“Elogio della banalità” di Salvatore Patriarca: una Doxa imprescindibile
Dopo aver sorbito l’Introduzione de Elogio della banalità, il saggio meno banale della mia vita, che mi ha costretto, a mo’ di Tarzan (o del meno banale Akim) ad avanzare nella selva svolazzando da liana a liana, sempre un po’ in ritardo nel passaggio aereo, ho ingurgitato di filato i primi tre capitoli, alla fine dei quali ho azzardato a pensare che: a) è ora che reagisca un po’ poiché sono gravido di troppi cuccioli che smaniano per uscire; b) forse il saggio di Salvatore Patriarca sta divenendo sempre più banale, cioè facilmente utilizzabile, anche se talvolta ripiomba, facendo ripiombarvi il lettore, nel caos interpretativo.
Il kháos, lo dico a rischio di parere banale, è quel vuoto in cui è necessario cadere, tipo il buco nero, in cui tutto si banalizza, ordinandosi fino a diventare parte di una Singolarità priva di tesserino sanitario e di annesso codice fiscale.
“Cosa sia il banale è in qualche modo autoevidente: il banale è banale.” – ogni parola è se stessa e nel suo gene è insito ciò che la conduce al mutamento, nonché il suo senso, anzi, i suoi sensi multi-direzionali in cui dovrà dirigersi nel suo continuo avanzare nel mondo, ma quel che conta alla fine è l’ambiente in cui vive e che ne orienta la futura esistenza.
Ero a conoscenza della derivazione etimologica del termine da banal (francese), ban (germanico), bannum (latino medioevale), da cui il bando, che era il modo “del signore feudale” di diffondere la sua norma, la quale, una volta acquisita, “diventa banal, cioè comune, a disposizione di chiunque.” Nel mio dialetto arşân (più banalmente: reggiano), mèter fôra i bând significa diffondere coram populo un fatto privato. Oggi il signore che, più banalmente, è quel ristretto insieme di individui detto la classe dominante, utilizza ben altri mezzi informativi (talvolta deformanti).
“Il comune assume una condizione negativa” – essendo ora quella quasi nullità che ci rende non ricchi come vorremmo; anche se, aggiungo io, uno si sente povero quando patisce della privazione di qualcosa, un bene o un’informazione, per cui qualcuno può arrivare a dirgli: Come fai a non averlo, oppure: a non saperlo!.
“La banalità è la tautologia del passato…” – la scuola, specie nei primi anni, è una provvidenziale banalizzazione della cultura, tenendo presente che quello che è banale per un adulto non lo è normalmente per un bambino.
“Il banale si rifigura allora come una soglia di emersione…” – e mi viene da dire che rifigura non è un termine banale per il mio programma di scrittura, ma che lo diventerà se lo infilo nel dizionario aperto dell’applicazione. Ho deciso di non farlo perché preferisco non usarlo mai, pur essendo grato all’autore di avermelo banalizzato (lo ignora persino zio Google!). Ho deciso di scordarlo, così ogni volta che lo incontrerò mi parrà “stra-ordinario”, preferendo memorizzare il più essoterico ri-figura.
“Finora si è visto come la banalità ricada nell’insignificanza…” – e qui potrebbe frantumarsi l’ipotesi che stavo proponendo: che ogni banalità sia un’istruzione REM che nel linguaggio Basic può essere omesso, ma che serve a rammentare il senso di un’istruzione. Il REM non abbonda di significato, limitandosi a quel che serve. Il banale no? Ripenso ai bambini della scuola materna e delle elementari, ai fanciulli delle medie, inferiori e superiori, nonché ai giovani dell’università e dei master che ne conseguono. Parafrasando Eduardo, le banalità non finiscono mai.
Perché talvolta uso il corsivo, in genere per i termini da me usati in modo deformato ma anche per quelli stranieri? Perché non sono banali: non tutti conoscono il significato della parola master. Per alcuni sono dei campionati di tennis, per altri dei corsi universitari successivi alla laurea. Perché non metto in corsivo i vocaboli bar e film? Perché vado al bar tutti i giorni e vedo un film o due a settimana.
L’autore attribuisce al banale (questo abituale sconosciuto) “tre ambiti dentro i quali si muove”: “il comune, l’ovvio e il disinteresse” – mentre il suo contraltare, la “singolarità”, si agita, direi, più che muoversi, in altri tre: “il differenziamento, l’espressivo e l’attrattivo”.
