“Simmetrie – Nell’arte e nella scienza” di Gian Carlo Ghirardi: uguaglianza e diversità sono gemelle eterozigote
Seconda opera di Gian Carlo Ghirardi sul tema delle simmetrie. La prima parte è Aspetti formali della simmetria.
Dove può cominciare un libro su tale argomento, se non da Vitruvio e dalla sua interpretazione leonardesca? Il primo capitolo è Simmetria, proporzione, razionalità. “Vitruvio, oltre alla sopra menzionata ‘matematicizzazione’ della figura umana, ne ha suggerito anche una sorta di ‘geometrizzazione’ che ha guidato, molti secoli dopo, Leonardo nell’elaborazione di uno dei suoi più noti disegni…” Qual è il fine principale (nel senso di primo e ultimo) della scienza? Prevedere in modo attendibile quale sarà la visione fisica del mondo e la formalizzazione e l’utilizzazione dei principi di simmetria aiuta in tal senso. Deve perciò “entrare in gioco la dinamica, l’evoluzione dei sistemi nel tempo a causa delle reciproche azioni che gli uni esercitano sugli altri”, e si rende perciò necessaria non solo la conoscenza delle “proprietà di simmetria”, ma anche e soprattutto quella “di invarianza delle leggi fisiche.”
Il secondo capitolo è Trasformazioni dello spazio e simmetrie degli oggetti. Secondo Leibniz, due oggetti sono simili se “non risultano distinguibili uno dall’altro quando considerati in sé stessi.”; se due figure sono in scala 1 a 1, i due oggetti, pur distinti fra loro, sono congruenti. Definizione: “… una trasformazione fissa un punto P (una retta l, un piano Σ o un generico insieme di punti s) se trasforma in sé stesso P (la retta l, un piano Σ o un generico insieme di punti s).”
Nozione di gruppo di trasformazioni: si prenda una famiglia di trasformazioni; e si dica che esse sono un gruppo se:
1) “la composizione di due trasformazioni qualsiasi appartenenti al gruppo appartiene anch’essa al gruppo”;
2) “se una trasformazione appartiene al gruppo ammette la trasformazione inversa la quale appartiene anch’essa al gruppo”;
3) “l’identità I deve appartenere al gruppo poiché è ottenibile componendo una qualsiasi trasformazione con la sua inversa”;
Importante: “l’insieme delle trasformazioni di simmetria di un corpo costituisce un gruppo.”
Il terzo capitolo è Analisi di specifiche trasformazioni dello spazio e del tempo. Si occupa di traslazioni spaziali, rotazioni, riflessioni, gruppi di trasformazioni del piano, trasformazioni di scala, gruppi finiti, teorema del punto fisso, traslazioni temporali, inversioni temporali, combinazioni di trasformazioni dello spazio e del tempo, trasformazioni di Galileo, trasformazioni non legate allo spazio o al tempo, tutte così notevoli, pulite e complicate che sento di poter solo invitare chiunque alla loro lettura, anziché a questo mio goffo conato di traduzione in un linguaggio miserrimo.
Vorrei evidenziare il teorema del punto fisso: per i “gruppi puntuali”, detti anche “gruppi di rotazione”, vale il suddetto teorema, “il quale asserisce che esiste sempre almeno un punto, diciamo C, che è fissato da tutte le trasformazioni del gruppo”; per forza, sennò che gruppo è!; inoltre, “poiché le rotazioni fissano solo i punti appartenenti all’asse di rotazione, quanto appena asserito implica che in un gruppo finito gli assi di tutte le rotazioni del gruppo devono concorrere nel punto C.” Lo dice anche Vasco che poi ci ritroveremo come le stars a bere del whisky al Roxy Bar/ o forse non c’incontreremo mai ognuno a rincorrere i suoi guai.
La mia doxa è che, essendoci già incontrati nel Punto C originale (prima della Grande Fuga o Big Bang a dir si voglia), poiché credo che esso sia tuttora esistente in un tempo che non è mai trascorso del tutto, sia quello che determina, fra l’altro, l’entanglement quantistico e il locale su cui usiamo sollazzarci.
Il quarto capitolo è Il reticolo e le loro simmetrie. Definizione: “Un reticolo è un insieme di punti che possiedono tutti intorni perfettamente identici.” Sia il loro centro che le loro periferie sono tra di loro uguali, ma distinti. Su quei punti “sono ‘attaccate’ le ‘tessere’ delle strutture (i complessi reticolari) che si ripetono, identiche, infinite volte.” Non si tratta di un oggetto fisso, ma spostabile: “senza mutarne l’orientazione, gli intorni dei nuovi punti dei disegni che corrispondono ai punti del reticolo saranno assolutamente identici”. Si useranno dei “vettori di traslazione”, che sono i “vettori che uniscono due punti del reticolo.”
