“Lo scherzo” di Milan Kundera: ognuno ha il diritto di dire la propria
Comincio l’analisi del romanzo “Lo scherzo” di Milan Kundera (uno dei più complessi mai letti) sfruttando l’Avvertenza scritta da Luigi Fenizi per illustrare al lettore i suoi 21 racconti raccolti in Sillabario esistenzialista (2022): “Per sua natura intrinseca, la letteratura è del resto repulsiva nei confronti di ogni certezza assolutizzata, sia religiosa che ideologica. Il romanzo e il racconto sono infatti i territori in cui meglio possono germinare le verità relative, talché ogni personaggio ha diritto alla propria verità. In ciò sta la moralità della letteratura. Tutti hanno insomma il diritto di essere capiti: Anna, ma pure Karenin, per citare la celebre opera di Tolstoj.”

Mi domando se la cosa valga anche per il romanzo a cui non ho mai perdonato di esistere: Le 120 giornate di Sodoma, in cui predomina in maniera totalizzante l’anima dell’autore, il Malefico Marchese, di cui i singoli personaggi sono stupende e incolpevoli vittime.
Dopo aver ringraziato lo scrittore ascolano, incomincio in lodo autonomo la reazione all’opera del suo collega di Brno. L’opera è divisa in sette parti, ognuna gestita e parlata da un interprete della (propria e altrui) storia, a parte la settima che è composta da tre voci che si alternano, ognuna autonoma ma strettamente collegata all’altra.
Ludvík: “Guardai ancora una volta con scherno quella piazza non bella e poi le voltai le spalle e mi diressi verso l’albergo.” – schernire deriva dal tedesco schere, forbici; etimo che taluni riferiscono anche alla parola scherzo; di scherzi ce ne sono di vari tipi, alcuni taglienti, altri accarezzanti, altri vani e incomprensibili, altri ancora rivolti a chi non sa accettarli, oppure all’individuo e al momento sbagliati.
Ludvík provoca l’amico Kostka, che gli chiede: “… Se lei è tanto scettico, da dove prende tutta questa certezza di saper distinguere un fondale da un muro? non ha mai dubitato che le illusioni delle quali si prende gioco siano davvero soltanto illusioni? E se si sbagliasse? e se fossero invece dei valori e lei un distruttore di valori?”
Dopo aver salutato l’amico, Ludvík si siede, e si dice: “… poiché dopo tanti anni di vita non mi piace guardare la mia faccia, evitai lo specchio di fronte a me, alzai gli occhi e li lasciai vagare sul soffitto bianco macchiato.”
La prosa di questo primo io narrante è facilmente riconoscibile per l’uso frequente di parentesi, punti e virgole e due punti, che testimoniano la sua urgenza di specificare compiutamente quale sia la sua visione del mondo e dei suoi abitanti.
Helena (donna fedele alla linea come poche): “… e allora io fui per la decisione più severa, proposi che il giornalista fosse espulso dal partito per averlo coscientemente ingannato e deluso: che comunista è se mente al partito, io odio le menzogne, ma la mia proposta non passò e il giornalista ricevette un semplice biasimo”.
Essendo un’anima pura, il lettore scaltrito intuisce che farà, nel miglior dei casi, una penosa fine.
Ludvík: “… Capii che ai ricordi non sarei sfuggito; che ne ero circondato.”
La sua amica Markéta non era stupida, anzi, “era abbastanza dotata e intelligente” e “la sua ingenua credulità apparteneva più alle sue grazie che ai suoi difetti”.
Era importante essere entusiasti (di tutto) perché “chi non si dimostrava felice era immediatamente sospettato di essere triste per la vittoria della classe operaia.”
In Ludvík qualcuno rilevava dei “residui di individualismo”, e questo non andava bene, essendo come un residuo di una perniciosa infezione virale. Il suo sorridere un po’ troppo spesso diventava sospetto, per cui gli dicevano: “… tu sorridi come se pensassi qualcosa tra te e te.” – il che forse non era del tutto errato. Quello strano umorismo deviazionista lo spinge a inviare per scherzo una cartolina a Markéta, con su scritto: “L’ottimismo è l’oppio dei popoli! Lo spirito sano puzza di imbecillità! Viva Trockij! Ludvík.”