En passant, il saggio rivela continuamente i lati meno banali del banale. Mettere banale in corsivo mi pare un ossimoro concentrico, cioè inscritto in un unico termine, un po’ come quel gelato siculo detto caldofreddo, banale miscuglio (per chi abita a San Vito Lo Capo) di cioccolato bollente, crema gelida, con un’aggiunta di panna, latte e rum. Ho scritto crema, che è il mio gusto preferito, ma a ognuno può scegliersi quel che si merita: e questo non è affatto un dire banale. La democrazia e la libertà non sono mai banali: perciò stentano a diffondersi.
Stavo pensando all’utilità di queste contrapposizioni: massa/energia; vuoto/pieno; onda/particella; quiete/moto; 0 e 1 del linguaggio macchina. Attenzione, però: massa ed energia si scambiano continuamente dei favori; l’onda è una particella che ha levato su le ruote come fa un aereo quando decolla, per poi riabbassarle quando giunge a destinazione; il vuoto brulica di quasi infinite, inesistenti e non perciò banali, particelle virtuali: essenziali per la ri-creazione continua di quelle reali; la quiete è un moto inerte; e 0 e 1 sono solidali l’uno con l’altro, ordinati uno dopo l’altro in un’unica istruzione.
Penso anche all’antagonismo ideologico che per Giulio Carlo Argan esiste fra il Pollaiolo e Piero della Francesca (e il lettore qui può anche annuire, essendo il primo convulso e il secondo immobile), fra Seurat e Signac (uno utilizza dei puntini grossi e l’altro di più minuti), fra Arnaldo e Giò Pomodoro (e qui la mia disamina, ma non quella di Giulio Carlo, stenta a comprendere), fra Picasso e Bracque (e qui la mia rinuncia in partenza, mentre la sua si diletta a evidenziare delle differenze per me impalpabili). Secondo Argan a variare in questi sommi artisti è semplicemente, ma non banalmente, la loro visione ontologica dell’arte. Ma non mi si chieda perché Filippo Lippi sia meno grande del figlio Filippino, perché non l’ho mai capito.
“E qui si intravede una prima baluggine di quell’imperativo a cui si faceva riferimento in precedenza.” – sia il mio programma che zio Google ignora il termine baluggine (che potrebbe essere un refuso), e il buffo è che ne avevo colto il significato pur ignorandolo, possedendo esso, forse, una banalità patente (pleonasmo) che gli è congenita.
“Il banale infatti è il banco di prova, il confronto diretto attraverso il quale il sé diventa se stesso.” Spesso riporto, nelle parti del testo citate (anche se riportare e citare, come insegna Raffaele Simone in Il software del linguaggio, possiedono significati non banalmente diversi), avverbi come infatti: infatti le affermazioni a cui l’autore giunge a definire un argomento nascono da una selva oscura di ragionamenti, ché la diritta via va conquistata soltanto a forza di machete.
A prescindere (come mai banalmente diceva Totò) da ciò, ogni tanto mi sorgono dei dubbi.
La modernità “passa la frontiera dell’esistenza del sé, intesa nella sua accezione etimologica primaria: come ciò che sta fuori, ciò che emerge.” – e qui non so quale pesce pigliare: la modernità, la frontiera dell’esistenza del sé ma non certo il sé, che è maschile. Punto sulla suddetta frontiera. Quel che mi pare banale per l’autore non lo è quasi mai per me. Una grossa fetta di questo (as)saggio rimarrà per me esoterico (non assimilato) per l’eternità. È il destino d’ogni scrittura, di quella del Patriarca più di altre.
“Una delle caratteristiche essenziali del banale è la onnipervasività, che deriva proprio dalla diffusività abitudinaria dell’ordinarietà comune.” – credo di aver compreso, ma rileggerò la frase dopo mangiato. Un banalissimo seppur gustoso pranzetto (lasagne casalinghe) domenicale m’attende.