La tua scrittura, Gian Carlo, è elegante, pulita, e anche conchiusa e chiarissima, per chi è nato nei reticoli. Un po’ meno per chi come me, fino a ieri ha letto di tutto un po’, fatta eccezione però di punti, reticoli e tasselli. Un esempio: “il punto B, che è centro di simmetria di ordine 2 per il reticolo, non è più tale per la struttura completa (reticolo + complesso reticolare)…” – c’è di peggio, in effetti. Nulla è impossibile da capire, ma fa venire una testa così… (‘na capa tanta, si dice in napoletano). Ancora: “Va notato il fatto banale che, se una struttura spazialmente periodica presenta simmetria per rotazione intorno a un punto o per riflessione rispetto a una retta, essa deve presentare simmetria per la stessa rotazione o riflessione attorno a tutti i punti o a tutte le rette che si generano da quelli originale applicando loro un qualsiasi vettore di traslazione – elementare o composto – del reticolo.” Elementare, Ghirardi!
“L’esempio appena discusso dovrebbe consentire al lettore di cogliere il sottile intreccio tra le pure simmetrie del reticolo e quelle della struttura periodica globale.”. Poche pagine dopo termina la prima parte.
La seconda s’intitola Le simmetrie nell’arte. Il quinto capitolo è Considerazioni generali. Colpisce la frase di Picasso, a proposito degli affreschi rupestri di Altamira: “tutto quello che ne è seguito è stato la sua decadenza”. Tutto decade, anche Picasso, anch’io, anche il protone, forse (chissà quando però). Anche l’arte tutta. Ma che senso ha parlarne? Come dire che ogni giorno ci si avvicina di ventiquattr’ore alla morte. E chi nasce dopo ricomincia la commedia. Che direbbe l’artista di Altamira se vedesse La donna con l’ermellino o Broadway Boogie Woogie di Mondrian? Mentre ammiro “la più famosa Venere paleolitica, la Venere di Willendorf”, penso a quella di Chioggia, una bellezza forse più contadina, ma più rassicurante, entrambe con “l’anomalo (per i nostri canoni) sviluppo delle natiche” che “risulta in qualche misura esagerato.” Non so, Gian Carlo… tótt i cuiòun a gh ân la só pasiòun… A me non lasciano indifferenti né le ballerine di Degas, né le rubizze matrone di Rubens: l’importante è che, nelle rispettive tele, respirino regolarmente.
Regola dei terzi: “Essa richiede di dividere l’immagine, sia orizzontalmente sia verticalmente, in tre parti, mediante due linee orizzontali e due verticali, in modo che i nove rettangoli in cui viene diviso il quadro risultino uguali tra di loro. Eseguito questo primo passo viene così identificato il rettangolo centrale, detto zona aurea, i cui vertici rappresentano punti privilegiati per la collocazione dei centri di attrazione di visiva dell’immagine stessa.” In tale centro aureo non deve essere collocato l’immagine principale da raffigurare, esaltandola, nel dipinto. E poi non puoi fare a meno di tirare in ballo l’opera più perfetta, La flagellazione di Cristo di Piero della Francesca, il matematico della pittura, in cui “poiché risulta del tutto ovvio ritenere che i (due) centri di interesse del dipinto siano costituiti in primis, dal Cristo flagellato e, in secondo luogo, dalle figure a destra in primo piano che vanno identificate come i veri flagellatori, l’immagine sembra rispettare adeguatamente la regola dei terzi e, senza dubbio, le linee di fuga presenti nel quadro conducono l’occhio proprio all’immagine del Cristo, quella più significativa dell’opera.”
