“L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” di Oliver Sacks: storie cliniche e meraviglia per la molteplicità
Raramente inserisco qualcosa di personale nelle “recensioni” per le quali è norma (per me) evitare l’uso della prima persona singolare perché ritengo, nella mia consona modestia, di poter così rendere eterno il mio scrivere proprio perché pregno di impersonalità e, dunque, più autorevole per chi legge.

Questo preambolo per lo più inutilizzabile (proprio perché personale) mi è utile per ammettere l’errore in cui sono incappata nell’intendere il titolo del libro “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”. Non conoscevo Oliver Sacks, né i suoi scritti, ma leggendo la notizia della pubblicazione di una nuova ristampa da parte di Adelphi (con traduzione di Clara Morena), mi sono incuriosita perché ho pensato: “ma come ha fatto quest’uomo a scambiare la moglie per un cappello, e quanto gli hanno dato? O l’ha scambiata per un oggetto? Un baratto?”. Ecco, da questo pensiero è nato il mio fraintendimento, ho “scambiato” – per dirla alla volgare – il verbo “scambiare”.
Non mi procurai subito il libro, anche se ho continuato ad averne la curiosità soprattutto perché su Twitter il libro passava di account in account, condivisioni e brevi frasette che esaltavano senza esplicazioni. Dopo circa due mesi mi informai sull’autore: neurologo e scrittore, nato il 9 luglio 1933 e deceduto il 30 agosto 2015, il più giovane di quattro fratelli di una coppia di ebrei[1], un suo libro (“Risvegli”[2]) fu adattato in un film omonimo nel 1990, il New York Times lo descrive come una “specie di poeta laureato della medicina contemporanea”[3]. Mi bastò! Quel “neurologo-poeta” e la scelta di un tale titolo meritavano la mia completa attenzione, decisi di prendere immediatamente il libro.
Nella prefazione, lo stesso autore si presenta ai lettori nel migliore dei modi: “Entrambi i miei genitori erano medici, e io sono cresciuto in una casa permeata di storie di medicina. Spesso, a cena, mia madre o mio padre raccontavano le vicende dei pazienti che avevano visitato quel giorno: storie di vite il cui corso era stato ostacolato da malattie o lesioni. […] A scuola, mi sentii attratto dalla chimica e poi dalla botanica e dalla biologia marina; forse, però, fu inevitabile che alla fine io mi sia trovato a gravitare verso la medicina, con il suo studio degli esseri umani e le sue storie di persone. […] Quando ormai esercitavo la professione da vent’anni descrissi – nel mio libro ‘The Man Who Mistook His Wife For a Hat’ – pazienti con disturbi neurologici assai vari, spesso insorti di recente. Alcuni di essi, come il dottor. P. – l’uomo del cappello –, erano ancora in grado di condurre una vita abbastanza soddisfacente fuori da ospedali e ricoveri, e io li visitavo a casa loro, nel loro ambiente. […]”
Ed è stato a questo punto, cioè alla pagina 12 del volume, che ebbi il primo profondissimo dubbio su quel titolo così stravagante. “Mistook” is not “Exchange” et similia. Dunque la mia curiosità iniziale era nata da un errore grossolano – un misunderstanding – un ovvio problema di traduzione ed interpretazione. “Scambiò nel senso di confuse” – pensai e, per qualche secondo, mi sentii smarrita per poi percorrere una nuova via di interesse: “ma come fa un uomo a confondere la moglie per un cappello? La moglie era una nana? Si può ancora dire “nana” oppure per politically correct che tanto va di moda bisogna usare persona diversamente alta, ed io che non eccello in altezza sono comunque una persona diversamente alta oppure per la media del Mediterraneo sono nella “norma”? Ma piuttosto posso evitare di inserirmi nelle riflessioni e riprendere il ragionamento? La moglie stava sopra un gancio o sopra un appendiabiti?” – e così via per qualche minuto sino a che non ripresi “fortunatamente” la lettura.