Queste trite battute, pur di origine giocosa, determinano circa un centinaio di sventurate pagine in cui l’io narrante principale di quest’opera analizza tutte le relazioni conseguite a esse, con quella scrittura esaustiva di cui dissi (sempre più condita da spiegazioni fra parentesi e con periodi sempre più complessi).
Dopo averci pensato su, ho deciso di non commentare alcun punto, in quanto ne sarebbe scaturito un contro-romanzo similmente vano e complesso. Basti dire questo: Ludvík è tipo che, dopo aver descritto con minuzia un accadimento, poi, il pensiero lo riconduce alla sua precedente descrizione, avendo egli il timore di non essere stato esaustivo, per cui si sente di dover aggiungere un particolare o due, se non tre, al fine di lambire un’illusoria perfezione che sembra sempre dietro l’angolo, ma che svanisce ogni volta, beffarda. Nel frattempo la sua vita è tragicamente cambiata: espulso dal partito, arruolato di peso nelle truppe dei neri anticomunisti e poi condannato a “dieci mesi di galera per diserzione”.
Ora tocca a Jaroslav: non posso pensare a lui senza aver in mente “la cavalcata dei Re”, manifestazione folcloristica, probabilmente non dissimile a quella che ha luogo nelle piazze appenniniche (ancora legate alle tradizioni).
Leggo un filo di amarezza nel di lui ragionamento: “Roba da pazzi. Il Comitato nazionale comincia a fare economie su di noi. Fino a pochi anni fa sovvenzionava con grosse somme le nostre feste folkloristiche. Oggi dobbiamo essere noi a sovvenzionare il Comitato nazionale.”
L’antica sacralità è finita in burla: “Ancora cinque anni prima nessuno si sarebbe permesso di prenderci in giro. E nessuno si sarebbe messo a ridere. E adesso facciamo ridere. Com’è possibile che all’improvviso siamo diventati ridicoli?”
Un’analisi del fenomeno: “Il capitalismo ha distrutto questa antica vita collettiva. L’arte popolare ha perso, in questo modo, il suo fondamento, la sua ragion d’essere, la sua funzione. Inutilmente si tenterà di riportarla in vita fin tanto che esisteranno condizioni sociali nelle quali l’uomo vive separato dall’uomo, solo per se stesso. Ma il socialismo liberà gli…”.
Amico di Ludvík, non sufficientemente corrisposto: “Oggi l’ho incontrato e mi ha evitato. Maledetto Ludvík.” – deduzione: “… a condannare un uomo alla solitudine non sono i suoi nemici ma i suoi amici.” – quelli che possono vivere al di là di te; i nemici ti rimarranno sempre in un qualche modo un po’ invischiati.
Un desiderio: “Consegnare la mia vita come un messaggio chiaro e comprensibile a quell’unica e sola persona che lo capirà e lo porterà oltre.” – è il fine della scrittura, piccola o immensa che sia.
Dai, Ludvík, tocca ancora a te: “… in una donna non amo ciò che essa è in sé, quanto piuttosto quello con cui si rivolge a me, quello che lei è per me.” – il che significa che se essa è una parte di te che non c’è più, “essa perdeva gradatamente corposità, materialità e concretezza, e andava via via trasformandosi quasi in una leggenda, in un mito annotato in una pergamena e riposto in un piccolo scrigno metallico tra i fondamenti della mia vita.” – una reliquia su cui pregare talvolta.
“È possibile che le storie, al di là del loro accadere, del loro esistere, vogliono anche dire qualcosa?” – sì, se vengono raccolte e rianimate (magari con la respirazione bocca a bocca).
“… non riesco a sbarazzarmi del bisogno di decifrare continuamente la mia vita…” – cerco di fare altrettanto con la mia, infilandovi continuamente le anime altrui.
A pagina 212 Ludvík usa 9 volte la parola “rancore”. La pagina seguente la reitera: “Dopo, ogni cosa seguì fedelmente il mio piano. un piano sognato con la forza di un rancore durato quindici anni…” – non essendo ancora occorsa la prescrizione.
Ludvík sta concupendo Helena, la donna (in realtà ex) di Zemánek, che fu tra i fautori delle sue sventure. Per farlo cerca la strada della simulazione e dell’arguzia, tesa a “cogliere l’idea fondamentale che la donna vuol dare di sé”.
