celebra la rappresentazione, la comprensione e il linguaggio come atti di resistenza gloriosa.

Per Jason Allen-Paisant la poesia è un differente senso del tempo. È forza vitale, è il modo in cui lingua e suono ci permettono di sentire la nostra umanità nel modo più intenso, è una forza umanizzante a dispetto delle differenti forme di dominazione che hanno prodotto le nostre società.

Le poesie della prima sezione della raccolta di Allen-Paisant si possono interpretare come una sorta di rito di passaggio. All’inizio della raccolta il poeta evoca la figura di Baudelaire. Un flâneur ‒ apolide esistenziale ‒ che muovendosi attraverso spazi cosmopoliti e luoghi liminali si trova in quei luoghi ma senza mai appartenervi.

In Self-portrait as Othello come nell’Ulisse di Omero e anche in quello di Joyce l’eroe rappresenta l’avventura dell’uomo nel mondo. Il protagonista, viaggiando, costruisce la propria identità, arricchendosi delle diversità con cui entra in contatto, senza risultarne distrutto o assorbito. Inoltre, proprio come nell’Odissea omerica, l’opera di Joyce non ha come punto di riferimento esclusivamente la soggettività della poesia, ma la cultura e la storia dell’umanità (che nell’Odissea era rappresentata dalle diverse terre esplorate da Ulisse, mentre nell’opera di Joyce dalle diverse personalità che l’eroe incontra). L’autore afferma infatti che: Nella concezione e nella tecnica ho cercato di raffigurare la terra che è pre-umana e presumibilmente post-umana. È l’epopea di due razze (israelita e irlandese) e al tempo stesso il ciclo dell’intero corpo umano […].

La prima parte del volume (la sezione più importante) è inoltre caratterizzata dalla freschezza delle modalità che il poeta utilizza per esplorare idee stratificate e complesse in maniera efficace e giocosa.

Nella seconda sezione Allen-Paisant approfondisce alcune tematiche concentrando la sua meditazione sulla figura di Otello. Otello si scioglie dalle suggestioni sensoriali del momento non aggrovigliandosi nel contingente ma restando un personaggio immanente all’ideazione. Otello lo straniero si fa a volte apparizione, ossessione o visione filtrata dell’alteritàL’io poetico dell’autore ci prende per mano guidando il lettore in un viaggio attraverso lo spazio ed il tempo, nei panorami interiori, nei luoghi del cuore, nei paesaggi dell’anima e si va… La Giamaica, Oxford, Parigi, Praga, Roma, Venezia irreale nel tramonto ove il fuoco discende nella laguna segna un passaggio dimensionale, di lingue, luoghi, non luoghi e percezioni come attraverso un crocevia cosmopolita.

La terza sezione contiene una breve selezione di poesie dal tono più intimista inerenti il tema della perdita e del ritorno a casa. Alcune di esse si distinguono per versi evocativi, sinestesici che stuzzicano tutti i sensi del lettore.

Viene qui di seguito proposta in esclusiva per Oubliette Magazine la poesie di Jason Allen-Paisant The Picture and the Frame / Il quadro e la cornice tratta dalla silloge poetica Self-portrait as Othello, pubblicata in Inghilterra da Carcanet Press (2023) qui nella traduzione di Emanuela Chiriacò per gentile concessione dell’editore, dell’autore e del traduttore. Si ringrazia l’agente letterario Emilia Mirazchiyska per l’intermediazione letteraria internazionale.

“Il quadro e la cornice” di Jason Allen-Paisant

“Non ho trovato un’espressione per indicare l’effetto della luce sull’acqua
altra da mare=ballerina, quella inventata da Gino Severini.
*
Nulla ha senso prima che abbia senso nel corpo, fino a quando il
il corpo non è presente alla creazione del senso.
*
Ci sono un paio di persone che vendono oggettini in piazza San
Marco. Come dovremmo chiamare questi oggettini, visto che non
ha importanza cosa sono davvero? Lanciano questi oggetti
in aria. Uno lo avvicino e gli chiedo cosa siano. ‘Lanza’, dice.
Un giocattolo per bambini. Per prova, ne lancia uno, e lo
riacchiappa. 8 euro, dice. Ci sono questo paio di persone. Le ho viste
che vedevano con i piedi, la schiena, tutto il corpo.
Le ho viste che sapevano quando scappare dalla polizia prima
che la polizia s’intravedesse. Le avete viste anche voi?
*
Sono otto anni che provo a dare un nome a questa consapevolezza
impressa nella mia carne.
*
Mare=Ballerina dovrebbe parlare di una ballerina, una che, nei suoi
movimenti, evoca l’infrangersi delle onde sulla battigia.
A me, evoca la luce sul Canale e le sue case,
la Venezia che ho visto, chiedendomi cosa vedesse il Moro, quel Moro
che arrivò qui a un certo punto nel XVI secolo e che
avrebbe potuto trovare casa nel Miracolo della Croce
a Rialto di Carpaccio. Che avrebbe potuto essere quel
gondoliere, il tizio elegantone. Quella Venezia, quel canale,
quella luce vista dalle finestre orientali.
*
La Venezia impressa nella mia carne, come se lo spirito del mare delle
mie parti fosse sempre qui.
*
Di dove sei? Le persone che vendono oggettini si rivolgono
così quando i nostri sguardi si incrociano. È l’unico modo di rivolgersi,
come a dire, perché, chi sei, tu, quiche mi guardi.
Ali, 21 anni, dal Senegal, prova a indovinare da quale paese africano io venga.
Vende braccialetti. Compra un braccialetto per aiutarmi, pour me soutenir. Leghiamo
grazie alla lingua francese. Ci muoviamo nel vasto
mondo, costretti alla fluidità. Non è da me, ma va bene. Me
ne da un altro gratis. Porte-bonheur. Pour les
enfants.