“Oggi non condivido più tutto ciò che scrissi in ‘The Man Who Mistook His Wife For a Hat’ e in molti casi, con il passare del tempo, sono arrivato a considerare questi pazienti in un modo (spero) più sfumato. […] Nell’Ottocento, la scrittura dei casi clinici – nei quali vengono presentati non soltanto gli effetti della malattia, ma tutta la realtà vissuta legata alla condizione esistenziale del paziente – raggiunse vette altissime; nella seconda metà del Novecento, però, con l’ascesa di una medicina più tecnologica e quantitativa, era una prassi ormai quasi estinta. […] Le storie di casi clinici più lunghe, dettagliate e personali erano considerate arcaiche e «non scientifiche».”
Pensai: “ecco, è per questo che preferisco evitare la prima persona, è decisamente «meno scientifico» e più autorevole, anche se per la maggiore io amo trattare di al-kīmiyā, una scienza diversamente scientifica.”
Ho letto il volume la sera, lontana dal computer, adagiata in completa serenità nel divano con pause di lettura dettate dal calopsite di turno che “atterrava” spavaldo sulle mie ginocchia per qualche “coccolina”; momenti in cui ho dovuto interrompere con il libro per dedicarmi interamente al piccoletto (o la piccoletta) perché il secondo “passo” sarebbe stato “assaggiare” con il becco la carta del libro.
Sul frontespizio dei libri sono solita segnare in matita la sequenza numerica delle pagine che reputo più interessanti durante la lettura e per “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” ho trascritto: 23, 86, 92, 122, 132, 145, 192, 212, 227, 256, 258, 284. Non che nelle altre pagine non ci sia nulla di interessante, infatti gran parte dei fogli del libro presentano sottolineature ma ognuno di noi (lettori) sa bene che cosa sta cercando (nei libri), e sono certa che il 10% dei lettori di questo articolo sappiano perfettamente che cosa intendo (tanto quanto sono certa del restante 90% che non sa neppure perché ha ancora l’occhio fisso su questo articolo). Ad esempio, a pagina 202 ho sottolineato: “[…] «L’olfatto?» mi disse. «Non me n’ero mai curato. Di solito uno non ci pensa. Ma quando lo persi, fu come fossi diventato di colpo cieco. La vita perse molto del suo sapore… non ci si rende conto di quanto il ‘sapore’ sia in realtà olfatto. […]”
È stato molto piacevole incontrare Oliver Sacks, non solo per la prosa accattivante ed ironica, ma per la profondità con la quale ha curato tematiche complesse: i deficit, l’inabilità di una funzione neurologica. Il volume è suddiviso in quattro capitoli: Perdite, Eccessi, Trasporti, Il mondo dei semplici ognuno dei quali prevede dei paragrafi che raccontano l’esperienza diretta dell’autore con un/una paziente. Fra i quattro riporto i titoli dei paragrafi del capitolo Trasporti: Reminiscenza, Nostalgia incontinente, Passaggio in India, Il cane sotto pelle, Omicidio, Le visioni di Hildegard e per i restanti tre dovrete forzatamente sfamare la vostra curiosità.
Il primo “caso clinico” che si incontra è quello del dottor P., “un eminente musicista, che per parecchi anni godette di notorietà come cantante e in seguito come insegnante alla locale Scuola di Musica. Fu qui che per la prima volta, nei suoi rapporti con gli allievi, si manifestarono strani problemi.” Il dottor P. è proprio quell’uomo che confonde la moglie con un cappello e di cui non voglio anticipare niente perché, scoprire il caso con la narrazione di Sacks, è l’unico dono che io posso darvi.

Ho apprezzato molto la presentazione della sindrome di Tourette di cui non conoscevo la storia dal 1885 (anno in cui Gilles de la Tourette, discepolo di Charcot, descrisse la sindrome) all’oblio in cui cadde (alcuni medici la ritennero prodotta dalla fantasia di Tourette) sino alla ri-scoperta da parte di Sacks con un paziente (Ray dei mille tic) intorno alla fine degli anni ’60.