“Lo strumento principale che l’individualità ha per non essere banale è di esprimere se stessa.” – e qui casca ‘o ciuccio. Parlando con un aspirante scrittore, lo consigliai (malvagiamente) di evacuare la sua verità, che cogente spinge da sotto o, se preferisce una meno odorosa allegoria, di partorire un testo, perché come disse la mai banale signora Angelina da ‘nu poco ‘e schifezza nasce a criatura. Quel tale mi rispose che lui si limitava a narrare la parte migliore di sé. Al che replicai: devi scrivere quel che vuoi espellere, perché ti fa un male bestia! E lui: No, caro, se devo scrivere di escrementi basta che accenda la tele all’ora del telegiornale! Come scrittore lo trovo banale, poco ardito, non geniale. Eppure è un uomo simpatico e la sua scrittura, a tratti, è divertente.
“Tale espressività va intesa nell’accezione più ampia possibile: contempla una componente pragmatica, una componente linguistica, nonché una componente propriamente produttiva…”: che conduce alla “creazione di opere artistiche”, e non di banali “manufatti”, atta “a scardinare l’ovvietà esistente.” E fin qui tutto è self evident (anglicismo, dal latino anglicus, per banale?).
“Il sé singolare, nel suo percorso di affermazione, ha come obiettivo quello di essere l’istitutore di un nuovo ordine significativo.” – e qui stavo a urlare: Mi oppongo, Vostro Onore! Ma poi ci ripenso. Essendo io un avido lettore di opere divulgative di fisica superiore (come veniva una volta indicata quella non banale), ho davanti a me due fenomeni antitetici: il buco nero, che tende a una singolarità ordinatissima; e l’entropia, che è il senso per cui il cosmo pare condannato, per via di un secondario principio termodinamico, a un disordine eterno. Quale demone vincerà? Non tifo per alcuno dei due, perché entrambi non prevedono un Pioli che scrive reazioni. Mi fa piacere sapere che le due tendenze si alternano continuamente, come in quei due celebri match di tennis fra Borg e Mc Enroe. Ordine e disordine, sono dei players antagonisti e al con-tempo solidali.
Una banalità che mi preme svelare ai meno avvertiti: io non scrivo critiche o recensioni, ma reagisco al libro che ho letto, aspettandomi sempre che l’autore, per benevola solidarietà o per il perfido gusto della némesis, faccia altrettanto.
Il sé, per come la intendo io, cerca innanzi tutto di fuggire all’altrui singolarità, al fine di creare un suo campo attrattivo che determini un nuovo ordine gravitazionale, il suo.
“Il banale configura una sorta di stasi che limita lo sviluppo del reale, impedendo l’esplorazione dell’ignoto”: è la Ninfa Calipso che trattiene sette anni Ulisse, che non ha smesso mai di sognare e che poi sceglie la Libertà, dandosi alla fuga. Anche dal Buco Nero una Radiazione può fuggire e diffondersi nel Tutto, abiurando quell’immota Singolarità.
“Essere banale è allora lo stigma della contemporaneità, l’attestato di un fenomeno performativo, l’accettazione della rinuncia all’eccezionalità del singolare…” – e qui sorge il bisogno di verificare se sia più banale la radiazione che evade nella Complessità, oppure quella che ripiomba nella Singolarità Unica e Singolarmente Attrattiva. Sono scelte diverse (e obbligate?).
“Non essere banale è l’imperativo del sé, lo sforzo che spetta alla singolarità che vuole comprendersi ed esprimersi in quanto speciale.” – nella Singolarità nulla lo è, tutto è del tutto ordinario/ordinato: Fuga dalla o verso la Libertà? Esiste poi ‘sta Libertà, o è soltanto un’illusione?
“Banale è un’individualità ferma in una condizione che ha esaurito ogni significato, che rimane nell’ordinario, non riuscendo ad essere produttiva in alcun modo.”: un unico ente che non intende più muoversi.
“Il genio fa epoca” è uno spartiacque nel cammino evolutivo del genere umano attraverso il quale è impossibile differenziare l’anteriore e il posteriore, dove lo spazio-tempo è fissato per l’eternità, almeno finché quel nuovo genio…
“L’atto creativo definisce, codifica in particolare il senso che si attribuisce al tempo, la trasformazione che in esso accade.”
Il genio è ex-agerato, poiché esce dagli argini dove scorre il tempo abituale, rinnovandoli. A volte penso a lui come a quel buco bianco che, secondo l’idea di fisici come Hawking e Smolin, rappresenta l’ano o la vagina del buco nero, mie allegorie, da cui sarà evacuato o partorito il nuovo cosmo. Egli va “a sfidare continuamente il banale.” – proponendo il suo nuovo valore, riscrivendo ex novo il vecchio.