Il sesto capitolo è Le simmetrie nelle arti ornamentali e nella grafica. Definizione di fascia ornamentale: basata “sulla ripetizione equispaziata di uno stesso motivo, in modo che l’ornamento stesso, qualora concepito come infinitamente esteso, vada a ricoprire sé stesso se sottoposto a una traslazione di una certa quantità assegnata.” – seguendo rotazioni, riflessioni con trascinamento, il cui “numero possibile, dal punto di vista delle totalità delle simmetrie che le caratterizzano, di composizioni che esibiscono periodicità per traslazioni nel caso monodimensionale risulta finito.” Gli arabi islamici, a cui era vietato raffigurare la figura umana, furono dei grandi artisti della decorazione astratta e per primi hanno “utilizzato a scopi ornamentali reticoli appartenenti a tutti i diciassette gruppi di simmetria possibili…”
“L’artista olandese Maurits Cornelis Escher” nel 1936 ebbe “l’opportunità di analizzare e studiare i pattern ornamentali che arricchiscono, per esempio, la Cattedrale di Ravello e i palazzi religiosi e reali” di Granada e Cordova. Volontà dichiarata dell’artista è di osservare “consapevolmente le forme che ci circondano e che, nella loro grande varietà, ci parlano con un linguaggio preciso e stimolante.” Per cui, riconoscendo tali forme “come segni, come specifici simboli della materia vivente o morta che ci circonda”, diventa possibile “costruire un universo bidimensionale con una quantità infinita di componenti identiche, ma distintamente riconoscibili.”
Considerazione dello studioso dell’arte J. L. Locher: “Per gli scienziati, come per Escher, la pluralità del mondo non significa assurdità né caos, ma una sfida a cercare nuove relazioni logiche tra i fenomeni.”
Azzeccato è il titolo del paragrafo 6.5: A caccia dell’infinito, partendo e rimanendo però all’interno di un numero finito di possibili simmetrie. Escher ricorre anche alla geometria non euclidea, rinunciando specificatamente al quinto postulato di Euclide: “quello che asserisce che da un punto esterno a una retta passa una e una sola retta parallela a quella data.” Come comprendo l’artista Escher quando dice che “sembra molto difficile per Coxeter scrivere in un modo comprensibile per un uomo comune.” – quello è un matematico, la cui dialettica prevede un utilizzo semplice di parole semplice, finendo in tal modo per apparire tanto complesso da parere incomprensibile. Lo stesso capita con te: tutto è chiaro, soprattutto lo è il tuo caricare uno sull’altro mille ragionamenti che presi da per sé sono limpidi, messi insieme diventano irriproducibili se non con le medesime parole che tu hai utilizzato. Nei paragrafi 6.5.1 e successivi si analizza la non euclidea “tassellazione iperbolica Circle Limit I”, in cui Escher definitivamente si separa da me e mi fa con il palmo destro maramao. E io accetto serenamente lo sberleffo.
Il settimo capitolo è Le simmetrie nell’architettura. Secondo Alberti l’architettura “è mirata ‘a progettare razionalmente e realizzare praticamente […] opere che nel modo migliore si adattino ai più importanti bisogni dell’uomo.” Per fortuna: “I principi di simmetria giocano un ruolo così pervasivo in quest’arte, a tutti i livelli, che non risulta possibile darne una trattazione in qualche misura esauriente.” Nel Neolitico, l’uomo, ormai costretto “con la nascita dell’agricoltura”, a smettere di peregrinare in modo nomade, si trova “nella condizione privilegiata di poter trasformare l’ambiente naturale, quello che gli era per così dire ‘dato’, in un ambiente umanizzato, a sua misura.” In ogni trasformazione è sempre sottesa una fitta rete di rischi operativi. “Al loro posto i contadini si sono insediati nelle regioni paludose e fertili dei grandi fiumi.” Processo evolutivo: Paleolitico, nasce l’abitazione umana; nel primo Neolitico: nasce il villaggio, insieme all’agricoltura e all’allevamento di bestiame; nel tardo neolitico: nasce la città, “strettamente correlata alla nascita della scrittura”. Gli agricoli si tramutano parzialmente in cacciatori, e questo li costringe a migrare di nuovo, per seguire le loro prede più a nord.
“Circa 6.000 anni fa si è prodotta un’importanza evoluzione con la nascita di una società che ha convinto e costretto i contadini a produrre un surplus di vivere per mantenere, oltre a sé stessi, una minoranza privilegiata di individui dediti ad altre attività: artigiani, scribi, sacerdoti, funzionari e guerrieri. Questa nuova organizzazione sociale ha consentito un rapido incremento demografico e ha comportato un addensamento degli insediamenti e la storica articolazione tra campagna e città.” È la tua precisa e compiuta disamina dell’evoluzione sociale dell’uomo.
L’uomo ha antropomorfizzato l’architettura. “Basterà ricordare che figure umane, cariatidi e telamoni, sostituiscono spesso gli elementi portanti caratteristici delle strutture edilizie, sia nell’architettura dei popoli primitivi sia in quella greca e nelle altre che da essa derivano.” In questo senso tutto il mondo sarà, d’ora in poi, paese.