Ne Il Convito a casa di Levi del Veronese, concepito in realtà come
una raffigurazione de L’Ultima Cena prima che l’artista si scontrasse con
l’Inquisizione, un giovane uomo, dalla pelle scura in tunica rossa
e turbante condivide la cornice con Gesù e con gli apostoli.
D’un tratto, con la tela edonistica del Veronese, si entra
in un’epoca senza entrarci davvero. Il dipinto inganna
l’occhio del pubblico. Mostra la porta di una camera senza
chiave alcuna per accedervi. La sola consolazione è dire,
Ho capito che eravamo lì, il più delle volte lì, in un’altra epoca.
Senza alcuna testimonianza (scritti, iscrizioni, libri, leggende) che leghi
quell’epoca al presente, tutte le storie devono essere inventate –
reinventate.
*
Nella vetrina di Nardi, la gioielleria, ci sono spille con il
moretto. Ci sono anelli di diamanti e rubini con teste in miniatura
di ebano scolpito di mori col turbante.
*
La storia interposta della rappresentazione del mio corpo nel testo.
*
Per il Veronese, quel dipinto era tutta un’invenzione, e per questo,
si è preso un’enorme licenza dalla dottrina teologica.
*
Ci sono teste del Moro ovunque. Non è quello il punto.
*
Ci si chiede che tipo di personaggio sia, quell’africano col turbante rosso
al banchetto di un principe rinascimentale. Sta parlando
con un uomo bianco e grasso in abiti eleganti. Il tizio grasso
guarda lontano con aria distratta. Non si può fare a meno di notare
l’espressione furba sul volto del tizio africano, e solo dopo un po’ ci si
accorge che infila la mano nella borsa dell’altro uomo. Deludente a dir poco. Le altre figure africane nella tela occupano
ruoli servili, come i paggi, eppure sono a loro agio lì.
Guardano le persone negli occhi e fanno persino conversazione.
Ambigui. Ma con l’ambiguità, mi trovo a entrare in una
storia diversa della rappresentazione. L’ambiguità è una cazzo
di rivoluzione. Fa rimanere quasi senza fiato.
*
Tutto ciò che ho è l’inventiva. Tutto ciò che potrei fare è inventare. Ero
stanco di inventare cose.
*
Sono tutte cose che l’osservatore europeo non può capire, tutte
cose che non si è concesso di capire.
*
Il Moro resta impercettibile, malgrado l’ossessione per il suo
corpo.[2]

Qui di seguito una breve nota a margine: nel testo poetico è degno di menzione la parola “Lanza”: il termine italiano “Lancia” pronunciato in modo errato da parte di un ambulante straniero. Un hapax legomenon per la lingua inglese, un quadro ultra-contemporaneo dell’evoluzione della lingua catturata nel suo svolgersi.

Passeggiando per Piazza S. Marco giungo dinnanzi alla vetrina della gioielleria Nardi. Il tradizionale monile detto “moretto veneziano” ‒ citato da Allen Paisant ‒  è il gioiello simbolo della tradizione orafa veneziana nato nel ‘500 dalla sintesi di svariate suggestioni culturali ed è stato reso famoso nell’ultimo secolo da uno dei più importanti gioiellieri di Venezia, la Gioielleria Nardi. Questo pezzo di gioielleria trova un suo corrispettivo nel mori, morij, morči o morčić fiumano, un tradizionale portafortuna croato (schiavone in dialetto veneziano) tipico del golfo del Quarnaro e della costa dalmata (segno di identità e di appartenenza alla città di Fiume e alla regione litoranea croata nonché di status sociale e potere economico), latore d’ottimismo, energia positiva e protettore dalla sventura in particolar modo per i naviganti e i pescatori, veniva regalato alle donne in particolari occasioni quali il matrimonio o la nascita di un bambino o come ex-voto nelle feste patronali. Questo monile è presente nel portagioie di ogni famiglia. Il morčić è protagonista di numerose storie popolari; le sue proprietà miracolose sono state decantate da poeti e in numerose leggende: una di esse racconta della grande battaglia avvenuta nella Piana di Grobnik nel XVI secolo e della vittoria miracolosa delle genti di Fiume contro le invincibili armate turche sterminate da una pioggia di pietre cadute dal cielo – in versioni più antiche si fa riferimento alle invasioni tartare del 1200. Altre leggende ambientate nella penisola di Sabbioncello raccontano che il monile sarebbe nato in ricordo di una donna “mora” cui la sua padrona, una contessa italiana, aveva concesso la libertà.

Solitamente il “moretto” croato si presenta nella forma di orecchino antropomorfo, costituito dalla rappresentazione di una testa di un uomo di pelle scura e turbante bianco. Tale raffigurazione può essere inclusa anche in spille, anelli o altre decorazioni. La creazione del moretto venne fortemente influenzata anche dalla moda veneziana (una sorta di osmosi si potrebbe dire), che fra XVII e XVIII secolo era molto ispirata dalla cultura orientale, dalle merci e dai gioielli provenienti dall’Oriente. Nelle magioni dei nobili della Serenissima lavoravano servitori e paggi di “colore” vestiti con ricchi abiti orientali, nelle calli e nei campi della città lagunare si aggiravano mercanti e ambasciatori provenienti dal Medio Oriente. Ciò portò molti orafi veneziani a creare spille decorative e forma di moro con il turbante e il busto in ebano realizzati con le migliori tecniche apprese dall’oreficeria locale e riccamente decorati con pietre preziose, perle e coralli, denominati appunto “moretti veneziani”.

