“I Greenwood” di Michael Christie: una saga familiare dal sapore distopico
La vita umana assomiglia a quella di un albero più di quanto si pensi. Il nostro tempo si accumula anno dopo anno, ciascuno conseguenza di un altro, impossibile senza i precedenti. Così fa il legno; avanza strato su strato Ma, a differenza del legno, la vita umana non sarà mai “pulita”, priva di nodi.
Eppure proprio le imperfezioni definiscono l’unicità di ogni esistenza di ogni essere umano. Lo sa bene Michael Christie, uno dei più acclamati scrittori canadesi; egli è stato anche falegname. I Greenwood (Marsilio, 2021, pp. 592, trad. di Fabio Zucchella) è una saga familiare dal sapore distopico. Christie introduce una brillante variatio a questo schema; I Greenwood è strutturato come gli anelli concentrici di un tronco.
Jacinda “Jake” Greenwood lavora come guida naturalistica e accompagna ricchi turisti appassionati di ecologia a visitare le rigogliose foreste di un’isola della British Columbia, che porta il suo stesso nome. Senza radici e senza una famiglia alle spalle, un giorno Jake entra in possesso del diario della nonna, un aiuto inatteso che le permette di ricostruire il suo passato. Ripercorrendo a ritroso il Novecento, scoprirà che quello che unisce tutti i membri della dinastia dei Greenwood è proprio il bosco. Con il loro pulsare silenzioso, gli alberi offrono rifugio, ma custodiscono anche delitti, decisioni estreme, rinunce ed errori.
2038. La Terra è polvere, polvere l’aria che soffoca l’umanità. Un nuovo ceppo di tubercolosi endemico aggredisce soprattutto i bambini; la tosse spaccacostole squassa il torace con conati convulsivi. Greenwood Island è un baluardo in cui la Vita oppone strenua resistenza al Grande Avvizzimento. È un polmone verde in cui il passato non sembra passato; i turisti arrivano come pellegrini. La loro Terra promessa è diventata un Paradiso perduto; a Greenwood Island essi si nutrono di aria pulita e di una scandalosa menzogna: che non tutto è perduto. Che c’è ancora speranza di guarire il Pianeta agonizzante. Il compito di Jake è indossare le vesti della condiscendenza; una maschera sorridente che permetta loro di gustare la dolce morbidezza dell’inganno. Tra gli alberi millenari della Cattedrale Arborea, Jake è un albero senza radici; non ha nessuno nel mondo “di là”. Ha perso la mamma molti anni prima; del padre conosce il nome e poco altro. Ma, insieme al sangue e al nome, nel sangue e nel nome egli le ha trasmesso un’eredità; il verde è la passione che nutre la vita di Jake. È grazie a Greenwood Island che ella riesce a tenersi in equilibrio sul baratro del debito studentesco; un amore, quello per gli alberi, sbocciato in tenera età. Jake cresce presso i nonni materni, a Delhi; qui trova un amico, o qualcosa di simile; l’imponente baniano del giardino. Il gigante dapprima la spaventa, poi la conquista, al punto che la bambina avverte una sensazione di consanguineità con questo e con tutti gli alberi. La strada di Jake è delineata: dopo il liceo frequenta il dipartimento di botanica a Vancouver.
“Si convince che […] perfino i misteri impenetrabili del tempo, della famiglia e della morte potrebbero essere risolti, se soltanto fossero osservati attraverso le lenti verdi di quegli organismi meravigliosamente complessi.”
Il mondo “di là” irrompe nella fortezza di Greenwood Island; l’eco dell’ignoto passato raggiunge la donna. Un amico avvocato le consegna un vecchio quaderno rilegato; quel diario appartiene alla nonna paterna di Jake. Sul retro della copertina poche parole, vergate con una grafia rozza, si direbbe infantile. Quello scritto potrebbe cambiare la vita di Jake, restituirle la genealogia. Il racconto è ricco di succulenti dettagli; essi permetterebbero di dimostrare che la donna è discendente di Harris Greenwood, primo proprietario dell’isola. Oppure di R.J. Holt, fondatore della multinazionale che la controlla. In ogni caso il diario parla a Jake delle sue origini. Ella sa di possedere radici; ma non crede sia possibile conoscerle, tanto sono aggrovigliate. 2008.
