“Leggere il Decameron” di Francesco Bausi: il significato di una novella che pare infinita

Una domanda qualsiasi: perché lessi il Decameron?

Leggere il Decameron di Francesco Bausi
Leggere il Decameron di Francesco Bausi

La risposta più semplice, che è sempre la più azzeccata, è che ce l’avevo da anni su uno scaffale e che ogni tanto, passando, mi lanciava delle strane occhiate, come per dirmi: perché non mi tieni in nota? Mi decisi a farlo quando acquistai su una bancarella un tomo che conteneva tutte o quasi le opere di Boccaccio, per cui mi dissi: no, questo, al momento (per i prossimi venti/trent’anni) non ce la faccio a leggerlo, magari l’altro sì, sono solo due volumi, lo sciroppo in una decina di giorni! E così avvenne. E ci scrissi persino un articolo, pensa te! Si può leggere un libro per caso, come si conosce una persona e poi si diventa amici, o addirittura la si sposa, per poi prendere un po’ le distanze, avendola però sempre in mente, e ogni tanto ti vien la voglia di chiamarla, di salutarla, di prendere un caffè insieme. Questa è “la vita, un paradiso di bugie, quelle tue e quelle mie”, così mi cantava addosso una certa Gabriella, che poi gorgheggiava un altro ritornello: Tuuuuu… che non sai amareeeee! Bei tempi, e grande amica quella Gabriella. M’ha anche aperto gli occhi quando mi disse che, prima di scrivere occorre vivere, e lo stesso vale per la letteratura altrui. Se non la leggi, non puoi scriverne. Se la leggi, a volte non puoi non scriverne. Bisogna che la chiami, un giorno o l’altro, quella Gabri, per sapere come le va.

Ieri ho finito di leggere ‘sto bel tomo Leggere il Decameron, e oggi provo a scribacchiare qualcosa, con una certa consapevolezza: non è facile aggiungere qualcosa a un libro così colmo di informazioni, a cui manca una sola cosa essenziale (per me): il mio io.

I primi due capitoli mi fanno comprendere la differenza tra leggere (assorbendo quel che puoi, come puoi) e analizzare un’opera, come se fosse una specie di animale che non è stata ancora studiata a sufficienza e di cui è possibile svelare taluni aspetti comportamentali che uno mai si aspetterebbe. Un critico, in più di un senso, è un etologo.

Si parla, nel primo, di Tempi e modi della scrittura. Il secondo è volto a esaminare Le strutture (im)portanti. La scrittura di Francesco Bausi ha un’eccelsa qualità: è chiara, a volte lampante; e un solo difetto: si fa invidiare. Cercherò d’ammirarla, quando spiega: “Insomma, nel mondo sapientemente regolato del Decameron, come nel cosmo, anche il caos è previsto e dunque riassorbito nell’ordine; gli elementi potenzialmente eversivi vengono neutralizzati grazie a un raffinato gioco di pesi e contrappesi; e anche ciò che potrebbe risultare un male (per la sua natura irrazionale e la sua forza disgregatrice) finisce, nel disegno superiore concepito dall’autore-creatore, per ribaltarsi in un bene, giacché contribuisce alla perfezione comprensiva del tutto.” – e io non ho manco la più pallida idea se Boccaccio avesse una piena intuizione di tutto ciò o se la cosa gli sorgesse in modo spontaneo; se sapesse che due fini alternative pare gestiscano (una sola, poi, forse, la spunterà) la sorte del mondo: l’Entropia, che è il disordine cosmico in cui tutto (forse) tacerà, immoto e gelido, per sempre; oppure la Singolarità Assoluta, in cui tutto il creato un bel dì (forse) scivolerà, uniformandosi in toto, senza annichilirsi però. Ma c’è chi, come Stephen Hawking e Lee Smolin (e tanti altri), si augura che dall’ano di quel nero abisso fuoriuscirà un universo neonato: chiamalo, se vuoi, Buco Bianco. Da qualche tempo gli scienziati ipotizzano addirittura che, nella quotidianità, ‘ste due letali tendenze collaborino per mantenere in vita quel puzzolente bebè chiamato mondo, al pari di due genitori amorevoli.