I moretti ritraggono una figura principesca mediorientale idealizzata (spesso riconducibile alla descrizione del leggendario Baldassarre, uno dei tre Magi o del mitico re Menelik I) come una sorta di esotico “altro”, una figura di nessuno e di tutti i luoghi allo stesso tempo, una figura verosimilmente tanto veneziana quanto Marco Polo.

Nel medesimo periodo comparvero a Fiume i primi moretti fiumani realizzati in smalto di vetro bianco/nero. Il nome deriva dal termine mori, che all’epoca indicava i musulmani o, per estensione i pirati saraceni. Le origini dei gioielli rimandano infatti all’epoca in cui i Saraceni compivano razzie sulle coste dalmate, area d’influenza della Serenissima sull’Adriatico che all’epoca si estendeva per buona parte del Mediterraneo fino alle coste dell’attuale Turchia. I moretti veneziani sono un oggetto ambito di collezionismo d’elite, e sono stati apprezzati da diversi personaggi di spicco quali G. Kelly, E. Hemingway, A. Rubinstein, L. Taylor, ecc.

Mi trovo in Riva degli Schiavoni dove un tempo attraccavano le navi mercantili provenienti dalla Dalmazia, la terra d’origine dei miei avi. Fra il viavai di turisti intravedo dei venditori ambulanti di colore. Anche Allen-Paisant incontra un venditore ambulante senegalese di nome Alì...  Alì come l’Alì dagli occhi azzurri, personaggio della poesia Profezia di P.P. Pasolini in cui il poeta friulano anticipa il fenomeno migratorio verso l’Italia: “[…] scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi. / Saranno con lui migliaia di uomini coi corpicini / e gli occhi di poveri cani dei padri / sulle barche varate nei Regni della Fame. / Porteranno con sé i bambini, / […] su triremi rubate ai porti coloniali. / Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, / vestiti di stracci…”.

“Il razzismo è un odio di classe” afferma P.P. PasoliniÈ l’odio che nasce dal conformismo, dal culto della istruzione, della prepotenza della maggioranza. È l’odio per tutto ciò che è diverso, per tutto ciò che non rientra nella norma, e che quindi turba l’ordine borghese. Quindi odio contro i negri, i gialli, gli uomini di colore: odio contro gli ebrei, odio contro i figli ribelli, odio contro i poeti. Fin che l’umanità sarà divisa in padroni e servi, non ci sarà né normalità né pace. La ragione di tutto il male del nostro tempo è qui.”

“Forse la vita comincerà/ quando gli angeli della rassegnazione/ ‒ i poveri di spirito, i miti, i feriti,/ gli infelici, gli Ebrei, i negri,/ […] i popoli perduti/ nel candore delle barbarie,/ tutti coloro che vivono consacrati/ alla umiliante diversità, commetteranno violenza. […]/ a Buchenwald, guardateli, se vivi,/ come non hanno ancora imparato del tutto/ la vita: […]” Monologo sugli ebrei, 1962

La poesia di Allen-Paisant si accosta alla poetica di Pasolini, nel topos potente e incantatore dell’oppresso e dell’“altro”. Fra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, Pasolini utilizza il termine “Lager”/ “Buchenwald” come un codice con cui evidenziare gli orrori del capitalismo: “Siamo sempre alla nozione di campi di concentramento […]. Le borgate democristiane sono identiche a quelle fasciste, perché è identico il rapporto che si istituisce tra Stato e “poveri”: rapporto autoritario e paternalistico, profondamente inumano nella sua mistificazione religiosa.” “Buchenwald” è un termine ricorrente nella poesia pasoliniana che: “[…] forse si può definirlo meglio, questo concetto, se s’identifica l’Africa con l’intero mondo di Bandung, l’Afroasia, che, diciamocelo chiaramente, comincia alla periferia di Roma.” (La Resistenza negra, 1961). Il rispetto che Pasolini aveva per l’Africa è dimostrato dall’aver dato voce, negli Appunti per un’Orestiade africana ‒ documentario/diario di viaggio/saggio per immagini neorealista del 1970, agli universitari africani che frequentavano La Sapienza, i quali già all’epoca paventavano il rischio di perdere le proprie radici e nutrivano dubbi sulla sostanza della democrazia introdotta dall’Occidente. L’Africa come un palcoscenico ideale per una Orestiade del Novecento ‒ purtroppo un incompiuto, un viaggio per città e villaggi sulle tracce di una società sospesa fra industrializzazione e patrimonio spirituale/ancestrale alla ricerca delle origini dell’umanità in una sublimazione di colori, suoni e profumi del continente, una bellezza primigenia, onesta e primitiva dell’umanità che aveva ispirato Matisse e Picasso. La ricerca di una “possibilità di una diversità”, cioè di uno sviluppo che salvaguardasse l’identità africana nella sfida Africa-Occidente nel violento e “magico” processo metamorfico dal mondo arcaico verso la modernità.