“… nella cultura dei Fali (tribù delle zone montagnose del Camerun settentrionale) la planimetria del villaggio richiama il corpo umano e in particolare attribuisce un ruolo specifico ad aree che possono identificarsi con la testa, gli arti superiori e inferiori; al centro il sesso, cui corrisponde il granaio, spesso accompagnato a un palo rituale, centro del mondo e chiaro simbolo fallico.” – la figura umana è diventata “simbolo della divinità”.
“La cinta muraria”, “la rete viaria” e “la forma perimetrale” sono “tre importanti aspetti degli insediamenti urbani…”. Mentre si dava la prevalenza “nel Medioevo a considerazioni pratiche, l’urbanistica del Rinascimento assume un carattere scientifico-teorico”, per cui “gli architetti rinascimentali elaborano schemi ideali di riferimento giungendo a una sistematica geometrizzazione dello spazio urbano.” La città di Palmanova ne è un affascinante esempio. Il suo perimetro “definisce un ennagono regolare e quindi è invariante per le trasformazioni del gruppo diedrico D9. Ma l’architetto ha scelto una forma esagonale per il centro della città, la piazza. Si trattava quindi di fondere i due tipi di simmetria.” Motivo per cui, “le rotazioni di 40° (cioè di un non di angolo giro, quelle che portano il perimetro della città in sé stesso, non lasciano invariato il perimetro della piazza e le rotazioni di simmetria tipiche della piazza (cioè quelle di 60°) non lasciano invariato il perimetro della città. Questa differenza nella simmetria delle due strutture, piazza e fortezza, fa sì che la pianta presenti, nel suo complesso, solo una simmetria per rotazioni di un terzo di angolo giro, vale a dire di 120°.” Castel del Monte: la pianta “è un ottagono regolare” con “otto torri a loro volta ottagonali”. Il portale presenta i due lati del timpano “di forma triangolare”, che “formano un angolo di 108°, cioè quello tipico del pentagono…”
I templi cristiani: i primi “riprendono la pianta rettangolare dei templi antichi ma soprattutto quella delle basiliche romane…”; poi “si diffonde l’uso di articolare la pianta inserendo un transetto perpendicolare all’asse longitudinale.”; ce ne saranno di vari tipi: “a croce egizia o commissa, a croce latina o immissa, a croce greca (l’unica croce a pianta centrale), a doppia croce (o a croce patriarcale o pontificale).” Si configura “una tensione tra l’esigenza razionale, che vorrebbe richiamare con la forma dell’edificio la perfezione del divino architetto, e quella religiosa, che intende privilegiare il ruolo essenziale dell’incarnazione, passione e morte del Redentore.”
Le problematiche insorte, in riferimento alla basilica di San Pietro a Roma, portano “all’adozione di un impianto non centrale per il maggior tempio della cristianità”, nella “sofferta scelta tra l’adozione di raffinati schemi ad alta simmetria e schemi che richiamano il simbolo più significativo del cristianesimo.” Un buxillis analogo sorse nell’edificazione del Taj Mahal, (“Palazzo del gioiello”) inclita meraviglia architettonica islamica. “… questo superbo edificio è affiancato da due corpi staccati i quali sono esattamente l’immagine speculare dell’altro.” – e questo crea il problema: “… mentre uno degli edifici aveva la corretta orientazione verso la Mecca, l’altro, sua immagine speculare, privilegiava inevitabilmente la direzione opposta.” Anziché rompere la simmetria (compiendo un sacrilegio geometrico), si destina l’inversa a monumentale tomba per l’amata “Arjumand Banu Begam, morta l’anno precedente, nota come Mumtaz Mahal (‘Diadema del palazzo’).”
Gli “edifici della città ideale” sono così meravigliosamente allineati e rapportati fra di loro, per cui l’unica è ammirarli su Google, oppure andare a Urbino, a Berlino o a Baltimora. Da parte mia non mi sento in grado di discorrerne più a lungo. Posso ancora accennare agli ultimi esempi architettonici che tu indichi: gli “edifici a struttura sferica” e quelli a disposti secondo la “verticalità”, il più inquietante di tutti, e devo dire che sono contento che non sia stato realizzato (pensando all’eventuale paracadutista che ci cascasse ‘n coppa) è “Un grattacielo alto un miglio di Franck Lloyd Wright.” – per rispetto non correggo la bizzarra c del primo nome di battesimo.
