2 novembre, giornata della commemorazione dei defunti: come superare un lutto?
“Immagina pure che ti siano destinati nella vita molti giorni terribili; il più terribile di tutti sarà il giorno in cui perderai tua madre.” – Edmondo De Amicis
Il 2 novembre si celebra in Italia la Commemorazione di tutti i fedeli defunti, detta anche Festa dei Morti ma non è una propriamente una “festa” bensì una giornata dedicata al ricordo dei propri defunti. Ci sono molte tradizioni legate al periodo che va dal 31 ottobre al 2 novembre, oggi la più celebre è Halloween (dal celtico Samhain) ma, anticamente, anche in alcune regioni italiane i bambini si recavano nelle case a chiedere il “ben dei morti” (“dolcetto o scherzetto?”) ricevendo fichi secchi, fave e castagne, chiudeva la giornata qualche racconto pauroso inventato dai nonni davanti al fuoco acceso e scoppiettante. In Lombardia si aveva l’abitudine di lasciare un vaso pieno d’acqua per dissetare i morti; in Val d’Aosta, Piemonte e Trentino viene lasciata la tavola apparecchiata con il focolare acceso; in Sardegna ancora vive la festa de “Is Animeddas”; in Umbria si prepara una delizia chiamata “stinchetti dei morti” (dolci a forma di fave); e così via, la lista è lunga e variegata.
La tradizione mostra che i vivi dedicano queste giornate dell’anno a coloro che non sono più presenti nella forma fisica ma che sono ancora presenti nel ricordo. La festività diventa un allontanarsi dal profondo dolore della perdita di un proprio caro così che, in comunione con gli altri, ci si possa rasserenare procurando un sorriso ai bambini presenti nella comunità.
“Alla sua tomba come a tutte quelle su cui piansi, il mio dolore fu dedicato anche a quella parte di me stesso che vi era sepolta.” – Italo Svevo
Ma il lutto non è così semplice da gestire, soprattutto quando si presenta con la perdita di una madre, di un padre, di un figlio, di una figlia, di un marito, di una moglie, di un fratello, di una sorella. Per affrontare questo profondo dolore talvolta porta beneficio leggere l’esperienza di chi l’ha già vissuto, e proprio per questo motivo si consiglia la lettura di questa pagina letteraria scritta da Giovanna Fracassi e pubblicata nel libro “Lettere a Sofia” (Tomarchio Editore, 2022) che tratta della perdita dei genitori, avvenuta dopo l’agonia della malattia.
Cara Sofia,
ti sono vicina in questo momento di dolore. Ho sempre il ricordo vivissimo di quello che ho fatto e provato quando sono mancati i miei genitori. Al funerale di mia madre, in chiesa, ho letto una mia poesia di saluto, in cui dicevo che mi aveva lasciata sola già da molto tempo. Quando, molti anni prima, fu mio padre ad andarsene, per mesi mi svegliavo di soprassalto la notte, credendo di sentirlo ancora. Poi realizzavo che no, non c’era proprio più e non lo avrei più visto. Allora mi assaliva un dolore a tenaglia, fra lo stomaco e il cuore, e un’angoscia profonda mi ricacciava dentro il pozzo nero della realtà. Infine, faticosamente mi costringevo ad affrontare il nuovo giorno e a confortare mia madre che era annichilita dal dolore ed in preda ad ogni possibile disturbo e malattia.
Mi sono chiesta mille volte quante cose mi avrebbe potuto dire mio padre, raccontare, quanto avremmo potuto apprezzare la reciproca compagnia se io fossi stata più grande, più presente e non già impegnata su tanti fronti. Tante cose che avrebbero potuto accadere ma non ce n’è stato il tempo. Non ho provato rassegnazione, solo una rabbia infinita, ho sentito una lacerazione senza confini, terribilmente ingiusta. Perché la morte non è un evento naturale per l’anima, per il cuore, per le viscere, che ti si contorcono e ti martorizzano quando chi ami non c’è semplicemente più e tu resti a stringere il vuoto, il nulla.
Assistere all’agonia di un genitore è difficile e doloroso anche se inscritto nella logica impietosa della vita. Si è sostanzialmente testimoni impotenti perché arriva il momento del non ritorno e non ci sono medicine, né medici che tengano. È la drammatica resa incondizionata dell’uomo alla propria fine. E che questa sia rappresentata da quella dei propri genitori la rende solo più presente e dolorosa. Conosco bene quel filo amaro di rimpianto o di auto rimprovero per tutte le volte che non si è stati accanto con attenzione, non si è espresso il proprio amore con un gesto o una parola o quando addirittura ci si è lasciati andare ad un moto di stizza, di insofferenza, per tutte quelle volte che avremmo potuto essere migliori e aver fatto la cosa più giusta per e con loro. Ci si rimprovera di essere stati presi troppo dalla propria vita, dalla propria storia mentre i genitori sfumavano dietro le quinte della nostra esistenza che solo loro ci hanno reso possibile. Ho avuto molto tempo per elaborare le mie mancanze, la mia cecità, per mettere in fila, come su un pallottoliere, tutti i miei sbagli. Poi ci si perdona perché pure in tutto questo c’è una logica. È il ciclo della vita e colpevolizzarsi di essere ancora vivi e poter scaldarsi al sole, di rabbrividire ad una musica, di sentire balzare il cuore in gola per un’emozione o di vedere il mondo da dietro una cortina di lacrime, non serve a chi non c’è più e neppure sarebbe quello che un genitore vorrebbe provasse suo figlio. Neppure è giusto alla fine, perché ognuno ha solo una vita. Il genitore che ti lascia, ti passa il testimone e ti ricorda che il prossimo sarai tu: “Spenditi bene” – par che ti dica – “spenditi bene anche per me, che continuo a vivere in qualche particella di te e dentro il tuo cuore.”