Leggendo qualsiasi libro, più o meno attrattivo che sia, si entra all’interno di un’attraente banalità, da cui si cerca di sfuggire tramite una propria, insperata, diversità: questa è ogni volta la ratio della mia reazione.
“Se, infatti, l’atto geniale aveva già sempre inscritta l’ambizione di trasfigurazione dell’ordinario, il nuovo informativo si pone un obiettivo più limitato: essere novità non banale.” – aggiungendo se stessa, e non altro, senza nulla sconvolgere, rientrando “con estrema velocità nell’ordinaria banalità…”.
Ancora: “Qualunque esempio peccherebbe dunque di banalità…” – per esempio, i Måneskin, che io apprezzo senza chiedermi se sono banali, innovativi o geniali. Il loro eclatante successo è una riprova che nulla è del tutto originale, né del tutto seriale.
“L’obiettivo rimane sempre lo stesso: sorprendere in qualche modo lo spazio comune esistente, introducendo un momento di alterazione che spezzi la reiterazione chiusa nella ovvia ripetizione di stessa.” – i Måneskin sono riconoscibili al primo accordo; così lo furono, illo tempore, i Beatles.
Mentre il genio “persegue il proprio obiettivo rivoluzionario”, “la novità informativa” ha come obiettivo “la quotidianità”, la banalità presente e futura, non necessariamente passata.
“Si è già osservato come la velocità di acquisizione e comunicazione della novità sia un elemento decisivo.” – e chi tardi arriva alloggia come può.
“Ricerca, velocità, competizione, superamento: tutto questo per poi ricadere nell’ordinario” – competizione, il valore che conduce dappertutto ormai. Sto pensando a quella forma di videoregistrazione di un sistema, che era inferiore tecnicamente a un’altra, che era però più debole nel marketing; nonché alla tecnologia di un sistema operativo che era sì inferiore alle altre, ma che stravinse per motivi imperscrutabili (forse proprio grazie alla sua banalità) nel mercato mondiale; perché sarà sempre lui a decidere: il sempre più esoterico bazar del villaggio globale.
La novità informativa presto ricadrà, “nonostante tutto, all’interno dell’orizzonte dell’ampliamento del banale”, che tanto ricorda l’orizzonte degli eventi che limita la capacità attrattiva dei buchi neri.
“La singola novità è ogni volta un po’ meno nuova e un po’ più banale”: nulla è realmente nuovo sotto il sole, e tutto è vanità.
“Le informazioni sono troppe, sono continue, sono a disposizione di ciascuno ed elaborate da ciascuno.” – il mondo appartiene a tutti, ma è ordinato da pochissimi eletti, perché questo conviene a qualcuno che è potente, “tutto è già detto, tutto è già conosciuto, tutto è già comunicato…” – e per chi esige la Libertà non resta che la fuga, perché, come dice l’immenso poeta: “assez vu… assez eu… assez connu…”. Chi sarà mai quel Vate infernale? La citazione non è affatto banale. Lo sbanalizzo? No, se interessa a qualcuno che cerchi pure su zio Google, che banalizza ogni cosa. Tutto, quando ri-nasce, diventa al più presto banale. Diversamente sarà espulso all’istante per poi disperdersi nel Nulla Virtuale, a meno che… zio Google non provveda a salvarlo dall’oblio.
Dopo “il possesso”, tocca all’”espressione”: “l’opinione è di chi la esprime”: e qui si crea la nuova gerarchia dei valori, “all’interno di una prospettiva comunitaria” – che tutto macina e nulla lascia inutilizzato.
“Il sé è sempre a suo modo geniale e innovativo. Gli basta prendere un qualunque ambito di ordinarietà e rivestirlo con la propria connotazione doxastica per trasformarlo in qualche cosa di peculiare, personale, autofondato.” – sto pensando alle opere di Piero Manzoni, soprattutto al suo (presunto) fiato. Non ho citato la sua cacca perché mi pareva tanto aulente quanto banale.
“Si rappresenta cioè come autonomo e come libero da ogni banalità.” – il che lo conduce a una necessaria narrazione di sé: “nella sua capacità ricreativa eccedente ogni banalità”, “Al sé occorre rivendicare il proprio mondo straordinario come produzione autonoma.” – il mondo esiste, a suo vedere, principalmente per quel fine.