“Filtrata dalla sua concezione epico-religiosa-marxista della storia, rimodellata e squadrata attraverso la critica alla civiltà dei consumi, corrisponde a un bisogno dello scrittore, intento alla ricerca di un altrove arcaico e selvaggio da contrapporre all’Occidente razionale e capitalista, in cui far convergere tutti i Sud del mondo. […] I popoli africani, considerati arcaici e fuori dalla storia, accomunati dall’essersi appena liberati dal giogo coloniale, diventano gli esponenti di un sottoproletariato universale che, per la propria vitalità e purezza, potrà riuscire dove altri sottoproletari hanno fallito: costruire una nuova coscienza storica capace di ribaltare i rapporti di forza e cambiare il corso degli eventi. L’Africa è il perno geografico della rivoluzione. […] Pasolini mette in gioco una serie di elementi visionari e anticipatori, che colpiscono per la loro modernità e il loro coraggio, riguardanti i movimenti migratori e le afrodiscendenze. […] Ma chi sono “i Negri”? E dove comincia l’Africa? È nella risposta a queste domande che si può cogliere la portata della visione pasoliniana: il legame fra africani, afroamericani e diseredati di tutto il Sud del mondo (panmeridionalismo). E questo Sud comincia alla periferia di Roma. Non è delimitato dalla linea del colore né dalle coordinate geografiche, ma dai rapporti di produzione e dalla subalternità.” ‒ S. Ragusa

“Il problema veramente scottante e attuale, ora, ‒ gli Anni del Terzo Mondo e della Negritudine ‒ è la “trasformazione delle Erinni in Menadi”: e qui il genio di Eschilo ha tutto prefigurato. Tutte le persone avanzate sono d’accordo […] sul fatto che la civiltà arcaica – detta superficialmente folclore – non deve essere dimenticata, disprezzata e tradita. Ma deve essere assunta all’interno della civiltà nuova, integrando quest’ultima, e rendendola specifica, concreta, storica. Le terribili e fantastiche divinità della Preistoria africana devono subire lo stesso processo delle Erinni: devono diventare Eumenidi.” ‒ P.P. Pasolini

Sorprendente è il parallelismo fra l’opera di Allen-Paisant (il teatro ha influenzato la sua poesia) ed il film pasoliniano Che cosa sono le nuvole? (1968). Shakespeare affermava che il mondo è un palcoscenico e noi siamo comparse. Ebbene in questa opera cinematografica di Pasolini che è un’ispirata allegoria della vita, la tragedia shakespeariana di Otello viene proposta in una chiave delicatamente surreale. “Ne sono interpreti alcune marionette parlanti, metà uomini, metà pupazzi. Il vero protagonista è Jago-Totò, che architetta alle spalle dell’ingenuo Otello (alter ego di Pasolini ‒ puro e incontaminato come la verità dentro di noi) il falso tradimento di Desdemona con Cassio, vantandosi con il pubblico della propria perfidia. All’ingresso dello strampalato teatro il titolo dello spettacolo del giorno Che cosa sono le nuvole? è sovrapposto e messo in relazione con Las Meninas di Velasquez: la scelta di utilizzare il quadro raffigura visivamente la visione di sacralità dell’autore. Infatti Pasolini ci invita ad entrare dentro il quadro, mostrandoci il doppio livello della messa in scena: da una parte la tragedia rappresentata dai pupi-personaggi, dall’altra la prospettiva secondo la quale lo “spettatore” sarebbe solo osservatore falsamente privilegiato me che in realtà non può vedere, né percepire i dialoghi e i caratteri dei pupi/attori, non può entrare nelle pieghe recondite, in quelle sfumature segrete e “irrazionali” del senso, non può calarsi nell’abisso della rappresentazione che si svolge. […] Pasolini ci invita a trovare la “verità” dell’inganno: il bene nel male, la realtà nella finzione, le cose importanti nelle futili […] proponendo continuamente doppi piani di lettura.” ‒ D. Gallo.

Come afferma il burattinaio (simbolo dei condizionamenti, cattiva cultura, pregiudizi, giudizi altrui, ecc.) all’inizio della rappresentazione: “Questa non è solo la commedia di ciò che si sa, ma anche di ciò che non si sa.”

Dorsoduro ‒ il mio itinerario veneziano prosegue lungo le sale delle Gallerie dell’Accademia. Mi attendono le opere di V. Carpaccio e del Veronese. Il telero di V. Carpaccio del 1494 conosciuto con il titolo L’esorcismo dell’indemoniato o Il miracolo dell’ossesso (realizzato per la Scuola Grande di S. Giovanni Evangelista, conservato presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia nella sala “Miracoli della Croce” con altri sette teleri dipinti alla fine del Quattrocento dai più importanti “pittori di cerimonia” dell’epoca: G. Bellini, V. Carpaccio, G. Mansueti, L. Bastiani) venne dipinto per la sala che custodiva la reliquia della Croce nella Scuola Grande di S. Giovanni Evangelista. La scena ci descrive la miracolosa guarigione di un indemoniato ottenuta dal Patriarca di Grado Francesco Querini per mezzo di una reliquia della Croce. Il fatto ha luogo a Rialto sul loggiato superiore del palazzo del patriarca. Una veduta urbana brulicante di vita. La luce vibra liberamente su ogni dettaglio, creando quella particolare atmosfera in cui sembra che l’aria circoli liberamente. La migliore verità ottica veneziana, che non avrà rivali fino al tempo del Canaletto.  Come ci insegna G.C. Argan la pittura di Carpaccio “vede e comunica ciò che si vede”, non insegna a pregare, filosofare, fantasticare. Il suo è “vedutismo” che si rifà alla cultura empirica diffusa in quel tempo dall’Università di Padova dove dominava lo studio della dottrina di Aristotele. Una cultura fondata sulla “positività dell’esperienza”.