Un ultimo cenno riguarda “l’architettura e il teorema di Leonardo”, paragrafo 7.6): “Leonardo si è impegnato a determinare le possibili simmetrie di un edificio centrale e le regole da seguire per arricchirlo con nicchie e cappelle senza distruggere la simmetria originale.” Basti solo dire che: nel “caso in cui la struttura originale abbia già un carattere chirale, vale a dire esibisca una simmetria di tipo Cn…”, nessun problema: “il lettore non incontrerà alcuna difficoltà nel generalizzarlo al caso in cui l’aggiunta riguardi cappelle o nuovi vani, per arricchire notevolmente l’impianto originale.” Per stavolta passo.
Il capitolo ottavo è Le simmetrie della musica, leggendo il quale cui azzardo l’ipotesi che tu, mio buon Gian Carlo Ghirardi, abbia studiato ogni singola piega del cosmo sin da quando galleggiavi dentro il ventre di mamma tua. E ti dedico pertanto la mia prima poesia: Sono un poeta/ non ho la pancia, ho l’epa. A cui aggiungo la chiusa (si fa per dire, perché rimarrà per sempre aperta, essendo impalpabilmente irrazionale): E a tutti voi infingardi io dico che dovete/meditare, gente, su quel che fu quel grande studioso di Gian Carlo Ghirardi! – versi fondati su una serie spuria di Piolacci.
“In questo capitolo ci occuperemo della musica, l’arte forse più astratta, più disincarnata, quella che sembra illustrare significativamente la capacità umana di cogliere direttamente e in modo estremamente naturale la bellezza.” – lo dice anche Riccardo Garbetta, scrittore e pianista, che essa si può cogliere, comprendere, capere in senso latino, circondare ed essere circondato, pur essendo assurdamente ignoranti, partendo dall’orecchio e nulla più.
“… il suono, essendo fondamentalmente una perturbazione di natura meccanica, per propagarsi dalla sorgente allo spazio circostante fino a raggiungere il soggetto richiede (a differenza della luce e dei campi elettromagnetici) un mezzo materiale, tipicamente l’aria, la quale viene interessata da una serie di compressioni ed espansioni.”
La luce ha una velocità ineguagliabile nel vuoto: lì è a casa sua (che poi il vuoto di fatto non esista è un’altra questione), ove il fotone gironzola privo di compagnia reale (al massimo virtuale) con santa indifferenza: infatti non accelera né frena mai. Il suono, la musica, invece, ha bisogno dell’Altro, altrimenti rimane all’interno dello strumento e del suonatore.
“… per produrre un’onda sonora occorre una sorgente dotata di moto vibratorio che perturbi il mezzo circostante producendo piccole oscillazioni di pressione dell’aria che stimolano l’apparato uditivo.” – per cui bisogna iniziare dallo “studio del movimento, vale a dire il mutare della posizione di un corpo nel tempo.”
“Moto periodico”: “… per il quale esiste un intervallo temporale (minimo) T tale che, per ogni istante considerato t, il punto viene a occupare, al tempo t + T, esattamente la stessa posizione che esso occupava al tempo t.”
“Periodo di oscillazione”: è quella quantità T, che “verrà misurata in secondi”
“Frequenza”: “la sua inversa, bale a dire 1/T = ν, che dimensionalmente l’inverso di un tempo” e “che rappresenta, ovviamente, il numero di oscillazioni che il punto esegue in un secondo.” Concetto che anche quest’afono lettore ha forse capito.
“Altezza”: “da identificarsi con la frequenza di oscillazione del moto periodico che genera il suono.”
“Intensità”: che “dipende direttamente dall’ampiezza dell’onda, vale a dire dall’energia sonora incidente sull’area unitaria del timpano.”
“Timbro”: la diversità sonora che una stessa nota produce a seconda dello strumento utilizzato.
“Il sistema percettivo non risponde linearmente ma logaritmicamente all’intensità del suono, cosa che permette all’orecchio di percepire una vastissima gamma di livelli sonori che si estende per circa dodici ordini di grandezza.” – che non è davvero picciol cosa.
“La musica consiste fondamentalmente in successioni (aspetti melodici) e/o sovrapposizioni (aspetti armonici) di suoni di precise sequenze.” – di movimenti, fatti di andate e di continui ritorni verso “un centro di attrazione tonale” – che Aristotele definiva mese, errando il quale tutto è falsato, “mentre se si altera un’altra nota, solo questa pare stonata” – così affermava lo Stagirita.
