“Copula mundi” di Carlo Miccio: il buono è più stupefacente che stupido
Fui invitato dal mio amico Algo detto Roy, sempre informatissimo su tutto quanto bolle in pentola, ad andare con lui alla presentazione di “Copula mundi” di Carlo Miccio, e forse non sapeva nemmeno lui se si trattasse di un romanzo o di un saggio.

L’incontro con l’autore era fissato a Villa Cougnet, luogo mitico per noi santacrocini fuori le mura, perché tali sono considerati a Reggio quelli che abitano oltre l’Arco di via Roma, nella zona di via Adua, popolata un tempo per lo più da ex contadini e da operai delle Omi Reggiane, ora dai loro eredi e da una schiera variopinta di immigrati. La settimana scorsa, insieme a un paio di amici, si era deciso di programmare per il martedì successivo una pizzata e io ne proposi una presso un locale di asporto con tavolini, dove la pizza è buona e più a buon mercato che altrove, sito in fondo a via Adua. Uno era d’accordo, mentre l’altro, appartenente a una facoltosa famiglia reggiana, mi scrisse il seguente messaggio: Senza offesa ma nel posto di via Adua non vengo. Già viviamo tempi difficili, se poi andiamo a deprimerci in una zona e in un locale un po’ sui generis, anche no. Abbiamo bisogno di luce e vita… Fu allora che, per la prima volta in vita mia, ebbi coscienza di vivere in un ghetto buio e moribondo. La mia reazione fu immediata. Me ne fregai. Scrissi ai miei due amici che per quella volta avrei saltato. Col primo amico andai poi a mangiare fuori sia la sera prima che quella dopo, e poi anche il giorno dopo ancora, ma a pranzo. Fui abbastanza satollo in quel periodo. Tornando indietro in quella benefica illusione che è il tempo, il primo nero che vidi fu nel ‘65, a Linate, in gita scolastica. Non so se fosse africano oppure yankee, grande dilemma che ancora mi trascino nella mia ancor giovane vita. Ricordo che mi allungò un paio di monetine che gli erano rimaste in tasca. Si vede che non era collezionista. Le usai poi per comprarmi delle chewing-gum. Il primo arabo che girava a Santa Croce spuntò intorno al ’77: un certo Moammed, senz’h, così era chiamato da tutti, il quale, girando a piedi di casa in casa, vendeva tappeti da salotto.
Poi ne giunse un secondo, suo concorrente o collega, nessuno lo capì mai. Poi altri, alcune migliaia, che per lo più operavano nell’industria; così pure una moltitudine di soggetti neri come il carbone, di sudamericani, di genti dell’est europeo, in maggior parte occupati come autisti di camion, addetti alla movimentazione merci, muratori. Non ho dati precisi a riguardo.
Questo per dire che Villa Cougnet, inclita residenza di Armando Cougnet, noto per essere stato il primo organizzatore del Giro d’Italia, è immersa in un ambiente a rischio, con pochi squarci di luce e di speranza di vita, anche se i suoi abitanti, vaccinati da oltre un secolo, non se ne accorgono più di tanto. La via in cui abitavo, una volta, prima d’essere asfaltata, e prima che fossero costruite le case destinate ai dipendenti delle Reggiane, era detta Via della merda.
Migliore location per la presentazione del libro, a Reggio, non ci poteva essere. Mi correggo: mi avvertono dalla regia che in zona stazione la platea sia ancora più multietnica. Il che non è facile.
Nella presentazione, volutamente, non si parlò del romanzo, ma quasi unicamente del fenomeno dell’immigrazione e delle diverse opinioni che i politici e la gente comune ha a riguardo. E questo, maledizione!, mi spinse ad acquistare il libro (l’avrei comprato in ogni caso).
Ora vorrei parlare solo di quello. Il protagonista è Marco Cicoli, il cui cognome, chissà se per caso, riprende un termine gastronomico: cicolo è un prodotto alimentare napoletano ottenuto dalla lavorazione del grasso presente nel tessuto adiposo interno del maiale. A Reggio si chiamia cicciolo ed è un po’ diverso, un po’ più secco. Ognuno ha il grasso lavorato che si merita. Il concetto non vale per quelli secondo cui la carne grassa del maiale non è concessa (islamici, nutrizionisti). Ma ora basta divagare! A volte sento un po’ di ex-agerare.
Il luogo è sito un po’ a sud di Roma, presso quello che un tempo era definito il Canale Mussolini.
Quando sento parlare degli stranieri non riesco a evitare di sentirmi ignorante: chissà che stanno dicendo. Diranno lo stesso di noi, immagino. Con gli immigrati, specie coi nuovi arrivati, c’è la necessità della presenza di un intermediario culturale, che rappresenta una specie di ponte umanistico e umanitario fra te e l’Altro, senza di cui uno si sentirebbe per sempre separato. In tal caso la lingua non rappresenta più un mezzo di comunicazione, ma di esclusione.