“Questa presenza ci obbliga a porci alcune domande. Di certo non può essere uno spregio, non sarebbe così elegantemente vestito e ancor meno in primo piano. L’ipotesi più plausibile, visto che viene narrato un miracolo è evidenziare che Venezia non aveva pregiudizi razziali: davanti a Dio siamo tutti uguali. […] Perché il moro vogatore indossa abiti così lussuosi? A mio avviso per farci sapere che il presunto datore di lavoro era un signore e teneva molto, anche nel caso fosse stato “al personale”. A Venezia già nel XIV secolo si erano formati e costruiti i primi gruppi cavallereschi, composti prevalentemente da giovani chiamati Compagnie della Calza. […] Avendo riscontrato numerosi compagni di calza raffigurati su dipinti di Bellini, Mansueti, Bastaini in scene prettamente religiose, miracoli della croce, processioni sacre, è ovvio ritenere che si interessassero non solo d’occasioni d’incontro laico-gaudenti, come fino ad oggi le ricerche ci portano a desumere, ma anche situazioni laico-sacre, quantomeno come committenti. I compagni di calza sono iconograficamente riconoscibili per gli abiti indossati e in particolare per gli emblemi ricamati spesso sulla manica o sul pantalone, una sorta di calza maglia, chiamata braghetta. Tutti i vogatori sono stati riconosciuti come compagni di calza, perché non dovrebbe esserlo anche il vogatore moro? Se così fosse si attesterebbe che il “moro” è un nobile perché nelle “compagnie di calza” l’iscrizione era concessa solo ai nobili. Certo è che questa presenza in primo piano non è assolutamente casuale e che i committenti dell’opera, i confratelli della Scuola Grande di S. Giovanni Evangelista, legati al culto della “Croce”, l’hanno accettata e approvata.”[3]

Il Convito in Casa di Levi, citato dal poeta, nonché particolarmente caro a E. Hemingway, è un dipinto del Veronese del 1573, custodito alle gallerie dell’Accademia di Venezia e proveniente dal refettorio del grande convento domenicano di Santi Giovanni e Paolo. Il telero fu eseguito in sostituzione di una tela di analogo soggetto di Tiziano bruciata in un incendio. L’opera evidenzia gli straordinari raggiungimenti artistici del Veronese, qui capace di far coesistere sapientemente elementi di retorica teatralità con movimentati momenti di frizzante convivialità in una cornice architettonica monumentale di un ricco ambiente rinascimentale tipicamente veneziano. L’opera è anche celebre per essere stata al centro di un famoso episodio di “censura” artistica da parte del Sant’Uffizio che accusò il pittore di eresia per aver trattato senza il giusto decoro il tema dell’Ultima Cena, trasformandola in un banchetto e arricchendola di presenze inconsuete. In particolare, gli inquisitori interrogarono il pittore sulla scelta di inserire figure come il servo che perde sangue dal naso, il buffone nano con il pappagallo e persino alcuni alabardieri “armati alla tedesca” (identificabili come protestanti) – precisi indizi che si volesse dileggiare il sacramento. In sua difesa il Veronese ribadì, con ingenuità, il diritto del pittore ad usare la fantasia e a porre figure di “ornamento”, prendendosi la stessa licenza che è concessa ai poeti e ai “matti”, stando tuttavia attento a porre tutte le figure più fantasiose all’esterno dello spazio occupato dal Cristo. Obbligato comunque ad emendare gli “errori” contenuti nel dipinto, di fatto già ultimato, il pittore optò più semplicemente per modificarne il soggetto, trasformando quella che doveva essere una Ultima Cena, in un Convito a casa di Levi, ovvero proprio in una scena di banchetto, esplicitando in primo piano il riferimento al quinto capitolo del vangelo di Luca. Un quadro che nei secoli è stato soggetto di numerose e variabili suggestive interpretazioni: a partire dalla proposta del priore di S. Zanipolo di inserire una Maddalena (proposta poi cassata dal pittore) alla possibile interpretazione del dipinto come l’annuncio del tradimento futuro di Giuda. Un quadro caratterizzato dalla presenza di numerose figure africane o meglio di “mori” (paggi, servi, personale di servizio) che come sottolinea Allen-Paisant appaiono a loro agio in quella situazione ‒ la loro presenza non è stata messa in discussione dalla Santa Inquisizione ‒ eppure figure cariche di un’intrinseca ambiguità che vanno dal moro in abito rosso e dallo sguardo furbo che infila la mano nella borsa di un altro convitato al paggio vestito di seta gialla fra S. Pietro ed il Cristo che regge in mano un pregiato calice in vetro… Come sosteneva già Ruskin in merito a Venezia: “Dappertutto nel resto d’Italia la religione era diventata un fatto astratto, essa era teoricamente opposta alla vita temporale […] a Venezia tutto questo fu rovesciato così sfacciatamente, e con un tale apparente irriverenza da scandalizzare uno spettatore abituato alle cerimonie […].”