“Scala pitagorica”: intende “razionalizzare la scelta delle varie note sulla base dell’idea che in essa apparissero solo note i cui rapporti erano semplici”, incapace quindi “di caratterizzare e identificare razionalmente i rapporti massimamente consonanti.”
“Scala naturale o giusta”: per Tolomeo, l’esagerazione, negata da Pitagora, diventa risorsa da sfruttare: “… si deve procedere oltre per giungere a una divisione dell’ottava mediante sette note.”
“Scala temperata”: la scala tolemaica aggrava “il problema del passaggio da una chiave all’altra”. Simon Stevin “scelse per il semitono il valore di √2, che iterato dodici volte, porta esattamente all’intervallo di ottava. La corrispondente divisione dell’ottava stessa in dodici intervalli uguali costituisce la scala temperata e il procedimento che porta ad essa viene detto temperamento equabile.”
Per gestire queste novità, si rese necessaria giungere a una “notazione musicale”. “Canone”: “legge, regola”: “la forma più stringente di contrappunto in cui una o più voci imitano o trasformano, secondo precise regole, la struttura melodica, il ritto ecc. di una voce data.” Col canone la musica acquisisce una nuova e immensa capacità di creare forme musicali nuove.
“Fuga”: come il canone, “si basa su un tema che viene eseguito a varie voci, in varie tonalità, con alterazioni della velocità e utilizzando tutte le tecniche tipiche che caratterizzavano appunto i canoni”, anche se “è, in generale, molto meno rigida del canone e offre grandi spazi all’inventiva individuale.” Essa “inizia con l’esposizione di un soggetto o tema il quale servirà da base per tutta la composizione.”
Queste novità tecniche sono importanti per la storia della musica “in quanto sono basate sull’uso sistematico di trasformazioni del materiale sonoro, il che conferisce all’opera interessanti caratteristiche di simmetria.” Tu definisci Johann Sebastian Bach come “il più grande compositore di tutti i tempi”, essendo colui che perfezionò per primo e meglio tali innovazioni, che furono in parte abbandonate dalla simmetricissima dodecafonia teorizzata da quel gran teorico di Schönberg, che “lo ha condotto a infrangere una dopo l’altra ogni barriera compositiva tradizionale per conquistare quello spazio in cui la sua creatività poteva godere di una libertà incondizionata.” Si tratta di una musica nuova basata su “dodici suono non imparentati che tra loro” e che “consiste essenzialmente nella sostituzione di uno degli elementi strutturali di base della prassi musicale, la tonalità con un altro, l’unità tematica, un procedimento che, nella prospettiva della precedente esperienza compositiva di Schönberg, si viene anche a configurare come un passaggio dall’atonalità libera e senza regola a quella organizzata.”
L’atto creativo principale è l’individuazione delle prime dodici note. Il resto è un pur fantastico ma stringente derivato. Le permutazioni possibili sono, al massimo, “479.001.600”. Esiste “il divieto di ripetere una nota prima che le altre siano apparse”. Alla fine nulla vieta “il verificarsi di momenti in cui la musica acquista un carattere decisamente tonale: basterà scegliere una serie che contenga appunto frammenti con queste caratteristiche.”
“Pierre Boulez”: “radicalizza l’uso della serie e finisce col pretendere che l’architettura della composizione risulti autodeterminata e indipendente da qualsiasi cosa esterna ad essa.” Gli schemi che proponi danno l’idea della necessità di ogni sequenza e inversione di sequenza, tanto che anch’io mi chiederei, con te: “dove condurrà questo gioco che appare perverso anche a una persona matematicamente quale” sei tu, non io.
“Quale possibilità espressiva, che non sia quella banalmente combinatoria di scegliere la successione delle quarantotto serie, rimase al suo estro creativo.” Il tutto può parere “un inutile gioco quasi maniacale.” A ogni genio la sua passione, il proprio destino artistico e umano.
“Il nucleo che genera in modo assolutamente deterministico tutta la serie è costituito dalle sue due prime note. La tecnica può utilizzarsi indifferentemente con riferimento alla scala cromatica (nel qual caso l’intervallo viene misurato in semitoni) o sulla scala diatonica (nel qual caso l’intervallo è determinato dalla successione delle note.” Il più è cominciare e “si procede a questo modo fino a quando si vuole, ma, ovviamente il procedimento genera un’infinita sequenza di note, da cui il nome di Serie infinita.” Venni anni fa a contatto con qualcosa di non meno atroce, quando una studentessa universitaria di lettere mi propose di tentare di capire la scrittura necessaria. Anche in quel caso si partiva da un minimo di parole, che generavano matematicamente tutto il resto del testo (che se ben ricordo era volutamente finito). In merito alla questione, riuscii a spiegarla all’attonita ragazza, a cui sciorinai le regole, come se avessero avuto non un senso, ma una motivazione. Ho cercato ora su Google cosa sia rimasto di questa tecnica: pare nulla e non ho al momento alcuna intenzione d’approfondire la questione.