Il discorso vale per ogni idioma, il cui etimo è dal greco ídios, particolare, da cui anche idiota, “nella fattispecie, il somalo, che alle sue orecchie echeggiava come una sorta di arabo caricato di quell’ansia caratteristica – che Valerio, per sua particolare esperienza, considerava tipicamente africana – di chi è abituato a non essere creduto.”
Valerio è il responsabile del centro di accoglienza in cui Marco deve scontare un paio di mesi di volontariato obbligatorio, strambo ossimoro che significa che una pena comminata per guida in stato di ebrezza è stata trasformata nell’incombenza di dover svolgere un determinato servizio in un centro in cui erano ospitate “persone provenienti per lo più dall’Africa subsahariana, con storie che oscillavano tra l’incredibile e il già sentito più volte, e che da Valerio volevano soltanto una cosa: dcoumenti. e nel pià beve tempo possibile”.
In merito a una tragica vicenda occorsa a Farah, una donna ospite, “Valerio aveva già letto la relazione stilata dall’assistente sociale” – e ora doveva “costruire una storia credibile sulla base di un racconto credibile, per garantire un futurio credibile a un essere umano.” – in god we trust, but also in humans we should do it. Sarebbe d’uopo farlo prima! (mezza piolata)
Valerio era “consapevole però che non sempre la realtà vera – quella fattuale, cioè che è preciamente accaduto – risulta essere la più credibile agli occhi di un giudice.” – e un minimo di mitopoiesi non ha mai fatto del male a nessuno.
Marco non è un una persona dal passato privo di ombre, anzi, da giovanotto ne combinò parecchie, per via della droga, che per un pelo non gli costò la vita, che finì per ammazzare un suo amico, che ha un rapporto diretto con quel Valerio, ma a me non interessa produrre una sintesi della storia, perché conviene leggerla così come l’ha scritta l’autore e nulla più.
Io manco scrivo recensioni, amando riportare la mia personale reazione in riferimento ad alcuni punti della scrittura altrui. Per me, ma per tanti è così, scrivere è compiere un atto dovuto, dopo aver fatto una scelta, che può essere: quale libro leggerò oggi, e solo in un secondo sarà: come reagirò per iscritto?
“A me i negri manco mi stanno simpatici” – dice “Floriana, la cuoca del centro”. Ma poi si adeguò a quello strambo habitat, finendo per essere amata da tutti e per volere bene a un sacco di anime.
A me non piacevano i triestini, che conobbi in sette mesi di alienante naja, ma poi, col tempo, ho cambiato opinione. Sono dei bravi muli! E mule le loro donne.
Leggo, a pagina 47-48 una storia terribile, che non riporto perché è lì, nel romanzo di Miccio, che occorre andare a leggere. Io non ce la faccio mica a riportarla.
Qualcuno si lamenta che “questi signori” fanno “i bisogni per strada”. Quand’ero piccolo capitava che i nostri anziani, non necessariamente affetti da prostratite, pisciavano contro i muri, e quanti ne ho visti di quei minzionanti! Ora non usa più per fortuna. Erano tutti reggiani e pensionati. Anch’io talvolta mi divertivo a imitarli.
Si parla di lavoro, anche in nero, anche precarissimo, di questa gente, e la cosa la si giustifica in modo politically non correct, però funzionale: “… che fanno in tutto ‘sto tempo?” – in cui la burocrazia cincischia, tanto per usare un eufemismo, in attesa di produrre i necessari documenti – “Campano d’aria?”.
Altra storia ignobile, a pagina 72 e seguenti. E mi domando: perché l’uomo è così? Forse perchè è figlio naturale di una divinità sanguinaria? O che altro?
“… un africano su sei è nigeriano…” – ormai anche un reggiano su centoventisei (è una battuta, chiamiamola ancora piolata, ma non so quanto sia distante dalla realtà).
“… Sono quelle le vittime, sempre: le persone che non hanno scelta…” – e non si sta parlando di pelle, razza o altre convenzioni umane: si intende una scelta di vita. Nessuno ce l’ha in fondo, ‘sto privilegio di scegliere, nel senso assoluto del termine, ma ad alcuni non spetta nemmeno il minimo sindacale! È questa la vera ingiustizia!

Nessuno è vittima o colpevole “al cento per cento”: tutti devono avere la possibilità di essere accolti, in prima battuta, di avere almeno una chance iniziale. Sempre che sia vera l’evangelica storiella che ci urlò in faccia quell’immigrato Nazareno, che siamo tutti fratelli. Che apparteniamo alla medesima tribù di selvaggi.