Queste sette ragazze e i tre giovani, queste dieci persone umane, i narratori delle novelle, sono “il simbolo dell’uomo – e dell’uomo Boccaccio, innanzitutto – nella totalità e nella pienezza, composita e talora contraddittoria e conflittuale, delle sue plurime facoltà.” – un dissidio può rappresentare talvolta il prodromo che conduce alla salvezza, così come una discussione, per quanto aspra, può condurre a un’armonizzazione di vedute.

Diversamente dal “poema dantesco”, che “è nato come opera organica e unitaria, dotata fin dall’inizio di una sua precisa architettura” – “il Decameron è il risultato dell’assemblaggio di pezzi almeno in parte scritti precedentemente e tali che, pur inseriti in un organismo compatto e a questo scopo probabilmente rimaneggiati, mantengono comunque, a differenza dei canti della Commedia, una loro autonomia.”l’opera di Dante mi pare al confronto un algoritmo unico, meraviglioso, mentre le novelle sembrano fungere da addendi volti alla medesima somma, che, come assicurava il saggio Totò, è ciò che fa il totale.

“… solo facendo di continuo interagire le novelle con la cornice, ossia, per dir meglio, i contenuti delle novelle con i comportamenti dei novellatori (quello che essi fanno, cioè, e quello che dicono) è possibile interpretare il Decameron in modo appropriato.” – tutti sono i componenti del medesimo nucleo, legati l’un l’altro in modo così completo che pare un assurdo ipotizzare la mancanza di un solo elemento: ed è l’unione che fa la forza.

“… Boccaccio afferma che dalle novelle potrà ricavarsi tanto ‘diletto’ quanto ‘utile consiglio’…” – e non bisogna mai dimenticare che bello deriva dal latino bĕllus, ricco di grazie, grazioso, che viene a sua volta da due-nŭlus, diminutivo di duenos, forma antica di bonus. Ogni scarrafone è bell’a mamma soja, parendole la parte migliore di sé.

“La cornice, con i suoi rituali, le sue simbologie e le sue stilizzazioni tardogotiche, non è un cascame…” – non è un fatto decorativo ma – “viceversa costituisce la chiave interpretativa dell’opera.”le mura maestre di un edificio, mi verrebbe da dire: un libro è una maison che ospita tanti personaggi, consentendo a ognuno di loro la propria vita, onorata o miserevole che sia: “l’oggetto libro vuole essere simbolo, metafora e formalizzazione”: questo è il mondo che s’intende rappresentare, uno dei tanti possibili, direbbe Hugh Everetti III, il fisico che ipotizzò i molti mondi immaginari (IMM), ognuno dei quali è così preso a inseguire i suoi guai.

“Il Decameron, come la Commedia, non fa sconti: solo leggendolo per intero, e attribuendo il medesimo rilievo a tutte le sue parti, è possibile comprenderlo.” – ed è per tentare quest’accessibile scalata, che ho scelto di leggerti, amico mio. E finora non sono precipitato, anche grazie a te.

Il Capitolo 3 capitolo è Fra diletto e utile consiglio. La leggera profondità del Decameron:

i “giovani della brigata” sono come dei volontari “che si sobbarcano al compito di additare agli uomini la via per rifondare, sulla base della ragione, della virtù e della fede, la convivenza civile e la vita associata.” – e io vorrei così tanto unirmi a voi: mi prendete o no?

Leggendo l’esegesi di alcune storie, rimembrandole grazie a essa, mi vien da dire che, oltre mezzo secolo prima di Herbert Marcuse, Giovanni Boccaccio si pose il problema del conflitto fra Eros e Civiltà. Cercando sempre di saltarci fuori, come meglio poté, e indicando che una sola poteva essere la strada da percorrere: giungere a un accordo fra le nostre tendenze belluine e il bisogno di esistere in un ambito sociale.

“Come sempre la verità sta nel giusto mezzo”: ed è da lì che l’uomo (e la donna, ovviamente) deve scegliere, Enten/Eller. This is the problem: “La fisicità e la corporeità reclamano i loro diritti, che sarebbe sbagliato ignorare” – ma quello che conta è verificare se “gli istinti” siano “armonizzati con le altre componenti della persona” – e in teoria tutto questo è pacifico, ma è la pratica, come m’informò un mio affine di nome Andy, che viene difficile. Forse è per produrre l’energia necessaria che Boccaccio alterna “motto” e “beffa”: il primo agevola comprensione, il secondo punisce, talvolta celiando, una colpa; entrambi sono volti al raggiungimento di una nuova consapevolezza, secondo l’insegnamento di “Dante nel Convivio – l’uomo che non usa la ragione, e che dunque non sia letterato o filosofo, è morto in quanto uomo, e non differisce dagli animali bruti.” – e chissà se poi ce la farà a riposare in pace!