Il nono capitolo è Le simmetrie nella letteratura. Cominci con il solito latercolo pompeiano: SATOR – AREPO – TENET – OPERA – ROTAS. Dove le lettere sono a lettura retrograda, il cui mistero non inficia il valore di simmetria perfetta, nei due sensi orizzontali e nei due verticali. Di tutto questo offri la solita immensa e magniloquente spiegazione riferita ai suddetti aspetti simmetrici. Parli poi di anagrammi, di cui fui maestro non riconosciuto nella mia verde età.
Il tuo amico Franco Selleri ti ha così anagrammato: “raggira chi l’indora”, che inizia a risvegliare in me qualche vago sospetto sulla tua onestà intellettuale, certamente inopportuno. Mi fa pensare al mio amico Antonio I., che io trasformai in aio intontito: in effetti quel giovane erudito pareva un po’ inconsapevolmente estraniato da sé. Un dirigente che mal sopportai (insieme al 99% dei colleghi) fu culo fosco l’ingannatore. Un mio conoscente tamil (o era cingalese?) Anuruddha Bandara e dotato di altri tre nomi divenne ho prestato valanghe di danar a un’ammalata brava a judo. Quando conobbi la madre dei miei figli, nonché attuale mia consorte, subito la chiamai: mia rosa carmina. Il suo nome, sommato al mio, divenne: al mare io m’ispiro con fantasia.
Poi parli dei palindromi: quello che più amo è Anna, mia figlia. Oppure il vernacolare andòm a Mòdna: andiamo a Modena. E come non citare Au Molin d’Andé (1969), prosa dell’insuperabile Georges Perec, appena 1247 parole, circa 6000 caratteri. Palindromo non è il titolo, ma il racconto intero. Un applauso in piedi e a scena aperta a Georges!
Nei tempi moderni “qualunque composizione poetica è organizzata in versi che, a loro volta, sono strutturalmente caratterizzati dalle sillabe, in particolare dal loro numero, e dal ritmo, determinato dalla posizione degli accenti. L’unità metrica di base, l’atomo della composizione è la sillaba; da questo punto si considerano metricamente ‘uguali’ due versi che contengono un uguale numero di sillabe.” – e questo rappresenta una novità.
Nella poesia latina “giocava un ruolo importante l’articolazione in sillabe lunghe e sillabe brevi più che il loro numero.” Solo di rado, “prima del Rinascimento si incontrano solo raramente versi sciolti, non legati alla rima: essi si fanno più frequenti successivamente e sono stati usati con l’intento di rifarsi alla poesia classica che non conosce la rima come elemento costitutivo del verso.” Se ne deduce che le regole letterarie (e artistiche in genere) restano in vigore, necessariamente, a tempo determinato, finché la loro energia riesce a produrre nuove composizioni. Poi tutto si ribalta, conducendo ad altri lidi poetici.
Descrivi poi, con la tua solita minuzia, versi, strofe, accenti e forme metriche varie. In 9.4 citi La Storia di Genji, il principe splendente, opera immensa di Murasaki Shikibu, romanziere nipponico dell’undicesimo secolo, per parlare dei suoi celebri diagrammi usati “per caratterizzare ciascuno dei 52 capitoli” del suo sconfinato romanzo. In 9.5 citi un pensiero di Italo Calvino: “La struttura è libertà, produce il testo e nello stesso tempo la possibilità di tutti i testi virtuali che possono sostituirlo. Questa è la novità che sta nell’idea della molteplicità ‘potenziale’ implicita nell’ipotesi di una letteratura che nasca dalle costrizioni che essa sceglie e si impone.”
La costrizione crea la differenza, la sofferenza e l’anelito verso la libertà: è la considerazione di chi non è mai stato libero. Henry Miller lo era, mentre scriveva il suo primo Tropico. Egli non si poneva costrizioni, giungendo persino a dire che l’unica sua auto-imposizione consisteva nel non rileggere (per correggere eventuali errori) il proprio testo. Non so se ha mantenuto la promessa, ma quel che conta è che l’abbia dichiarata. Lo stesso vale per Bukowski, e per i grandi ribelli della letteratura (Rimbaud, Ginsberg, Corso, William Seward Burroughs di Naked lunch, romanzo sconfinato che ti farebbe perdere la testa, amico mio, e il Palazzeschi che ancor giovane scrisse E lasciatemi divertire!