L’autore scorge nella “corporalità” (intuisco: del poppante) l’origine di questa auto-assegnazione, nelle tre distinte, ugualmente necessarie: “alimentazione”, “allenamento” e “avvenenza”. Quasi tutti, nel primo e secondo mondo, assai meno nel terzo, sono in grado di nutrirsi e di allenarsi, ma pochi possono definirsi avvenenti, nonostante eventuali ritocchi che rischiano di far dire: oh dio, come si capisce che si è rifatta!
Scrive (circa mezzo secolo fa) Natalia Aspesi in La donna immobile che l’uomo, diversamente dalla donna, “è riuscito scaltramente a costruire per sé il mito che più l’uomo è brutto più è affascinante”. I poeti Charles Bukowski e Stefano Raspini, in modo non dissimile a Charles Bronson, hanno fatto della propria diversa bellezza un nuovo canone estetico. In dialetto arşân esiste il detto a sûn brót ma s-cét, sono brutto ma schietto: la bellezza è nell’essere me stesso. Per testimonianza personale posso garantire che anche i brutti si rimirano allo specchio prima di uscire in società.
“Il sé conquista spazio affermativo a scapito dello spazio comune condiviso.” – dai tempi di Alessandro Magno (meglio è dire da sempre) è una teoria acquisita, che può essere falsificata in caso di rivoluzioni da parte di un nuovo sé, o di sentenze emesse da altri sé connessi alla banalità insita nella Legge, che conducono a condannare chi era il primitivo reggitore dello spazio che si era con tanta disonesta fatica guadagnato. Che gran Khaosino! Sempre e solo quest’orrida Panta rei!
“Il sentire diventa per il sé discrimine valutativo per ogni contesto relazionale…” – il che significa che “il mio sentimento” conta più dell’altrui. E il concetto vale per ogni aspetto del cosmo “(ad esempio un bosco rigoglioso in estate ombroso e fresco)”, o quando si accede all’urna elettorale, “in un vissuto autonomo che rimanda solo all’interiorità e che solo in essa trova la sua misura di giudizio”. Quando si dice fondare un giudizio questo è: scavare una buca e fissare le proprie fondamenta su cui erigere un edificio che ricalca, trasfigurandola, l’anima del suo fondatore.
L’autore esamina le tattiche e le condizioni a cui il sé fondante utilizza per fondare la sua azione. Il saggio offre (a scatola chiusa) decine e decine di pagine in cui ogni riga è un’affermazione che pare assoluta e che, essendo scientifica, è falsificabile, ma non facilmente riducibile a un’esegesi, a meno che non s’intenda ri-costruire un nuovo saggio, e questo non è nelle mie umili (per dire) intenzioni.
“La trasmissione continua dei dati informativi, l’elaborazione infinita di essi e la loro illimitata conservazione divengono i segni distintivi della rivoluzione digitale, il passaggio verso un compiuto primato informativo…” – e di questo il più chiaro nonché completo esegeta che mi è capitato di leggere è il professor Luciano Floridi, che per me è identificabile col banale comando alchemico-algoritmico Prof, che basta digitarlo per iniziare a capire qualcosa su qualsiasi argomento.
Anche di questo rapporto del sé con l’elaboratore elettronico è per me impossibile trarne un’esegesi, per cui ne propongo un assaggio: “Il sé è libero nell’esprimersi e tale libertà alla fine produce la banalità, dalla quale avrebbe voluto liberarsi. Per di più, stavolta la banalità è frutto di un’accumulazione che non esaurisce mai il suo compito”: l’individuo si affatica, deperisce, invecchia, muore, il chip promette l’eternità. A thing of bytes is a joy for ever, ingrossando a ogn’ora la corporeità collettiva.
Il “primato potenziale della libertà”, ove occorra, permette al sé “di evitare di infilarsi vieppiù dentro una dinamica di profil-azione calcolante che lo conduce in una condizione di banalità accumulata.” – e qualora non occorra? Nessun problema: ci si integra al sistema.
“E infatti si è visto come i processi cumulativi del digitale abbiano fornito al sé i mezzi per costruire il proprio profilo espressivo con una continuità e una pervasività mai viste prima.” – da cui sconsiglio di uscire per sempre, ma ogni giorno, assiduamente, uscire per rientrare, solo quando è necessario. Ognuno è tenuto a capire quando lo è (per lui, non per il mondo che lo mira da fuori).