“In termini più generali, l’ideale etico del Decameron è il controllo delle passioni, il giusto mezzo, la misura, che deve regolare sia il desiderio di guadagno (con la liberalità) che l’appetito concupiscibile (con la temperanza)” – e posso mo’ fingere d’essere un personaggio del libro, che intende far lo spiritoso, al fine di sminuire le sue colpe, e dire: in medio stat virtus, magari se si sposta un attimo mi ci infilo io.

Nel frattempo non bisogna cessare di sperare: “La peste prima o poi finirà; un mondo nuovo può nascere. Il Decameron si chiude con una tenue nota di ottimismo.”eureka!

Il capitolo 4 è Un libro morale (ma non troppo) – come l’allegro nella musica. Il capolavoro di Boccaccio è (anche o soprattutto?) pedagogico: “Chi crede che il Decameron si limiti a descrivere la vita, i sentimenti e le relazioni umane senza giudicare e senza chiedere al lettore di farlo, trascura i segnali in senso contrario disseminati non solo nella cornice, ma anche nelle novelle.” – e in taluni trabocchetti letterari che non mancano mai in alcuno scrittore, figuriamoci nell’ameno Giovannino.

L’importante è attestare che, alla fine, “l’ordine vince il disordine, secondo il tradizionale metodo di ‘curare con i contrari’…” – una cura omeopatica? Forse l’autore indica i vizi per predicare la virtù?

“La struttura chiusa, armoniosa e geometrica dell’opera vuole essere già di per sé un antidoto contro l’anarchia dell’anima e del mondo.” il narrare va inteso come una terapia psicoanalitica?

“La parola è la vera protagonista del Decameron. Fonte primaria del diletto e dell’utile che l’opera si propone di offrire a chi legge, la parola consola, diverte, insegna, corregge, difende dai pericoli, allontana la morte.” – facendo viaggiare. E come posso qui non accennare a quel che imparai leggendo Il cappello scemo di Haim Baharier: nell’antico ebraico, tevà è sia parola che arca, cioè un mezzo di comunicazione che può condurti dove ha deciso l’autore che leggi, il timoniere del natante narrativo.

“Là dove ci sia amore eccessivo c’è sempre anche l’ira”: che può trasformarsi in amore criminale. Come nella novella “IV 9”, che forse ha ispirato un episodio di un film di Walerian Borowczyk, Racconti immorali, in cui i genitori uccidono un coniglio di cui la figlia è innamorata per poi darglielo da mangiare a tradimento in un tragico desinare; così fa Guiglielmo Rossiglione che si vede costrettovistosi tradito, a uccidere l’amico Guglielmo Guardastagno e a far mangiare il suo cuore alla moglie”. E tutto questo può accadere quando una passione non manifesti nemmeno un minimo di com-passione. Quando uno degli amanti si sente escluso, può diventare un assassino.

Il Capitolo 5 è Centralità e unicità del Decameron nell’opera di Boccaccio. È molto profondo e, come talvolta capita, lo è al punto che mi zittisce.

Il successivo è Uso, riuso, parodia. Il ruolo dei modelli e delle fonti – in cui leggo che “buona parte delle novelle potrebbero essere chiamate parabole, ossia exempla..

Scorrendo la “letteratura di poco precedente e coeva, ci accorgiamo che la distinzione tra favole, parabole – ossia exempla – e storie non è affatto rigida…”e qui mi vien da dire che Francesco Bausi pecca un po’ di ottimismo, dicendo che “nel Medioevo il discrimine fra vero, verosimile e inverosimile è incerto” – ma forse basta sostituire quel nel con un fin dal: così ci suggerisce Jorge Borges con le due Finzioni.