“«Mettiamo che lei riesca a eliminare i tic» disse. «Che cosa rimarrebbe? Io sono fatto di tic: non rimarrebbe niente». Egli sembrava, almeno per scherzo, avere uno scarso senso della propria identità se non come ‘portatore di tic’: parlava di se stesso, in terza persona, come di ‘Ray dei mille tic’, aggiungendo di essere così incline allo «spirito ticchico e al tic spiritoso» da non riuscire quasi a distinguere se fosse un dono o una maledizione.”
Sono molteplici e variegati i casi riportati da Sacks, le storie di uomini e donne che hanno avuto a che fare con una “patologia”, alcuni sono nati con essa, altri l’hanno incontrata strada facendo. Nella ricca bibliografia Sacks “paga il suo debito” a coloro che l’hanno preceduto e dei quali conosceva i lavori. Con rammarico, però, sottolineo che, anche in questo libro come in molti altri che trattano la psiche, è mancante la figura di Carl Gustav Jung, che invece sarebbe di grande ausilio. Pongo, ad esempio, l’attenzione al paragrafo Le visioni di Hildegard nel quale Sacks riporta: “Nella grande maggioranza dei casi è impossibile accertare se l’esperienza rappresenti un’estasi isterica o psicotica, gli effetti dell’ebbrezza, o una manifestazione epilettica o emicrania. […] In tutte le visioni esiste come elemento di rilievo un punto o un gruppo di punti di luce, che scintillano e si spostano, di solito con moto ondulatorio, e che sono per lo più interpretati come stelle o occhi fiammeggianti. […] Hildegard scrive: «Le visioni che ebbi non le vidi né in sonno né in sogno, né nella follia né con i miei occhi carnali, né con le orecchie della carne né in luoghi nascosti; ma nella veglia, ben desta, e con gli occhi dello spirito e le orecchie interiori, io le percepisco ben chiare […]”
Seneca, ne “Lettere morali a Lucilio”, era solito pagare il suo debito, cioè l’insegnamento che aveva tratto dalla parola di altri autori così, anche io mi sento sempre debitrice ed insisto sul pagare il debito che si sente di avere, e proprio per questo motivo termino questa atipica “recensione alla piolette” citando il paragrafo L’inconscio come coscienza multipla tratto dal capitolo Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche (1954) presente nel volume “La dimensione psichica” (raccolta di scritti di Jung): “L’ipotesi di luminosità multiple si basa da un lato sullo stato paracosciente di contenuti inconsci, dall’altro sull’incidenza di certe immagini che vanno considerate simboliche, e che possono essere costatate nei sogni e nelle fantasie visive di individui moderni o in documenti storici. […] a proposito della nostra ipotesi di fenomeni multipli della coscienza, il fatto che in Paracelso la caratteristica visione degli alchimisti – le scintille che brillano nella nera sostanza arcana – si trasformi nello spettacolo del ‘firmamento interiore’ e dei suoi astra. Egli considera la psiche oscura come un cielo notturno disseminato di stelle, un cielo in cui i pianeti e le costellazioni di stelle fisse sono rappresentati dagli archetipi in tutta la loro luminosità e numinosità.”
Written by Alessia Mocci
Note
[1] Muriel Elsie Landau, la madre, fu una tra i primi chirurghi donna in Inghilterra.
[2] Dunque, in realtà, “lo conoscevo” avendo visto il film “Risvegli” del regista Penny Marshall con uno straordinario Robin Williams nei panni del dottore e Robert De Niro nei panni di un paziente affetto da Parkinson.
[3] Articolo del 1990 sul New York Times.
Bibliografia
Oliver Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi editore, 2022
Carl Gustav Jung, La dimensione psichica – raccolta di scritti a cura di Luigi Aurigemma, Bollati Boringhieri editore, 1972
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