Interessante è quanto leggo a pagina 80. Nel 1973, per la prima volta in Italia “ci sono stati per la prima volta più immigrati che emigranti”. Mi narrava papà che un suo amico, negli anni ‘30, si stava trasferendo in Svizzera in cerca di lavoro, e una sera era entrato in una bettolaccia che, per disperazione?, accettava i nostri compatrioti e, chissà, forse anche i cani. A un certo punto l’amico di papà osò segnalare al cameriere che nella zuppa che gli avevano portata galleggiava il cadavere di una fetida mosca, al che quello, con franca supponenza, gli rispose: Tu es un italian! Tu manges de tout! Una penosa battuta: si diceva una volta O tempora o mores. Ora è O tempora o colori vari, fra cui anche mori, di varie gradazioni però. Quando Tonino, trapanese, bussò alla porta della mia con-sorte, zia Carmelina, in prima battuta, gli chiuse la porta in faccia, dopo avergli detto che non avevamo bisogno di niente. Lui ribussò, per cui andai a vedere io. Ci abbracciammo! Era il mio testimone alle nozze! Però la sua camicia sgargiante e il colorito non pallido potevano ingannare! S’era di luglio e la tintarella di Tonino era quasi magrebina.
Un aspetto notevole: leggendo il romanzo, pare che nei centri di accoglienza gli stipendi non siano in genere né eccessivi né erogati mensilmente, però colà si offre a persone parzialmente disabili l’opportunità di trovare una loro dimensione operativa. Singolare e a suo modo pittoresca è la figura di Piermario, di cui non dico altro perché c’è scritto tutto là, nel libro di Miccio. Anticipo solo un suo lato importante: è milanista come me!
“… braccianti indiani che pedalavano verso il posto di lavoro” – e io ne vidi, anche di africani, che sgognavano (nel mio idoma arşân equivale a pedalare) alle 5 di mattina, verso le aziende agricole di Battipaglia. A Reggio, detto per inciso, i sikh sono fra i più ricercati operai addetti alla stalla. Non dalla polizia, ma dai proprietari agricoli. Ma non mi si chieda perché, che lo ignoro.
“… l’unica priorità era riuscire a spedire i soldi a casa, per dimostrare alle famiglie che erano arrivati in Europa, stavano bene e avevano iniziato a guadagnare.” – una banalità: tutto il mondo è il paese di tutti. È il cosiddetto villaggio globale, o no?
“C’è qualcosa nella forma di un pallone – il fatto che non ha spigoli, credo – che rende possibile ogni movimento…” – e poi assomiglia tanto al nostro negletto pianeta.
“Autofiction”: quando in un discorso si mescola verità e finzione, come anche in questo libro, come anche nella mia reazione meta-letteraria. C’è poi chi (Hilary Putnam) ipotizza che noi non siamo reali, ma dei meri cervelli immersi in una vasca, che s’illudono d’essere vivi, e da quest’idea è stata tratta una celebre serie di film.
Interessante questione: al momento m’interessa di più affidare a quello che vedo una parte di verità, nonché di mia immaginazione. E tutto il resto è la vita, ‘sta birbantella sconosciuta. È l’autofiction che ci permette di comunicare con noi stessi e col prossimo. Viva l’autofiction! È come il lambrusco, così ridente. L’importante è non eccedere. Un bicchiere o due sono consentiti (e consigliati). È come la birra, se a uno non piace, mio dio!, il vino.
“Capirsi bene è la prima cosa, sempre: il resto viene dopo.” – capirsi è come stare in salute, direbbe forse Troisi, ed è quello che ci permette di salvarci dal nostro egoismo.
Il mondo è, ahimè, costruito su di esso: l’importante è che non sia vile come quello di chi si rifiuta di portare in ospedale Grace, un Angelo Nero che deve partorire, perché “mi sporca tutto… e non so che fare.” – il sangue non è soltanto acqua, plasma, emociti etc… è anche la nostra vita.
Il romanzo di Miccio è la storia di una catarsi: di Marco, che prende coscienza di un mondo finora conosciuto per sentito dire. E di Valerio che scopre un amico a cui potrà appoggiare “una mano sulla spalla”.
Quando ci vedremo in quel celestiale bistrot, che non si sa se poi esista, Miccio caro, ti dirò cosa il tuo cognome significhi a Pixuntum, dieci chilometri a sud di Elea. Il tuo romanzo verità, intanto, finisce molto benino. E parleremo anche di quel copula mundi di Marsilio Ficino, ispirato, a quanto so, dal solito Platone.
È buonismo il tuo? Non so, ma di certo quello è preferibile al cattivismo.
“Ripartire dalla colazione al bar: era quella la sua nuova parola d’ordine.” – anche la mia e di Algo detto Roy, che mi ha coinvolto in quell’intrigante presentazione. Colgo l’occasione per ringraziarlo.
La neonata Maria, figlia della meravigliosa Grace, a cui ho appena accennato, che è la figura più bella del romanzo, un’ultima cosa c’è da dirle: “Benvenuta a Latina.”
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Carlo Miccio, Copula mundi, Edizioni Alphabeta Verlag, 2022