“Ritorno a Bucarest” di Victor Ieronim Stoichiţă: una Romania inattesa ed autentica
Victor Ieronim Stoichiţă è uno dei più affermati critici d’arte e intellettuali del panorama europeo. Ha insegnato presso varie sedi universitarie e centri di ricerca in Europa e negli Stati Uniti; è professore emerito di Storia dell’arte all’Università di Friburgo. Nipote e figlio di medici, nasce a Bucarest nel 1949.

Ritorno a Bucarest (Bordeaux, 2022, pp. 275, trad. di Benedetta Sforza) non è una autobiografia ma una sorta di diario di memorie; Stoichiţă vi ripercorre un segmento di vita lungo dodici anni. Coglie sé stesso nell’età evolutiva; bambino, adolescente, giovane uomo alla cui insaziabile voracità intellettuale si unisce una volontà alfieriana.
Il lungo racconto di Victor Stoichiţă inizia a Bucarest una sera del 1956, quando la sua famiglia ‒ progenie di medici, ricercatori e artisti, provata da espropri e carcerazioni arbitrarie ‒ è riunita per festeggiare la liberazione dal carcere del nonno e di uno zio. È uno dei primi ricordi di un’esistenza straordinaria, cresciuta all’ombra di un regime autoritario e sbocciata, durante una breve stagione di “disgelo” ideologico, in Italia all’ombra di maestri del calibro di Cesare Brandi. Ne emerge una Romania inattesa e autentica, lontana dall’immaginario plumbeo e grigio di una dittatura, e intrisa di vita sociale, culturale e familiare, capace di forzare ogni costrizione e di non soccombere alla paura grazie alla consapevolezza del valore di ogni oncia di libertà. Fino alla brutale interruzione del sogno socialista di Praga.
«Nulla sarà più come prima, ma…»
Così dicono gli adulti, così suona il presente alle orecchie di Victor. Quella congiunzione avversativa è quasi sussurrata ma vibra di una volontà potente; il non detto dei puntini di sospensione dice quello che la voce non osa dire: che ognuno è determinato a riprendersi la propria vita con le unghie e con i denti.
Si festeggia, a casa di Victor; si festeggia la liberazione di due prigionieri politici, il desiderio stesso di vivere e il ritorno alla normalità. Una normalità non più normale ma comunque possibile e gustata, qualunque essa sia. Victor abita con la famiglia nell’appartamento di un generale del vecchio esercito borghese fuggito all’estero.
Come tanti connazionali, gli Stoichiţă sono finiti nel sistema di confische, espropri e nazionalizzazioni e hanno perso la propria casa; lo Stato ha collocato tutti costoro in altre case confiscate, espropriate, nazionalizzate. Nel caos di questi anni di transizione la vita gira in tondo e i confini sono sfumati; gli occupanti e gli sgomberati, le vittime e i carnefici, i padroni e gli schiavi fluttuano in una strana danza.
Victor ha sette anni quando conosce il nonno materno; avranno poco tempo: il professore morirà un anno dopo. Nonostante le loro vite si siano incrociate appena, Victor può dire di conoscerlo bene; serba pochi ricordi, ma vivissimi, ne ha molto sentito parlare: immagini e voci ne hanno ricreato la presenza quasi tangibile, come fosse sopravvissuto a sé stesso. Violinista mancato, coltivò la passione per la musica di nascosto dal padre, generale dell’esercito, che non tollerava mestieranti in casa. Medico e professore di Anatomia all’Università di Cluj, verso i trent’anni iniziò a scrivere romanzi celandosi dietro l’eteronimo Eustatiu Rolando. La critica definì dostoevskiani quei primi componimenti; solo dopo aver vinto un importante premio letterario osò firmarsi con il proprio nome. Nel 1920 sposò la dentista Cristina Costa che, dopo la morte del marito, ne curò la trascrizione e la pubblicazione dei manoscritti. Già membro del Partito socialdemocratico, il professore rifiutò l’affiliazione al Partito comunista, ormai astro dominante; il suo nome andò a nutrire già nutrite liste nere.