I genitori ti mancano ogni giorno in cui sopravvivi senza di loro. E anche se infermo, malato, incosciente, lontano, un genitore ti fa da scudo e da faro. Quando ho ricoverato mia madre in quella splendida casa di riposo dalla quale è uscita solo per morire in ospedale, ho vissuto un lutto totale, tanto che mi è venuta una febbre a 40 come poche volte ricordo e del tutto asintomatica e inspiegabile. Lo strappo del cordone ombelicale l’ho vissuto allora, quando lei nella mia vita non c’era più, né nel bene né nel male. L’Alzheimer me l’aveva già portata via da tempo. Quello era solo l’ultimo atto.
Riflettiamo sulla consapevolezza dell’ineludibilità della nostra morte, in questi giorni tristi per te e pure per me. So che, dopo tanti capovolgimenti, anche la mia clessidra, un giorno rimarrà ferma. Con me porterò le gioie e i dolori che hanno scosso la mia anima e affronterò quel passaggio che tanto angoscia e che conduce nel nulla e in quel silenzio dove ogni affanno tace. In questo senso lo definisco salvifico.
Leggi questa mia poesia intitolata “Partirò”.
Partirò
alla fine
con le increspature dell’anima mia
sulle alte e basse maree
della gioia e della tristezza
con le mani sfregiate dall’angoscia
con il cuore lambito
dal freddo flutto del nulla
nell’oceano infinito
del silenzio salvifico
lascerò una foglia rossa
sul quaderno aperto dell’autunno
a segnare il tempo azzurro
della mia clessidra.
Qualcosa di me resterà: una foglia, simbolo di caducità ma anche di vita, rossa, perché la vita è passione, posata sulla pagina aperta di quel quaderno sfogliato e scritto della mia esistenza, nella stagione dell’autunno perché è l’autunno della vita il periodo per me più fecondo, in cui la mia maturità di persona e di scrittrice ha avuto il suo più pieno compimento.
Per me tutto questo avviene in un tempo che mi piace definire “azzurro” perché aperto all’infinito e soprattutto alla speranza, che mai abbandona in vita e che accompagna anche e forse ancor di più, nell’ultimo passo. Anch’io sento la finitezza insita nella brevità dell’esistenza e nell’ineluttabilità del passare dei giorni e delle stagioni della vita. Tuttavia credo che non si debba soccombere alla disperazione che tale consapevolezza porta con sé. Non sentire l’angoscia del conto alla rovescia, che inizia fin dalla nascita per condurci inevitabilmente verso la nostra scomparsa, non è possibile.
È però possibile accettare di non sapere né quanto ancora vivremo, né cosa sarà il “dopo” e se ci sarà un “oltre”. Per accettare di non sapere e di non poter mai sapere, è necessario ancorarsi all’istante del “qui ed ora” che racchiude quel passato che nulla e nessuno ormai può portarci via perché costituivo del nostro Io e della possibilità di quell’essere in fieri che sostanzia la nostra speranza. Speranza che in fondo non si spegne mai del tutto perché insita nell’istinto di vivere.
Ognuno di noi, se ci pensi, è quello che io definisco un “Errante”, ossia colui che viaggia alla ricerca di se stesso e del mistero della vita. L’uomo è errante nel suo tempo e nel suo spazio privato, grazie ai suoi ricordi e alle sue speranze, ma è errante anche nella storia di cui fa parte. Ugualmente ognuno di noi vive in uno spazio che ne condiziona la formazione e l’esistenza. Si tratta di uno spazio reale, contemporaneo ma anche di quello dei ricordi medesimi, nonché delle proiezioni future.
Vi sono anche altri aspetti: lo spazio psicologico, lo spazio emotivo in cui il tempo della propria vicenda umana si manifesta e del quale in parte si sostanzia. In fondo l’uomo è percepibile a se stesso e agli altri per mezzo di queste dimensioni. Per me il non poter andare “Oltre” tutto questo costituisce un limite invalicabile, ma proprio perciò, oltremodo stimolante. Cosa c’è, e se c’è innanzitutto qualcosa “Oltre” è un mistero che affascina da sempre gli uomini e, il fatto ineludibile di non poter mai raggiungere alcuna certezza, alcuna verità che sia poi appena condivisibile, è ciò che rende affascinante il nostro personale errare.
Troviamo compagni in questo nostro viaggio?
Certamente, alcuni per brevi istanti, altri per lungo tempo, per scelta o per necessità. Alleviano i nostri travagli e ci sostengono, come noi facciamo con loro.
Possiamo condividere momenti di felicità e di scoperta e tramite l’altro cerchiamo di conoscerci anche più profondamente perché la nostra caratteristica è l’essere in perpetua contrapposizione con il nostro Altro da noi, quella parte di noi che costituisce il primo e più importante termine di confronto-scontro della nostra vita. Quell’Altro da noi che però fa parte di noi stessi. I due nostri volti, quello bianco e quello nero, la nostra parte chiara e quella oscura con la quale dobbiamo sempre fare i conti, più o meno consapevolmente. Qui nascono le nostre più profonde emozioni; quando questi continenti arrivano a cozzare l’uno contro l’altro si ergono le nostre vette e si spalancano i nostri crateri. Possiamo allora volare come l’aquila ed innalzarci verso l’estasi o bruciare nel magma delle nostre passioni.
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Leggi la prefazione di Lettere a Sofia