“In campagna è un’altra cosa” di Achille Campanile: le avventure del prode Serenello
La necessaria premessa è che gran parte del romanzo “In campagna è un’altra cosa” di Achille Campanile l’ho letto col piede destro immerso in una tinozza cerulea, paragonabile al cielo del Sud, ma anche di Toano (RE) che ammirai a suo tempo quando, con la mia ex con-sorte, andammo a visitare il borgo matildico, la cui chiesa era purtroppo chiusa.
Poi scendemmo in paese ed entrammo nella chiesa parrocchiale, dove incontrammo il mitico (per me) Don Gildo, mio prete dell’infanzia, a cui narrai con emozione la nostra splendida avventura, non sottacendo il rammarico di non aver potuto ammirare dall’interno la chiesetta. Al che, Don Gildo, prete generoso e imprevedibile, ci chiese di scusarlo un attimo perché doveva andare in sacrestia. Poco dopo ne uscì con la chiave della pieve antica, con la preghiera di restituirla, se non a lui, che magari era fuori, alla perpetua, che sempre bazzicava tra i banchi. Grazie a quel piccolo miracolo umano, quel dì riuscimmo ad ammirare quell’antico monumento matildico. Bello e spoglio, spoglio e bello. Nell’acqua del bacile (che non è di certo una tinozza) ci ho messo del sale, nella misura canonica: Q. B. Motivo di tutto ciò: come già nell’ottobre 2021, forse perché vivo a Reggio Emilia, mi è venuto un attacco di gotta. A quell’epoca, ero in vacanza a Racalmuto, ospite di Nicola Di Vita, che un giorno, mi disse che era andato a sentire una conferenza di Leonardo Sciascia. Tutto molto interessante, ma lui l’aveva compreso al 30% o poco più, perché il grande racalmutese bisbigliava, con la sempiterna sigaretta in bocca. Quando andiamo a camminare nel parco delle Caprette, Nicola non è mai rapidissimo, specie se abbinato a Silverio Scognamiglio, i quali spesso parlano di argomenti sfiziosi (tipo la marca IGE del ‘56), mentre io mi picco di andare ad almeno 5 chilometri orari, ma poi mi tocca aspettarli. Il bello, o il brutto, ma dovendo scegliere scelgo l’aggettivo più grazioso, è che, quando mi fermo per attenderli, anche loro smettono di andar piano e compiono, si fa per dire, una breve sosta, allorché si può notare che Nicola, che è, fra i due, l’affabulatore, mentre con me se la deve giocare, per esporre meglio il suo pensiero, muove entrambe le braccia, soprattutto il destro (a proposito ti sei mai chiesto, Achille, perché un singolo braccio è maschio, anche se appartiene a donne, e diventa femmina, a meno che non riguardi un fiume, quando è doppio, pur se si parla di uomini?). In quell’avventura sicula, mentre io mi trascinavo come uno sciancato il piede destro, sempre lui, benedetto o maledetto!, Nicola pareva un furetto. Mi portò in posti incantevoli, come la Valle dei Templi di Agrigento (circa 15 km tutti in salita, poi in discesa) e la Villa del Casale di Piazza Armerina (fra una cosa e l’altra circa 14 km), e anche a Caltanissetta, città che giudico graziosissima, anche se poco conosciuta dagli stessi trinacrini, come lo è Guastalla, Scandiano, Correggio, Novellara e la mia stessa Reggio (in quel caso passeggiammo per soli 4 km).
La seconda premessa, che temo che alla fine sia più prolissa della reazione al tuo libro, è che ho deciso di leggerti dopo che, nella fascetta della Silloge Opere complete di Learco Pignagnoli di Daniele Benati, un esegeta lo definisce “un capolavoro della letteratura e dell’umorismo contemporaneo che rievoca il fulminante Campanile delle Tragedie in due battute.” – opera che non ho mai letto, pur capitandomi di ascoltarne talvolta dei brani recitati, per cui concordo sul giudizio. Mi ricordai allora che in cantina, a padîr, a fermentare, avevo In campagna è un’altra cosa per cui… per cui adempio al proposito che maturai in quell’ora fatidica. Leggere è come collezionare foto di murales, un lavoro che non ha mai fine! Tipo supplizio di Sisifo ma anche di Tantalo!
Precisazione necessaria, non meno di ogni tuo singolo ricordo. Nell’articolo dedicato a Benati parlai di garage. Mi spiego. Se entri con la chiave più grossa, credi di sbucare in cantina. Se lo fai con la più snella credi di entrare in garage. Gli ambienti sono così limitrofi che formano un’unità abitativa.