Il mio soggiorno veneziano si avvia verso la sua conclusione. Passeggio lungo le sale del Museo della Fondazione “Peggy Guggenheim” ed ecco il dipinto intitolato Mare=Ballerina. Nel 1913 Severini si trovava nella città costiera di Anzio. È qui che ha l’ispirazione di dipingere Mare=Ballerina[4].

Le pennellate di colori puri derivano dal Neoimpressionismo, ancora alla moda quando l’artista si trasferisce per la prima volta a Parigi, nel 1906. La tecnica conferisce fluidità ed energia a questo soggetto gioioso che vede la ballerina e il mare fondersi (il costume della ballerina e il frangersi delle onde sono analoghi). Il mare non può essere racchiuso da una cornice e le onde ne lambiscono i bordi, avanzando verso l’osservatore. Il titolo della poesia rimanda a questo luogo liminale, linea di marea su cui si muove proprio il poeta. Il poeta intuisce la visione di un Altrove, come diceva Emilio Vedova: “A me interessa il prolungamento del mio essere, lo sprofondamento dentro lo specchio della pittura. Vorrei spezzarmi, lacerarmi nel suo riflesso. Abitare sempre al di là, oltre la pura superficie.” Allen-Paisant come ogni artista per via della sua relativa capacità di adattamento si colloca ai margini dei modi di vivere consueti, lungo il confine/cornice fra conscio e inconscio ‒ come avrebbe detto Junge nei punti più fragili e sottili del tempo cui appartiene. La via più indicata per entrare in contatto con l’inconscio e ricavarne, in anticipo sui tempi, quella visione che l’epoca storica presagisce e di cui sente, senza saperlo, la mancanza.

I versi di Allen-Paisant richiamano anche i versi della poesia “Mediterraneo” di E. Montale e il mare che ispira a U. Saba riflessioni esistenziali ‒ immagine fragile e imperitura di se stesso ‒ in un crocevia di culture che è Trieste similmente a Venezia.

Nell’opera di Jason Allen-Paisant si rintracciano i principi ispiratori del Movimento Black Lives Matter quali il rispetto e sostegno delle differenze e delle comunanze, l’internazionalismo, il trasversalismo e la centralità dell’identità nera, baricentro e origine di ogni rivendicazione di giustizia sociale per la comunità nera in primis, e di conseguenza per gli altri.

Il poeta giamaicano raccoglie l’eredità della poesia americana del primo del Novecento ‒ quella poesia nata dal patto fra E. Pound e W. Whitman per sanare la frattura fra Ottocento e modernismo ‒ quel terreno fertile che negli anni Venti diede linfa vitale al talento di L. Hughes, uno dei grandi dell’Harlem Renaissance, e alle voci di Z.N. Hurston, J. Toomer e C. Cullen. Voci altissime che denunciarono la condizione di un popolo libero dalla schiavitù ma oppresso da nuove forme di segregazione razziale, un’esigenza nata dalla presa di coscienza del “nuovo nero”, un cittadino consapevole della propria identità. Come afferma Jericho Brown, poeta di Shreveport e premio Pulitzer: “I grandi cambiamenti si rivelano innanzitutto attraverso il corpo. […] Il corpo è un veicolo per esprimere emozioni potenti. […] Chi ti opprime lavora nel profondo della tua anima per renderti insensibile. […] La poesia ci ricorda che siamo ancora capaci di provare emozioni.” La risonanza fra la poetica di Allen-Paisant e Brown traspare lampante dall’allegoria della poesia “Ganimede” (La tradizione di J. Brown, traduzione e cura di A. Francini, Donzelli 2022). J. Brown afferma: “I “bianchi”, questi uomini divini, venivano a prendersi in nostri figli in Africa e come potevi dubitare che non li portassero in qualche paradiso? Ecco la promessa del capitalismo: come potrei farti del male, se sono disposto a comprarti? La proprietà è preziosa. Come potrei danneggiare un mio bene di proprietà? Con la tua forza lavoro io acquisto in solido il colore della tua pelle e la tua anima celata in quel colore.”

I versi succitati sono quasi un’ecfrasi de Rape of Africa di D. LaChapelle (2009), ispirato al dipinto del Botticelli Venere e Marte; l’opera è un’analisi dissacrante dello sfruttamento dei paesi capitalisti nei confronti del continente africano. L’analisi del rapporto fra arte occidentale ed identità nera ha influenzato anche il mondo della musica basti pensare al sontuoso video musicale per la canzone “Apesh-t” tratta dall’album Everything Is Love dei The Carters ambientato al museo del Louvre. Un viaggio immaginifico attraverso le gallerie del museo parigino che, partendo dalla rappresentazione del corpo “nero” nella civiltà dell’Antico Egitto in contrapposizione all’arte classica greca e romana, e a seguire attraverso gli stilemi della “tradizione”  dell’arte occidentale nei vari secoli (emblematica l’immagine sensuale de Ritratto di una donna nera di M.G. Benoist), conduce noi spettatori al cospetto della Monna Lisa di Leonardo da Vinci ‒ uomo universale e super-europeo ‒ figlio (forse) di una schiava circassa giunta dalle coste del Mar Nero attraverso Costantinopoli e Venezia alla Firenze del pieno Rinascimento.

Self-portrait as Othello è un’opera stratificata e brillante di un perspicace flâneur contemporaneo costituita da prosa poetica e poesia ricca, densa, forte e solida in cui le strofe sono un “corpo emozionale” che incarna lo scontro/confronto fra i propri valori primordiali, la “tradizione” e la ratio progressiva della nuova civiltà dell’uomo.