Le prime luci dell’alba danzano sul soffitto a volta di un salotto minimalista; accecanti pareti bianco artico e un camino in pietra grezza. Grandi finestre sull’oceano, un ambiente spartano; sul nudo pavimento giace un uomo, le membra intorpidite e pesanti. Si guarda intorno stordito, la testa gli ronza, vuota di memoria. Poi i ricordi affiorano, stormi di uccelli che gli planano addosso. Stava lavorando al soffitto; è precipitato dal ponteggio, un volo di ventisette piedi e cinque ottavi di pollice. Il dolore accende una fiamma contro il coccige; schegge acuminate si conficcano nella sua mente: i frammenti del suo passato, squarci di trentaquattro anni di vita. L’uomo è canadese, si trova nel Connecticut per lavoro. Il suo nome è Liam. Liam Greenwood.
Poi le lame tagliano più a fondo; la memoria lo conduce all’infanzia. Ora è un bambino; vive dentro un Westfalia azzurro in compagnia di sua madre Willow. La donna è una fervente attivista ambientale; è spesso nei guai con la Giustizia: la sua dedizione alla causa non esclude azioni oltre i limiti della legalità. Figlia di Harris Greenwood, che sulle foreste ha costruito un impero, ella ha opposto al padre un gran rifiuto; ha voltato le spalle a un assassino di alberi. A sedici anni Liam le comunica l’intenzione di ottenere la licenza da falegname; per Willow è come aver allevato una serpe in seno. Il nome di Liam Greenwood si afferma; i suoi lavori riscuotono successo e gli procurano molte commesse, in giro per gli States. A New York conosce Meena, viola solista della Los Angeles Symphony Orchestra. E una viola segna la fine della loro relazione; un amore intenso ma sfibrato dalle continue tournées della donna, da opposti bisogni frutto di opposti sogni.
1974. Willow Greenwood ha guidato da sola il suo Westfalia azzurro per quattordici ore; da Vancouver si è spinta verso est. Ora è seduta nella sala di attesa di un penitenziario federale. Suo padre Harris le ha proposto un accordo; do ut des. Willow potrà abitare a Greenwood Island per tutto il tempo che vorrà; in cambio deve andare a prendere lo zio Everett. L’uomo ha scontato una pena di trentotto anni e sta per essere rilasciato. Zio e nipote avevano intrattenuto un rapporto epistolare; confidenze di una bambina a un consanguineo quasi sconosciuto. Poi la corrispondenza si era interrotta; ed eccoli faccia a faccia, due generazioni di Greenwood. Perché Everett è finito dentro per trentotto anni? Egli è piuttosto vago. Ha preso della roba; roba che non poteva essere sua. Al contrario, mostra di conoscere molti particolari dell’infanzia di Willow; dettagli che non dovrebbe conoscere. Non c’era quando la nipote era piccola; o almeno così le è stato raccontato. E da dove viene quel fastidioso nomignolo? Pod, la chiama Everett, ‘baccellino’. 1934.
Everett conosce bene i rumori della foresta; abita in quella capanna abusiva da una decina di anni. Eppure il suono che sente quella mattina è diverso dagli altri cui è abituato; è flebile, carezzevole, incessante. Impossibile da ignorare. Everett ha un passato da hobo; sopravvive grazie agli aceri: estrae e lavora la linfa, vende lo sciroppo. E proprio a un acero è appeso un fagotto di stoffa; sembra contorcersi, forse mosso dalla brezza, poi emette un lamento. Everett vi infila la mano; trova un alito caldo: è una neonata. Potrebbe ignorarla; potrebbe lasciarla lì, in balia delle intemperie e delle bestie selvatiche. Ma segue l’istinto; abbraccia il fagotto e lo porta con sé nella baracca. Tra le pieghe del broccato trova un diario; è scritto da una donna, probabilmente la madre della bambina.
L’autrice fa un nome pesante: R.J. Holt, magnate proprietario della foresta in cui vive Everett. Che sia il padre della neonata? Greenwood rischia di finire in un groviglio di guai. La prudenza gli suggerisce di affidare la bambina a una famiglia onesta; ma la corteccia di Everett non è poi così dura. La piccola è una creatura rifiutata, proprio come lui; derelitta, proprio come lui; reietta, proprio come lui. E dunque la terrà con sé, nonostante la miseria; per quanto possa essere impervio il cammino di due vagabondi, resteranno insieme. Lui, un uomo reso ruvido dalla Vita; lei una bambina che a quella Vita non si è affacciata nel migliore dei modi. Holt non ci sta; non tollera che la propria erede sia finita chissà dove con chissà chi. Scatena una caccia all’uomo che gli ha sottratto la figlia; e che, soprattutto, è in possesso di quel diario scottante.