Odo ora una voce in sottofondo: Ma non stavamo parlando del mio libro? Certo, mica me so’ scordato!
Esso tratta delle avventure alcune verosimili, altre simili solo a se stesse, che capitano al prode Serenello in campagna, e zone limitrofe, ospite del buon zio Alessandro.
Fare i solitari (sto leggendo il capitolo IV), l’analogia è qui stringente, equivale a masturbarsi ma anche a scribacchiare, solo che, nel farlo, come insegna Ernest Hemingway, di cui interpreto il pensiero, anziché sperma, esce talvolta del sangue. A proposito, anch’io conosco e ho praticato (prima del pregresso matrimonio) “il solitario del frate”, senza sapere che si chiamasse così.
Ogni tanto (ogni due o tre righe, non di più) colgo un moralismo nella tua scrittura. Il titolo del paragrafo è Un frate che avrebbe fatto meglio a occuparsi delle cose di religione. A parte che anche un idraulico, quando ha del tempo libero mica si mette ad aggiustare rubinetti, pure se, quando lo induci a leggere Martin Heidegger, dopo mezza pagina non può che ammettere: Non ci capisco un tubo!; nel caso del tonacato, è vero quel che dici, che il suo è un “solitario facile a farsi, ma difficilissimo a riuscire e anche più difficile a spiegare a parole.” – eppure questo, pur rarissimamente, avviene. E ricordo che in tale magica occasione fui emozionato al punto d’esclamare ad alta voce (per fortuna ero solo in casa): Allora Dio può esistere!
Il tuo romanzo è una raccolta di eventi simili, che si chiamano miracoli. A pagina 11 leggo che “Amleto crebbe rapidamente. Tanto che, quando in casa passava da una stanza all’altra, i suoi non lo riconoscevano e si chiedevan l’un l’altro: ‘Ma chi è quel ragazzo? Lo conosci?’” – cosa che a me non capitò perché, essendo un papà previdente, nella piazzetta che si trova davanti agli Uffizi, commissionai a un artista da strada, tale Mario da Lecce, il ritratto a mio figlio (che allora non era manco dodicenne), per sole 45.000 lire. Esso lo raffigurava come sarebbe stato di lì a un paio d’annetti. Cosicché, mentre stava crescendo avevo un punto di riferimento. Quando superò quell’età, ogni tanto mi dicevo: Come somiglia ancora a quel ritratto!
Sei un tipo che ama scherzare, l’ho capito, perché hai preso da Ambrogio, fratello di Amleto, la cui orrenda facezia, descritta a pagina 14, mi fa ancora rivoltare. Eppure ne ho letto, da allora, di pagine, almeno una settantina! Di tue pagine!
Sei prodigo di buoni consigli: “E, se è vero che la fortuna vien dormendo, chi s’alza presto le taglia la strada.” – almeno finché riuscirà ad alzarsi, gotta permettendo.
“Fa bene anche indugiare a letto. Ho conosciuto fior di pancioni che stavan molto bene a settant’anni senza aver fatto mai queste sfacchinate.” – ognuno (tanto per citare Mike Mentzer, che morì ch’era giovane) ha l’heavy duty che si merita. In quel caso si tratta di pesantezza di stomaco.
Citi, come sempre a sproposito, “l’Enciclopedia Italiana” – e allora ti faccio una confessione: fra i miei desideri, che posticipo ogni anno, anche in attesa di eventuali nuove edizioni più aggiornate, è di recensirla, facendo riferimento a ogni singola voce. Toccherà poi a quella Britannica, e qui la vedo dura. Ma si può fare.
“… presso gli orientali la pancia era considera una bellezza.” – anche da noi una volta. Per mé sina Jolanda mé a n gh aviva gninto ed bèl: per mia zia Jolanda io non avevo niente di bello; am ciamèven brêga vōda: mi chiamavano braga vuota (pelle e ossa). Poi iniziai ad apprezzare sempre di più sia il pane che il companatico, e il lambrusco, per cui un giorno quando vedendomi, zia disse: Vaca st ē gnû ciûnt, adesa sé che ‘t vé bèin: vacca come sei venuto grasso, adesso sì che (ti) vai bene. Ciunt is beautiful. Anche senza i (m’auguro che nessuno capisca la battuta).