Nel viaggio attraverso il dedalo interiore di calli e campi Allen-Paisant raggiunge un livello poetico, la cui eccezionalità è in tutto pari al carattere libero e sperimentale della sua scrittura, in cui la folgorazione poetica sopravviene naturalmente. Il poeta “sente” la città di Venezia con intensa simpatia poetica. Sul piano formale la poesia di Jason Allen-Paisant suggerisce l’unione tra emozione e riflessione: nasce in questo contesto la poetica del “correlativo oggettivo” secondo la quale occorre trasformare ogni emozione individuale in immagini oggettive valide per tutti. Il sentimento, l’intuizione personale vengono comunicati in forma simbolica, per il tramite di un oggetto al quale vengono assimilati.

Nell’opera di Jason Allen-Paisant la parola poetica assurge ad una sintesi di forma-colore simile al colpo di pennello del pittore con cromatismi fragranti e corposi, sciolti morbidamente in gradazioni luminose di valore atmosferico che ricordano i dipinti del Giorgione presso il Fondaco dei Tedeschi: la forma che si plasma col tono generale dell’aria ambientale e si fonde col tutto, diventato parte viva della poesia naturale. E così, l’aria, prima concepita come veicolo incolore della luce, in Self-portrait as Othello, diviene invece colorata in giallo caldo. Nella poetica di Allen-Paisant si rintraccia quel soffio di poesia che esprimono anche le opere del Giambellino (l’arte di Bellini è la più completamente umana di qualsiasi altra che il mondo occidentale conobbe mai dopo la decadenza della cultura greco-romana). Bellini per mezzo dell’unità fra figura e ambiente, affidandosi a certi accostamenti pittorici puri, vale a dire non affidati ad altro che al linguaggio dei colori, creò figure colorate, vive, poetiche e fuse con tale senso dell’ariosità da dar impressione che le tinte siano scaldate da un intimo fuoco rossastro e violaceo oppure carneo, con una densa pastosità della materia pittorica: un intimo rapporto emozionale che lega le figure e il paesaggio in cui la luce diventa un legante dorato micronizzato nel baluginio delle tessere musive bizantine della Basilica di S. Marco.

Il volume si caratterizza per una spiccata intertestualità. Esemplari testimonianze delle continue mescolanze di riferimenti culturali diversi (un elemento in comune con la La terra desolata di T.S. Eliot) ne sono le citazioni  che spaziano da W. Shakespeare al Mal Giocondo di un giovane L. Pirandello passando per il discorso dei “Rivers of Blood” del Membro del Parlamento britannico Enoch Powell dell’aprile 1968 all’incontro del Conservative Political Centre a Birmingham, discorso in cui veniva aspramente criticata  immigrazione di massa specialmente dal Commonwealth verso la Gran Bretagna.

“La cultura non è citazione o vezzo, bensì destino intessuto di tempo” Gualtiero De Santi

A chiusura della recensione si propone una riflessione sull’esperienza del viaggio di Giada Tecchio tratta da un suo articolo inerente la teoretica della letteratura odepòrica: “Quello fra viaggio e letteratura è un rapporto molto stretto, un “nesso privilegiato” che ha intrecciato fin dalle origini le imprese di viaggio dell’essere umano e l’atto di scrivere, di farne racconto, di condividerle con altri. […] L’esperienza del viaggio in sé per sé come situazione di mutamento e di trasformazione, è da sempre associata all’operazione di scrittura, quasi come se l’azione di raccontare il viaggio, attraverso il recupero scrittorio, (fotografico/grafico/pittorico/audio-video n.d.r.) e memorialistico di questa esperienza, costituisse una parte imprescindibile delle finalità del viaggiare stesso. […] La relazione fra viaggio e letteratura è stata esplorata a livello teorico, innanzitutto intendendo il testo come forma di viaggio e reciprocamente il viaggio come sistema narrativo, arrivando ad interpretare la scrittura stessa come un “atto di spaesamento”, o ancora un allontanamento dal noto e dal familiare, verso una conquista dell’identità. Si può concludere che ogni forma narrativa, in certo qual modo, includa al suo interno una forma di viaggio, così come ogni viaggio si costituisca come un movimento in uno spazio-tempo che implica una struttura intrinsecamente narrativa. […] All’interno del genere odepòrico si evidenziano alcuni tratti comuni nello specifico i rapporti fra la narrazione e la descrizione, con una spiccata preponderanza di quest’ultima, sia che essa derivi dall’esperienza diretta del viaggiatore-scrittore, sia che essa si basi su fonti esteriori o costruzioni immaginarie. Inoltre, particolarmente rilevante risulta l’elemento del “dialogismo”  dei racconti di viaggio, in quanto questi si adeguano al bisogno di “raccontare” un’esperienza, ma anche in quanto essi presentano una struttura implicitamente comparativa, che pone in relazione due visioni:  quella del “mondo di partenza”, assunta come punto di riferimento per il viaggiatore-scrittore e per i suoi lettori, e quella del mondo “Altro”, della destinazione del viaggio, che si pone necessariamente come termine di paragone dell’osservazione. [… ]. Il legame che l’odepòrica intrattiene con i concetti della spazialità e della rappresentazione del territorio, oltre a costituire una fonte per la possibile descrizione delle “immagini” che formano un dato luogo (per offrire cioè delle possibili “letture” di quest’ultimo, intendendo il testo come esempio di costruzione di una immagine spaziale), può anche rivelare le modalità culturali con cui l’osservazione dei nuovi paesaggi osservati nel percorso di viaggio conforma la descrizione letteraria. […] In sostanza, l’esperienza del viaggio e la sua scrittura assumono un significato particolare nella storia della cultura, e si intrecciano profondamente nel momento in cui essi divengono il metodo per eccellenza della scoperta, della comprensione e della catalogazione del mondo: il moto, la curiosità, l’osservazione e la loro traduzione letteraria si fondono in un nesso che ha giocato un ruolo centrale non solo a livello di esperienza letteraria nell’odeporica, ma più profondamente nel cuore stesso dei meccanismi della nostra conoscenza del reale.”[5]