Una notte dell’agosto del 1953, qualche mese dopo la morte di Stalin, fu arrestato per attentato all’ordine pubblico; la dimora di Cluj-Napoca venne occupata e Cristina seguì la stessa sorte di altri “rappresentanti della vecchia classe di oppressori”. Come inquilina dello Stato fu sistemata nella stanza di una komunalka. Il rapporto con la nonna materna è viziato alla radice da un quid che congela l’affetto di Victor; il bambino lo percepisce, l’adulto lo identifica: il quid è la “voce muta” di Cristina. Una voce che senza parlare urla; urla al disastro e alla follia, a un disastro perdonabile e a una follia imperdonabile: follia è pensare che la vita possa continuare in quelle condizioni, in quei tempi. Follia più folle è mettere al mondo dei figli, in quelle condizioni, in quei tempi.

La nonna paterna, Agripina, discende da un clan che dalla Moldavia attraversò i Carpazi e si insediò in Transilvania. Victor mal sopporta le lezioni di tedesco a cui ella, cultrice delle vestigia austro-ungariche, lo costringe. E sopporta ancora meno i dettati nella famigerata gotische Schrift; a cosa può servire l’antica grafia germanica? E tutte quelle estenuanti esercitazioni al violino che la nonna non si stanca di raccomandargli? Gli zingari sono maestri nell’arte del violino, lo suonano accanto al fuoco, si divertono; di certo non subiscono costrizioni. Ai suoi occhi di bambino, attratti dallo sfavillio, sfugge l’importanza di ciò che è nell’ombra: la disciplina. Nell’ottobre 1956 Budapest vive la sua primavera; l’eco della rivoluzione arriva a Bucarest, dove inizia una strategia di sopravvivenza. I bambini immaginano, fantasticano; gli adulti ingoiano poche certezze, ruminano tanti interrogativi. E temono. Come sua madre, Ada parla con voce muta e articola mute rumorose domande. L’uguaglianza sarà uguale per tutti, padroni e schiavi? O forse solo questi ultimi saranno uguali? Come far capire ai figli che pur essendo uguali, siamo tutti diversi? Come insegnare loro a coltivare la poca libertà che rimane?
La rivoluzione ungherese si conclude in un bagno di sangue, seguito da un processo di normalizzazione. I giovani, pionieri della R.P.R., sono chiamati a mordere con denti di acciaio il piano quinquennale; quali sono i loro denti di acciaio? Lo studio sistematico della scienza progressista, fondata sui princìpi del materialismo dialettico e della cultura delle masse libere inneggiante alla lotta di classe. Le discipline scolastiche sono sottoposte a una rigida revisione politicizzata.
Il giudizio sulla letteratura è lapidario: tutti gli scrittori del passato, tranne poche eccezioni, sono in errore in quanto rappresentano gli interessi della classe dominante. Solo la nuova letteratura socialista risponde ai criteri della vera arte progressista. Nel 1962 Victor inizia il liceo; le sue letture sono variegate e si delinea il suo interesse per il mondo antico, nutrito da un grande repertorio bibliografico, seppure disordinato.
Nell’agosto del 1964 Bucarest si riempie di fantasmi; uomini dallo sguardo triste, il volto esangue, taciturni, smarriti: sono i sopravvissuti dei Gulag, appena rilasciati per decreto ministeriale. Uno di loro, Florin Cortez, è un importante capitolo della vita di Victor: Ada lo assume come insegnante di inglese per il figlio; è convinta che ogni lingua straniera sia la chiave che apre qualsiasi orizzonte. Testimone della vita carceraria, delle lezioni clandestine che pure non mancavano, Cortez è la fonte da cui il giovane attinge preziose notizie sul nonno materno. I due uomini avevano condiviso la cella numero venti del carcere di Vacaresti. Dopo il 1965 il sistema dei passaporti viene allentato, i viaggi all’estero tornano a essere possibili; Victor assiste a un’emorragia di conoscenti che approdano oltre. Come se avessero oltrepassato l’Acheronte, essi sono ormai dall’altra parte; dincolo e acolo sono i termini di una geografia immaginaria che oppone il sogno dell’aldilà all’incubo dell’al di qua. Il campo semantico relativo al passaggio prevede tre verbi che indicano altrettanti modi di arrivare oltre; fuggire, restare, partire. Forse il destino di Victor è già tracciato durante la villeggiatura sul Mar Nero; forse è un presagio il ritrovamento di un reperto durante un’immersione. Il Ponto Eusino gli regala il frammento di una antica coppa; vi è dipinto un occhio nero: quell’occhio obbligava il bevitore a confrontarsi con se stesso.