“Dante e Petrarca sono i due fari del Boccaccio.”dipende da dove intende girare la prua alla sua arca. Bausi mi piace quando accenna “a fonti di carattere non letterario – medico, botanico, storico, geografico, filosofico, giuridico – verso le quali l’onnivoro e non selettivo Boccaccio, in ciò più assai più vicino a Dante che a Petrarca, mostrò sempre grande curiosità.” – anche in ciò risiede la modernità dei due autori fiorentini.

Il Capitolo 7 è L’ornato parlare: le risorse della lingua e dello stile: che va letto e ricordato il più possibile, anche se nessuna reazione scritta è uscito dal mio cervello momentaneamente leso.

Il successivo è Fortuna e attualità del Decameron. Lascio sospesa la questione di Petrarca, il quale m’è sempre parso poco boccaccesco, per certe sue esteriorità formali. Per quanto riguarda i Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer (1386-1400), che adottano lo schema della cornice itinerante ma che in realtà risultano debitori, oltre e più che del Decameron, degli scritti boccacciani ad esso precedenti e successivi.” – ricordo che leggendolo non ho colto il minimo accenno all’autore certaldese, mentre abbondano quelli al poeta aretino: chissà perché!

Petrarca fu caro amico di Boccaccio, ma il suo “ruolo fu ambivalente, al pari del suo atteggiamento verso il capolavoro dell’amico.” – di cui però latinizzò l’ultima novella e in tal modo “aprì al Decameron le porte di uno straordinario successo europeo e introdusse il libro nell’empireo della cultura umanistica, ma a prezzo di un profondo e certo intenzionale travisamento dell’opera.”  L’opera di Boccaccio segue una dualità da cui non so se si potrà mai prescindere. Chi lo legge ormai, a parte qualche sventato nullafacente come il sottoscritto, specie dopo tante numerose versioni cinematografiche che l’hanno talvolta svilito? Oreste Del Buono affermava la necessità di tradurlo in italiano. Io non sono d’accordo. Leggendolo esattamente come l’ha scritto e riscritto, lo si può tuttora capire interamente, anche se è talvolta necessaria la presenza di note esplicative. Lo stesso vale finanche per Le mie prigioni di Silvio Pellico e per i romanzi di Verga. E per qualsiasi testo letterario, azzardo. Anche L’Agnese va a morire, nell’edizione Einaudi del 1974, era ricca di note a piè di pagina.

Un giorno mi piacerebbe sedere a un tavolino di quel mistico e ceruleo bistrot che ogni tanto vagheggio, insieme a Dante, Giovanni, Francesco e Geoffrey (e anche Francesco Bausi, ovviamente, così potrei essere sesto tra cotanto senno), per vedere come se la filano tra loro. L’unico tranquillo (ben più di me, I guess) sarebbe forse proprio lui, Giovannino.

Leggendo i vari capitoli, mi sono spesso chiesto quanta simpatia vi sia da parte dell’autore per i poveracci, le vittime e i capri espiatori (c’è una media di un disgraziato e mezzo a storia), o pena, o indifferenza. Da ogni pagina, quasi da ogni riga, trapela una sensibilità fuori del comune, da parte dei vari ‘narratori’, quindi, per obbligazione solidale, da parte dell’autore.

Francesco Bausi
Francesco Bausi

Tanto grande sei tu, Giovannino, che sai far nascere l’orrore dalla virtù e dalla virtù l’orrore. Una storia, IV 10, mi fa altresì rammentare l’opera maggiore di De Rougemont, L’amore e l’occidente, ove la passione amorosa sa sublimarsi allorché si fonda sull’assenza.

Difficilmente ho letto un romanzo tanto angosciante quanto il Decameron, forse una volta, o forse due, ma non tre.

Tu, immaginifico autore, di certo, spesso il male di vivere hai incontrato. La tua narrazione è zeppa di cavalli stramazzati, di foglie riarse e incartocciate e di rivi che, gorgogliando, si strozzano.

Non so quanto bene sapesti, Giovannino. Il tuo giardino è colmo di prodigi, di statue fatali e sonnacchiose, ma lassù aleggiano, infide, nuvole nere e foriere di tempesta, e un falco levato, dall’alto, rimira cupido la derelitta preda. E tu non puoi fare a meno di cantare le umane sorti!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Francesco Bausi, Leggere il Decameron, Il Mulino, 2022

 

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