“Più il sé si esprime, più dati vengono forniti per la profilazione del suo esprimersi…”.
Si tratta di una consociatività che non deve diventare consociativismo: sia ognuno libero d’essere quel che è, se può, nonché onestamente, se deve.
C’è chi rigetta la possibilità dello spid per non essere individuato e catalogato, preferendo accedere alla Pubblica Amministrazione tramite desolanti code allo sportello. Sono scelte tanto legittime quanto dubbie. Si è già individuati e catalogati, con o senza spid. Il codice fiscale ne è un esempio, che rassomiglia al numero di sei cifre dei componenti della Banda Bassotti (uno era il 176-167, se ben ricordo, per altro esteriormente identico al 176-716 nonché al 176-617).
Il digitale conviene, non foss’altro perché domina il mondo. L’alternativa è quella percorsa dell’anacoreta (che è più immobile della donna dell’Aspesi). Anche le suore di clausura sono costrette a pagare la bolletta del gas, della luce e del telefono, ma a ognuna di loro, mi auguro, è concesso un personal computer.
“Il sé crede in tal modo di esplodere nella significatività distintiva della sua singolarità ed invece si ritrova ad essere numero tra i numeri, caso tra i casi, rielaborato dentro una nuova normalità dove davvero ogni aspetto è compreso in ottica normalizzante (e di mercato)” – 18 pagine prima avevo colto che i raggruppamenti di individui riuniti in una “comunità frantumata e verticalizzata”, “tanto più diventano significativi, perché posseggono la massa critica sia in funzione analitica sia in funzione prescrittiva (e di mercato)”: la parentesi non fa che esaltare il significato dell’espressione.
A pagina 120 mi chiedo se il titolo del saggio non avrebbe potuto essere Elogio del sé, oppure Elogio del sé che entra in conflitto con la banalità, oppure Elogio del confronto critico del sé con la banalità. Per azzardare una risposta, inizio a contare i sé (e i sé stesso nonché i se stesso) confrontanfone il numero con quello dei banale (e dei banalità nonché dei banalmente):
Paragrafo 6.3. Accettare la banalità: 24-18 a favore di sé (parziali: 5-3; 7-2; 11-5; 1-8), da notare la rimonta di banale nell’ultimo, ormai ininfluente, set. È come se il sé, come un ciclista in fuga solitaria e ormai in prossimità del traguardo, abbia compiuto l’ultimo tratto rallentando e con le mani alzate, mentre il banalissimo gruppo stava svolazzando per ottenere il secondo e banale posto.
Paragrafo 6.4. La banalità totalizzante: 28-26 a favore di banale e c.: (parziali: 5-5; 6-7; 3-7; 3-3; 6-1; 5-3), banalissima vittoria di misura di banale, soprattutto per via della goleada realizzata dal “gerarca nazista Adolf Eichmann”, principale responsabile dell’esecuzione degli ebrei, la cui orrendamente sublime frase riportata a pagina 128, che egli adottò come scusa esistenziale, è: “Il linguaggio burocratico [Amtsprache] è la mia unica lingua” – strana come quella di Cetto Laqualunque, il quale però non è stato mai, mi pare, impiccato. Per onestà devo specificare che, se avessi conteggiato anche i sostantivi singolo e singolarità, l’esito sarebbe stato leggermente diverso.
Paragrafo 6.5. Una banalità comune (avevo scritto in un primo tempo qualunque!): in questo paragrafo finale la situazione si ribalta ancora: 48 a 33 per sé (parziali: 1-2; 9-4; 8-5; 10-5; 8-9; 6-3; 6-5).
Per due super-set a uno vince il sé! Almeno a parole…
Al sé non diventa “obbligatorio, per esempio, avere un’opinione sull’estrazione di rame nelle miniere del Sudamerica o sulla composizione dei pianeti fuori dal sistema solare.” – neanche dentro, of course.
“Questo ritrarsi del sé, che come si è visto non è affatto una forma di ridimensionamento, bensì un più accorto uso della forza irriducibile della singolarità, determina lo svuotamento di uno spazio colonizzato doxasticamente nel quale ritorna l’ordinarietà condivisa la posto della (presunta) eccezionalità espressa.” – lo dovette forse pensare G. G. quando si apprestava, immagino con scarso entusiasmo, a incontrare il suo (si fa per dire, mazziniano com’era) re a Teano.