Essenziale per capire il libro è leggere (un paio di volte prima dei pasti) il Capitolo III – Come si scrive un romanzo. Motivo per cui ho deciso di non citarlo che in minima parte. Il resto è nel tuo libro. Chi vuole scoprire i segreti del narratore (non di tipo Follettiano), lo deve senz’altro leggere.
Dizionario letterario: salto la voce C che è troppo complicata; passo direttamente a Lettori – “Personaggi immaginari creati dalla fantasia degli scrittori.” – grazie, papà!
Qui rischio uno spoiler, termine che non hai fatto in tempo a conoscere: Romanzo – “Componimento letterario inventato per permettere agli scrittori di dire, attribuendole agli altri, cose proprie che essi non avrebbero mai il coraggio di confessare.” – verissimo, tranne per alcuni come Henry Miller, che ingrassarono come oche i propri peccati per meglio figurare.
Apprezzo la tua uguaglianza: Umorismo = vendetta privata (mia semplificazione).
Un avvertimento per il mio amico Silverio, che aspira a essere quel che sarà solo quando capiterà il momento: “Sai che scrivere è una faticaccia? Sai che, se ti prende, questa cattiva abitudine non ti lascia più?”
Per cui ci vuole l’auto-censura: “… tante cose che mi sarebbero piaciute non le ho fatte, per non dovere un giorno allungar le mie memorie.” – e forse è per quello che i tuoi verbi finiti finiscono sempre con una troncatura.
Sto pensando a quello scarso cacciatore del “Dottor Pagliuca”, a cui capita che, “poiché è un po’ lento, spesso la selvaggina decede di morte naturale mentr’egli prende la mira…” – e lo stesso si dice di Tazio Nuvolari, che guidava con prudenza, sebbene fosse fulmineo nelle sue girate di volante, e che finì per morire nel suo letto. Non so se quel giorno ne fosse felice. Lo sa solo lui.
Il tuo, Achille non è un romanzo dell’incomunicabilità tipo i film di Antonioni, per intenderci. Ma è una narrazione che si fonda sul continuo fraintendimento. Ne ho la quasi certezza dopo la lettura di Svantaggi della buona educazione, che non raccomando ai lettori autistici. Merito della frase finale: “Questo succede a essere gentili.” – che la dice lunga. Tu capisci gli altri a modo tuo (e il tu è l’io narrante, ovviamente). Ma non è che agli altri esca l’ernia nel cercare di capirti!
Sappi, per evitare, appunto, equivoci che io sono un fan di Giacomo Leopardi. Perciò poco gradisco le insolenze che spari di lui. Però, mi fanno ridere. Ed è tutto.
Le domande che ti fai a proposito di chi t’importuna all’ora di pranzo, mi fa pensare a nostra cugina Giovanna, che dio la benedica, che alla fine del pranzo, quando ormai sei satollo e ti senti in colpa di aver sbafato come un gugiôl, che è il porcello nell’idioma arşân, bussa dalla mia commensale, perché anche noi si gradisca il meglio dei suoi meravigliosi antipasti. Al che obbedisco, obtorto collo, ma non obtorta ore, il che mi spinge a dire alla consanguinea: ti prego, siediti con noi, e assaggiamo un liquorino o due (a volte anche tre). E poi mi lamento di avere la gotta! Il paragone migliore è con quei poveri ragazzi che da Orgosolo a Vipiteno ti chiamano al cellulare (poi ti spiego cos’è) per offrirti un nuovo abbonamento a una qualche linea telefonica. Mi fanno così pena che prima li benedico e immediatamente dopo chiudo la comunicazione.
Leggendo il paragrafo Qual è il giorno più lieto, che per il recanatese è il sabato, e che per te sarebbe il venerdì che lo precede, e poi, risalendo all’indietro, tutti gli altri cinque, e poi, colpo di scena, la domenica!, m’hai fatto pensare a quel che cogitai la mattina del mio primo giorno di vacanza dopo la fine dell’anno scolastico, ancora non erano le 10: ecco consumata ormai mezza giornata di libertà!
In finir del capitolo IX, usi un termine ormai tragicamente obsoleto: “spoetizzato”. Per cui suggerisco una nuova tragedia in due battute (pensa che coraggio che ho): un amico dice: Sei spoetizzato? E l’altro risponde: No, non usa più.
Spari a raffica una serie di sentenze aventi quasi valenza giuridica. Una è: “Noi viviamo in mezzo a vases brisés esclusivamente. (la capiranno questa?).” – io, sì, ma bisogna vedere se è quel che intendevi: nel cosmo decide tutto l’entropia, per cui quel che cade si spezza, e mai più tornerà come prima. Però… c’è la gravitazione che le si oppone: Dio e Satana, Śiva e Visnù.