Everett deve fuggire di treno in treno, di terra in terra; deve sfidare la Legge per nascondere sé stesso e il suo prezioso baccellino: Pod. L’altro Greenwood, Harris, ha saputo modellare dal fango la propria vita; come un re Mida, l’ha resa oro grazie alle foreste. I suoi occhi non vedono che il buio; non i volti, né il cielo, né gli alberi. Ma di ogni albero avverte l’odore e percepisce l’essenza. Il buio è una prigione che stringe Harris sempre di più; egli ha bisogno di vedere se non con gli occhi, almeno con la mente. Non gli bastano parole; vuole immergersi con i sensi nelle profondità di scorci verbali. Chi meglio di un poeta sa evocare colori, sfumature, chiaroscuri? Liam Feeney viene assunto come descrittore; la sua voce ipnotica restituisce a Harris l’incanto di quel mondo che gli è negato vedere. Greenwood ha un inferno interiore; lo blandisce perché lo teme, lo teme perché sa che è inutile blandirlo. I fratelli non si parlano da anni; Everett prova un cauto orgoglio per i successi di Harris. La rabbia per il tradimento subìto soffoca però ogni traccia di nostalgia o tenerezza. 1908. Una mano superiore getta il seme da cui germoglierà l’albero dei Greenwood.
Lo scontro frontale tra due treni provoca un massacro; solo due bambini sopravvivono. Sono stati salvati dal Caso, dal Caso sono resi fratelli; e dalla necessità e dall’anima. Harris e Everett, maledetti ragazzi, compiono scorribande; eppure la vita li ha maltrattati, poveri ragazzi. Essi nascono Greenwood grazie alla pietas della comunità; solo per umana pietà i compaesani comprano la loro legna, ancora troppo verde per essere arsa.
Dal discrimine del 1908 la narrazione comincia a risalire, cerchio dopo cerchio. Si conclude la fuga di Everett e Pod; le strade dei due Greenwood si incontrano per dividersi di nuovo; la bambina trova una casa e un nome. Willow compie una scelta folle in nome di un ideale. Liam colma i propri vuoti, scioglie i nodi e chiarisce la Verità delle cose. Jake ha galleggiato per tutta la vita come un seme; comprende la confortante bellezza di conoscere le proprie radici. E, come altri Greenwood prima di lei, deve compiere una scelta; dolorosa, necessaria, terapeutica.
La parola “foresta” spesso evoca un mondo tenebroso, che spaventa perché sconosciuto: un ignoto in cui è facile smarrirsi. Invece la foresta è Vita; tendendo i sensi si può percepire lo spirito degli alberi, accogliere il fluido che emana dalle creature verdi. Ogni albero vive di sé e vive degli altri; è una unità inscindibile dal Tutto. Radici intrecciate come mani strette; cura reciproca; un tessuto di protezione e condivisione. Un albero intaccato dalla scure trasferisce tutto il suo patrimonio chimico al suolo affinché venga assorbito dalle piante vicine. Le sostanze vengono offerte come un’eredità familiare.
L’albero prossimo alla morte dona e si dona tutto, in un supremo atto di charitas, il più nobile. Anche Everett ha sacrificato sé stesso; si è condannato a una non vita, ha riscritto la propria identità scegliendo di non avere identità. È un cencioso Nessuno; un grumo di incubi e ricordi. Ha sublimato l’amore fraterno in charitas; come fa l’albero. Dunque la famiglia non assomiglia a una foresta? È un insieme di individui che mettono in comune le proprie risorse, si proteggono, si sostengono, si nutrono.
La razza umana stessa è una famiglia. È una molteplicità di stirpi discendenti da un’unica stirpe; da un embrione vibrante sacra energia nel grembo primordiale del Cosmo. È una foresta germinata da un solo seme; il vento lo soffiò quando il Tempo cominciava a esistere. All’umanità fu data una dimora in grado di abbracciare la successione delle generazioni, in ogni latitudine. Prendersi cura di tale dimora significa prendersi cura di sé, della propria anima.
Il Grande Avvizzimento che ha inaridito la Terra è un’eloquente metafora; perdendo il contatto con le proprie radici, l’umanità perde sé stessa. Si ammala, soffoca; si riduce a un tronco senza midollo: si regge ma non vive. Greenwood Island suggerisce l’antidoto all’avvizzimento spirituale: custodire le radici, ricordare che ognuno di noi le affonda nella propria terra. Questa consapevole memoria di sé e della Storia è la via per ricongiungersi con l’Io personale e con quello della collettività.
Written by Tiziana Topa