“Il sé, quindi, si trova a scendere a patti con la banalità, accettandone l’esistenza e attribuendole tutto lo spazio comune rispetto al quale ritiene non necessario avanzare una pretesa di differenziazione distintiva”: una resa significativa, insomma.
Quanto segue pare (quasi, però) un inno nazionale, anzi: internazionale, come lo è la bandiera dell’ONU: “Ecco allora perché, per non essere banale, bisogna essere banale, essere in continuo contatto con la banalità.” – per propria imperiosa scelta. Odo un banalissimo ih ih, che proviene dalle quinte.
Cosa m’è rimasto di quest’intricatissimo saggio che, mi rendo conto, ho un po’ devastato con le mie erotiche (nel senso marcusiano dell’eros) stupidaggini? Innanzi tutto non avevo altre armi che le scemenze. Se avessi affrontato il docente patriarchesco, d’ora in poi DOC, avei perso al primo pugno del primo round. Già trentenne, osai confrontarmi con dei baldi pugili di un gioco elettronico. Notai presto che bisognava picchiare sodo e scappare e si vinceva quasi sempre. Questo fino a che non incontrai il Numero 1 del ranking, The champ che, con sprezzo del pericolo, avvicinai, colpii duro con 3 o 4 diretti, per poi scappare, vilmente, dopo aver subito un solo colpetto da parte sua. Di cui però sentii gli effetti… Mi riavvicinai e lo picchiai ancora due o tre volte, per poi filarmela di nuovo. Lui mi allungò soltanto un mezzo pugnetto. A poco a poco mi sentii mancare il fiato. The Champ mi fu subito addosso, mettendomi k.o., in 4 e 4 = 8, in ossequio del più perfido e floridiano degli algoritmi! Lo sfidai altre volte, ma l’esito fu sempre lo stesso. Il mio sé si sentiva avvilito, ma poi pensò: è una banale macchina, io sono un uomo, io devo vincere. Spensi il computer e non affrontai il mio antagonista finché non avevo ideato una tattica promettente. Riaccesi la bestia, lanciai il file bat (allora c’era il D.O.S.). Affrontai The Champ. Lo avvicinai. Gli diedi una singola mazzata. Scappai. M’inseguì. Lo aspettai, dopo aver gironzolato per il ring. Mi raggiunse. Gli diedi un colpetto. Fuggii. E questa tattica fu da me ripetuta, banalmente, fino alla fine. Non so se almeno un colpetto me l’abbia appioppato, ma nel caso non lo sentii più di tanto. E vinsi ai punti, ignobilmente eroico. È stata una delle meno banali vittorie occorse nella mia vita informatica. E ne sono ancora orgoglioso. Lo stesso accadde nell’ultimo livello di Lode Runner Championship, ma non mi va di raccontarlo ora. Sono ancora stanco per il match (intendo quello con DOC) testé concluso.
Mi domando quale potrebbe essere la strategia vincente di quello studente universitario che dovesse portare all’esame il rendiconto su questo saggio. Quello che più stupisce è la capacita di DOC d’infilare nel medesimo periodo un numero così esorbitante di affermazioni capitali, per cui il lettore rischia ogni volta di finire in orbita e di chiedersi: Ma che ci faccio qui?! Come mi comporterei io, se fossi al posto di quel disgraziato studente? Anzi: come mi sono comportato nella mia azione di lettore-reagente?
Ho letto con attenzione, sottolineando i passi più significativi, non tutti quelli importanti, non avendo sufficienti mine in casa, e non essendo in grado di riportarli poi per esteso in questa mia ristretta (lo dico con palese ironia) reazione, come feci invece per Il mago di Oz, testo più semplice, non più banale, rispetto al saggio del mio antagonista DOC.
Leggo a pagina 49: “I contenuti sono (tendenzialmente) di tutti, il commento tuttavia è soltanto di chi lo fa. L’opinione è di chi la esprime. Queste dimensioni espressive diventano la nuova modalità di garanzia di affermazione del sé.” – ma a tutti, anche a Phoebe, miracolo incrocio di beagle e yorkshire, è lecito abbaiare: La Doxa è mia e me la gestisco io!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Salvatore Patriarca, Elogio della banalità, Castelvecchi Editore, 2022
3 pensieri su ““Elogio della banalità” di Salvatore Patriarca: una Doxa imprescindibile”