I versi di Jason Allen-Paisant mi riportano con la memoria alla mia giovinezza, quando appena diciottenne ‒ nella primavera della vita e dell’anno ‒ percorrevo i boulevards di Parigi, i vicoli di Montmartre e del Quartiere Latino, le sale del Louvre, del Centre Pompidou e del Musée d’Orsay, scrivendo i miei primi versi nella luce grigio-arancio del tramonto sul Pont des Arts dinnanzi allo square du Vert Galant dell’Île de la Cité. Affido le ultime righe di questa recensione alle parole dedicate alla città di Venezia dal pittore e incisore sloveno Zoran Mušić (nato a Bukovica presso Nova Gorica – Slovenia) ed esponente della nuova Scuola di Parigi: “Questa dualità che recavo in me a causa delle mie origini, trova infine la sua spiegazione. Adesso non ero più obbligato a voltare la schiena all’oriente per scoprire l’occidente così intimamente fusi nella vecchia civiltà veneziana, che compresi come là si trovasse la mia tradizione e la mia verità.”Sono in campo dei Mori. Saluto Siòr Antonio Rioba… mi attende il treno che mi riporterà in Friuli attraverso la laguna, il Piave ed il Tagliamento. Al bavero un souvenir da una bottega orafa del Ponte di Rialto: un morčić.

 

Emanuela Chiriacò è traduttrice letteraria. Cura la rubrica TerzaPagina sul quotidiano online lecceprima.it. Ha pubblicato i racconti Fame da Bue nell’antologia Non ti resisto edito da Emma Books (2017), Il nero assottiglia anche la notte, Uastasignu, Uno, Fish e Affetti feroci, Amati rancori sulla rivista Fili d’aquilone dal 2017 al 2020, e Mièrum nell’antologia Racconti divini (Giacovelli editore, 2018). Ha tradotto e pubblicato i racconti: A respectable woman (Una donna rispettabile) di Kate Chopin (Emmazine il magazine di Emma Books, aprile 2018), The kiss (Il bacio) di Kate Chopin (Zest Letteratura Sostenibile, giugno 2018), L’Associazione di Virginia Woolf (CrapulaClub, giugno 2018), Peter di Willa Cather (Inkroci magazine, maggio 2023) e le poesie: Su, su Abaco (Come on Abacus) di Rishi Dastidar e Riflessioni nell’aldilà con Sylvia Plath (Afterlife Ruminations with Sylvia Plath) di Jose Varghese (Inkroci magazine, giugno 2023). Per Primiceri Editore ha curato e tradotto i volumi Le Imperfette. Storie di donne nell’Inghilterra vittoriana e post vittoriana con un saggio di Paola Del Zoppo (Collana PeClassici, 2020) e La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana con l’introduzione di Franco Pezzini e un saggio di Paola Del Zoppo (Collana PeClassici, 2023).

Jason Allen-Paisant
Jason Allen-Paisant

Jason Allen-Paisant è un poeta e accademico giamaicano che lavora come docente in Teoria della Critica e Scrittura Creativa presso l’Università di Manchester. É autore di due raccolte poetiche, Thinking with Trees (Carcanet Press, 2021), vincitore dell’edizione 2022 del OCM Bocas Prize per la poesia, e Self-Portrait as Othello (Carcanet Press,2023). Il suo testo di saggistica, Scanning the Bush, sarà pubblicato da Hutchinson Heinemann nel 2024. Vive a Leeds. La poesia di Jason Allen-Paisant è stata messa in evidenza nella The Best Recent Poetry List dal The Guardian. Una raccolta di suoi reading poetici sono reperibili su Writer Mosaic.

 

Written by Federico Ielusich

 

Note

[1] Traduzione di Federico Ielusich

[2] Traduzione di Emanuela Chiriacò per gentile concessione dell’autore. Il testo originale in lingua inglese è reperibile al seguente link

[3] Franco Filippi, Anche questa è Venezia, 2° edizione, Filippo Filippi Ed., Venezia, 2005, pp. 318-321

[4] Il quadro è esposto a Venezia nel Sestriere di Dorsoduro presso il Museo della Fondazione “Peggy Guggenheim

[5] Il Chiasmo (/magazine/chiasmo/) -Lo sguardo del viaggiatore: la letteratura odeporica e l’osservazione del mondo – di Giada Tecchio

 

Biografia e sitografia

L’Italiano attraverso la Storia dell’arte di M. Angelino e E. Ballarin – Guerra Ed. – Perugia – 2006

Tavole di Storia dell’arte – Carlo Signorelli Ed. – Milano – 1934

Carnanet

Africa Rivista

Centro studi per Pier Paolo Pasolini

Città Pasolini

 

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