Non il suo corpo lo interessava, ma il pensiero che esso era appartenuto al suo nemico. Quando la prende a sberle è l’Altro che viene schiaffeggiato. Le lacrime di lei erano (a suo modo di vedere) sorte per il dolore ma per l’eccitazione. Lasciamoli pur interagire. A quello scempio non ci interessa partecipare…
Si è ora conclusa quest’orrida parte, per fortuna!
Kostka: “Non posso che dolermi profondamente del tragico errore che ha allontanato il socialismo da Dio…”
Racconta la storia di Lucie Šebetková, la quale è vittima di una delle peggiori brutture che occorrono a un vivo (meglio dire a una viva), che non mi va di ri-narrare. È ampiamente descritta a partire dal paragrafo 7 della Parte Sesta.
“Tutto ciò che su questa terra appartiene a Dio può appartenere al diavolo. Anche i movimenti degli amanti quando fanno l’amore. Per Lucie essi erano diventati la sfera dell’abominio” – ogni atto è collegato a una trasformazione energetica e fa parte dell’etica umana (e nulla v’è di più arbitrario) definire i termini della sua mutevole definizione. Ogni religione ha le due rappresentazioni, in India per esempio c’è Śiva e Visnù, che troneggiano sotto il trono occupato da Brahmā. Da noi il discorso è più semplice ma non meno inverosimile.
La Parte Sesta termina con l’anelito di Kostka: “Oh, Dio. È davvero così? sono davvero tanto miserabilmente ridicolo? dimmi che non è così! Rassicurami! Fatti sentire, Dio, fatti sentire più forte! Non riesco a sentirti in questo caos di voci indistinte!”.
La Parte Settima è un succedersi di 19 paragrafi, ognuno gestito in proprio dalla voce di uno dei tre io narranti: Ludvík, Helena e Jaroslav. Riporterò quel che potrò.
Dice J.: “Stanchezza. Stanchezza fin da mattino. Come se avessi passato tutta la notte a vagabondare. Mentre l’ho passata a dormire.”
Parlando di una giornalista di regime: “Ecco come sono, loro, sanno sempre tutto prima. Conoscono già il corso futuro di tutte le cose. Il futuro è accaduto già da tempo e per loro non farà che ripetersi.”
Dice L.: tante cose; (ogni io narrante non viene indicato dall’autore, ma io deduco che la voce sia sua dall’uso ipertrofico di parentesi e di punti e virgola; del resto così funzionali).
Dice H.: che ama L. e che lo ringrazia per la forza che le dà.
Dice J.: “Stanchezza, stanchezza. Non riuscivo a togliermela di dosso.”
Poi vide L.: “Era solo, sulla striscia d’erba lungo la strada e guardava sovrappensiero i giovani a cavallo. Maledetto Ludwík!”
Dice L.: “In quell’istante capii che la differenza tra me e Zemánek non si fondava solo sul fatto che Zemánek avesse mutato le proprie idee e si fosse in tal modo avvicinato a me; la nostra somiglianza era più profonda e toccava i nostri destini nella loro interezza.” – essendo nel medesimo recipiente i loro liquidi si stavano mischiando.
Dice J.: “Stanchezza. All’improvviso mi venne voglia di mandare tutto al diavolo. Di andare via e di smetterla di occuparmi di tutto. Non voglio più restare in questo mondo di cose…”.
Dice L.: che, dopo aver incontrato di nuovo il suo nemico, ha scoperto che qualcosa è cambiato, ma non proprio tutto: l’essenziale; ormai potevano essere compatibili. Poi dice di aver scaricato H., ormai un carico inutile che, alla notizia, “impallidì”.
Dice H.: di non capire L.: “non ti capisco, tu sei venuto da me con una maschera, sei venuto a resuscitarmi, e a distruggermi dopo avermi resuscitata, te, te soltanto maledico, ti maledico e allo stesso tempo prego che tu venga, che tu venga a chiedermi perdono.” – cara amica, devi arguirlo da te che ogni resurrezione è a tempo determinato, e che poi è subito sera: forse che sono ancora fra noi quel Lazzaro e quel figlio del falegname?