“Proprio così: Irene aveva preso il treno-tuono.” – e la battuta la si capisce se si legge l’intero paragrafo, a cui rimando il lettore del tuo lettore.
Quando citi una celebre frase di Enrico IV, me ne viene stranamente in mente un’altra. Nella mia fin troppo colta mente le due frasi s’erano azzeccate l’una all’altra, formando una specie di monolite. Poi vengo a scoprire su zio Google (ti spiegherò quando sarà ora cos’è) che quel re aveva detto l’altra frase, non quella, che apparteneva a Riccardo III (se non ho sbagliato numero). Si sa, ogni testo letterario è fiction.
Talvolta non termini una frase perché essa diventa il titolo del paragrafo successivo. Un’idea non male, forse te la copio.
“‘Come?’, ha mormorato Francesca, ‘mentre io ti bacio, tu fischi?’” – e, come suggerisce il titolo del capitolo successivo: XVIII Nello spazio di un bacio, tu narri di cani (che causarono il tuo malinconico fischiettare) per circa 14 pagine. Non so come avrebbe reagito la mia ex con-sorte di fronte a tanto cinismo, anzi, lo so. Avrebbe alluccato come ‘na paccia!
Apprezzo grandemente Lo sterminio delle mosche (Grande romanzo passionale d’appendice), che dura ben 7 pagine. Non credo vi sia un essere più costantemente fastidioso nonché distraente di quel dittero che, quando tenti di acchiapparlo, scappa via come un folletto, salvo poi riposarsi sulla tua coscia (nuda, se è d’estate, d’inverno è già più sopportabile), e ogni volta pare dirti: lo sai, stronzo, che sono affeziona a te!, lo sai, strnzo, che sono affeziona a te!, lo sai, stronzo, che sono… e poi via! Non ho mai sentore di una campagna animalistica che avesse un dittero da salvare, eppure, con tutte le evacuazioni che noi scrittori produciamo in una giornata, beh, mi sento corresponsabile…
Mi accordo che ormai confondo autore e io narrante. Tu. Serenello/Achille, non sei uomo da paradossi, o forse sì, è che non capisco quale sia la doxa a cui vuoi andare a parare. Tu ex-ageri a ogni pagina, a ogni riga sospinta. Hai soprattutto una passione: te stesso. Non sei malvagio, anzi, sei sempre pronto a donare una parte considerevole di te, anche se poi la ritiri immediatamente. In te c’è una gran dose di falsità amorosa, ma sei sempre disponibile per un intermittente amoroso servaggio, che dura quello che dura, anche un breve viaggio col treno.
“Dichiaro subito che ‘io’, non ero io. Chi era? Non so. Evidentemente siamo in presenza d’uno di quelli che la teosofia chiama ‘i misteri dell’io.’” – ogni tanto anch’io tendo a utilizzare i riporto pro domo mia. A ognuno la sua domus! Ma ora è giusto che smetta di romperti le battute nel paniere, perché troppo ho approfittato della tua cattiva fede.
Ti faccio una doverosa confessione. Ho letto il tuo romanzo contemporaneamente a Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos (forse per quel termine comune nei vostri due titoli). Che ho finito prima del tuo. Perché? Perché era più ossessivo e non vedevo l’ora di togliermelo dai piedi. Assai ben scritto, ma così ossessionante! Il tuo l’ho sorseggiato come si fa con un buon Lambrusco, che a Reggio è sinonimo di vino.
Ancora non ho cominciato a reagire per iscritto con quell’opera, ma ora proverò a farlo e ti dico subito che non sono né sereno né convinto di quel che dirò.
Cosa penso del tuo romanzo, ora che l’ho letto, se non che è servito a farlo padire in cantina (o in garage, se preferisci): ora è stagionato al punto giusto.
Cosa penso della mia gotta? La devo a Georges Bernanos, ma tu mica me l’hai fatta passare.
A parte che essa mi sta donando un sacco di tempo che avrei passato diversamente, secondo me è un’ottima metafora della vecchiaia, non so se tristemente incipiente o serenamente incipiata.
Grazie a essa sono riuscito ad assaporare per vario tempo la bellezza contenuta nel Dolce far niente, tempo così prezioso secondo i saggi orientali.
Come capita a te nella villa di campagna del tuo sapido parente. Alla prossima, lestofante!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Achille Campanile, In campagna è un’altra cosa, Rizzoli, 1980