Nel maggio 1967 Victor consegue la Maturità; i primi di giugno, mentre infuria la Guerra dei Sei Giorni, studia per l’esame di ammissione all’Università. La sua passione per l’Archeologia subacquea gli ha ispirato la decisione di iscriversi alla sezione di Storia dell’Arte, dipendente dall’Accademia di Belle Arti. Viene ammesso; nelle aule del Dipartimento, egli avverte che è iniziato un periodo di transizione dopo il superamento del Realismo Socialista. La Facoltà segue la scuola di Cluj mentre il Centro di Ricerca è fedele alla scuola di Focillon; gli istituti sono due anime ostili in un solo corpo. Victor apre gli occhi su una sorprendente realtà sotterranea, la vivace circolazione clandestina di pubblicazioni straniere. Le tortuose leggi di accesso alla conoscenza in una società totalitaria hanno un aspetto quasi sovversivo di ribellione alla rigidità del passato dogmatico.
Nel 1968 anche Praga vive una breve primavera; il fermento degli studenti accende di speranza i colleghi rumeni. Alla fine del primo anno accademico circola una voce che diventa presto certezza: vengono indetti i concorsi per le borse di studio all’estero. Per la Facoltà di Storia dell’Arte la meta è Roma; c’è un solo posto. Victor partecipa. Vince il concorso. L’Italia è sua; Roma è sua. L’esaltazione, la paura; e il dubbio. La partenza è sicura? La borsa di studio è solo un meschino bluff dello Stato? La fine della primavera di Praga rischia di spazzare via il sogno italiano di Victor.
Il 22 agosto del 1968 egli assiste a un evento cui darà il nome solo in seguito alla lettura dei saggi di Elias e Weber. Quel pomeriggio nella Piazza del Popolo, Nicolae Ceausescu arringa le folle e ne ottiene il favore. L’ascesa di un capo illetterato, balbuziente, dislessico e quasi afasico è “l’emergere di un potere carismatico in un regime di crisi” che si fonda su un “evento estremo” e su una “massa ondeggiante”. Victor Ieronim Stoichiţă assurge a paradigma di una generazione messa a dura prova dalla Storia.

La Storia non fa sconti, la Storia è carnefice di vite umane sì, ma anche di sogni. Victor è già sul ceppo e il carnefice sta per calare la scure sul suo collo; la vicenda professionale di Stoichiţă indica che quella scure lo ha risparmiato. L’anziana Menarù, leggendo i fondi del caffè, aveva previsto che la vita di Victor sarebbe stata guidata dal caso. Era vero. Stoichiţă è un uomo ossessionato dal tema dei confini. I confini invisibili dell’Impero Romano, di cui parla Kornemann; i confini invisibili dell’Europa della sua giovinezza.
“La nostra geografia e la nostra vera storia ci avevano fatalmente collocati nei territori del Patto di Varsavia. E io me ne stavo seduto sui suoi confini. Sì, era un pensiero quasi comico: ero seduto sulle rive del Patto di Varsavia […] Questo assurdo Patto e questa assurda Alleanza! […] E se un giorno eliminassimo questi confini una volta per tutte?”
L’Arte trascende i limina visibili e invisibili con l’universalità del suo linguaggio fatto di immagini, segni, linee e colori. E grazie a una vita consacrata all’Arte, Victor si è alzato da quelle rive ed è passato oltre.
Written by Tiziana Topa