Dice L.: “Mi sembra che tutta la mia vita sia sempre stata piena di ombre, mentre il presente vi occupa un posto probabilmente assai poco dignitoso. Mi immagino un nastro trasportatore (è il tempo) e su di esso un uomo (sono io) che corre in direzione opposta a quella del nastro; ma il nastro si muove a velocità maggiore della mia allontanandomi perciò lentamente dalla meta verso la quale corro.” – e questo è il motivo, intuisco: fermati una buona volta, e anche il tempo la cesserà di irriderti. Ogni tanto però scuotiti un po’, per sicurezza.

“… capivo di essere compreso anch’io (già ora, già adesso!) in quell’inevitabile e immenso oblio…” – a cui si può invece rimediare (anche se è una soluzione anch’essa a tempo determinato).
“… la maggior parte della gente si inganna con una duplice fede errata: crede nella memoria eterna (delle persone, delle cose, delle azioni, dei popoli) e nella riparabilità (di azioni, errori, peccati, ingiustizie). Sono entrambi fedi false.” – ogni fede lo è, oppure nessuna lo è.
“… ogni cosa sarà dimenticata e a nulla sarà posto rimedio…” – è anch’essa una fede (intesa come un goffo tentativo di salvataggio di dati).
Quei fatti che dici che “sarebbero stati dimenticati”: “il tiglio, il tavolo, la gente al tavolo, il cameriere (stanco per il gran daffare di mezzogiorno)…” – eccetera eccetera: ecco che tu li hai salvati per sempre, almeno finché resterà in voga (e in circolo!) quest’azzurro pianeta.
E poi offri a un umano questa frase: “Peccato che lei non beva”, che qualcuno salvò prima di te, seppure con una variante: Siete un buon diavolo, Mac, sì un buon diavolo… Solo che non bevete!… Hai tutta la vita per scoprire chi sia stato.
Dice J.: “Oh, adesso capivo. Adesso comprendevo perché mi avesse proibito di togliermi il fazzoletto e voleva raccontami ogni cosa! Solo adesso capivo perché il re deve avere il viso velato! Non per essere visto, ma per non vedere!”
Il rifiuto di voler vedere equivale al confidare nella propria visione del mondo, che non può basarsi che su una pur zoppicante fede.
Dice L.: (parlando del suo nemico), “… era soltanto l’ironia di Zemánek a far sì che all’improvviso io amassi nuovamente il mondo dei costumi popolari, delle canzoni e delle orchestrine col cimbalom: potevo amarlo perché già dal mattino (inaspettatamente) l’avevo scoperto nella sua miseria; nella sua miseria e soprattutto nel suo abbandono; era stato abbandonato dal…” – era divenuto un mito da salvare dall’entropia cosmica. E tutto è bene quel che risuona bene!
“… così come a Lucie avevano devastato l’amore fisico, privando in quel modo la sua vita del più elementare dei valori, anche la mia vita era stata derubata dei valori ai quali essa intendeva appoggiarsi e che in origine erano puri e…”
Tutto pare all’origine puro e innocente: anche, neonato, bagnato e gemente, il futuro creatore di genocidi e il politico che passerà la sua vita a gabbare il popolo che continuerà a confidare in lui. Poi tutto scorre, nella placida Ganga.
L. dice di amare le canzoni di J., di sentirsi “felice dentro quelle canzoni”, “dove il dolore non è un gioco, il riso non è falso, l’amore non è ridicolo e l’odio non è timido, dove la gente ama col corpo e con l’anima…” – un mondo così normale che pare vagamente illusorio.
L’amicizia, rispetto all’amore, è come l’Araba Fenice: talvolta rinasce dalle proprie ceneri. La passione dell’amore non si limita a bruciare, ma in genere annichilisce, come quando una particella s’imbatte nella sua anti-particella ed entrambe svaniscono all’istante, producendo un fotone di luce e poi, apparentemente, più nulla. Chissà…
“… spesso il destino si compie molto prima della morte…” – e questo cosa cambia?
Ognuno ha il diritto di dire la propria, ma solo alcuni hanno il coraggio di scriverla. E di provare a eternarla. Ora tocca a te.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Milan Kundera, Lo scherzo, Adelphi, 1986