In 9.5 citi il racconto palindromo di Giuseppe Varaldo, primatista italiano con le sue 4.587 lettere, nel racconto 11 luglio 1982, canto dedicato a una celebre vittoria calcistica dell’Italia. E non manchi di ricordare il primatista europeo e mondiale Georges Perec.
Esamini acrostici, anagrafie (uno stesso verso, anagrammato in n versi, dotati di diversi segni di interpunzione), alfabeti raffigurati, lettere rubate, lipogrammi, di cui il più celebre è il solito capolavoro di Georges Perec: L’esclusa, che tu chiami con minor ragione La scomparsa: “di più di 330 pagine, nelle quali non è mai usata la vocale ‘e’.” Non fai cenno invece a Les Revenentes, allucinata storia in cui quel micidiale autore usò soltanto la e come vocale.
Con uno sguardo impietosito descrivo 9.5.9 Net-Poems: la cui regola “è quella che la poesia abbia i versi costituiti da pseudoindirizzi di posta elettronica, costruiti secondo le regole standard che li caratterizzano.” ovvio che in quei pseudo telematici versi non debba mai comparire la a, ma, solo una volta, la @. Che pazienza che ci vuole, dai!
Già alla fine del precedente capitolo musicale, avevi preannunciato che il seguente, dedicato alla letteratura, sarebbe stato più smilzo, “non per un interesse minore per questa importante opera d’arte, ma perché essa non richiede un’analisi altrettanto dettagliata.” Io ho un’altra idea sulla questione, che poi ti dirò.
In 9.6 Conclusioni, per farti perdonare citi le simmetrie della Commedia dantesca e dici “Per i nostri scopi ci sembra inutile dilungarci su aspetti estremamente tecnici che richiederebbero un elenco interminabili di casi.” – certo che, detto da te… Ti fai perdonare (anche se non ce n’è bisogno, sia perché l’autore, il conducator, sei tu; sia perché questo tomo consta di 796 pagine e non vedo l’ora di finirlo, perché è un po’ come attraversare il Gobi con solo una misera borraccia d’acqua) citando un fatto che mi era uscito dalla testa o che se ne stava rintanato da qualche parte: Anna Karenina “incontra Vronskji in strane circostanze, sono sul marciapiede di una stazione dove poco prima qualcuno è finito sotto un treno alla fine del romanzo sarà Anna a gettarsi sotto il treno. Questa composizione simmetrica, nella quale un identico motivo appare all’inizio e alla fine, può sembrarvi molto ‘romanzesca’. Sì, sono d’accordo, ma a condizione che la parola romanzesca non la intendiate come ‘inventata’. ‘artificiale’, ‘diversa dalla vita’. Perché proprio in questo modo sono costruite le vite umane.” – e le loro finzioni borgesiane.
Si tratta di un passo che hai tratto da L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, che poi continua: “Sono costruite come una composizione musicale. L’uomo, spinto dal senso della bellezza, trasforma un avvenimento casuale (la musica di Beethoven, una morte alla stazione) in un motivo che va poi a iscriversi nella composizione della sua vita. Ad esso ritorna, lo ripete, lo varia, lo sviluppa, lo traspone, come fa il compositore con i temi della sua sonata…” Troppo bello perché non sia vero!
Poco fuori Novellara c’è un passaggio a livello non custodito. Una trentina d’anni fa una ragazza passò con l’auto senza verificare se ci fosse un treno di passaggio. Fu schiantata dal treno e uccisa. Dieci anni dopo lo stesso capitò a suo padre. Chissà a cosa stava pensando in quel momento! Nella coincidenza si cade tutti insieme, noi col resto del cosmo, per sempre entangled.
Discuto una frase di Einstein e poi ti dico quella cosa: “Voglio conoscere i pensieri di Dio, il resto non sono che dettagli.” Fai come ti pare, Albert: a me interessano in primo luogo i dettagli e confido che essi prima o poi mi portino Colà, dove non si sa.
Un’ultimissima chiosetta. Un cenno per la simmetria lo merita Ulysses di Joyce, ri-costruito simmetricamente sull’Odissea di Omero. In ognuno degli episodi, si ripetono dei motivi, che riguardano per esempio una parte del corpo (un ginocchio che duole) e numerosi altri, secondo una logica assolutamente geometrica. Sarà per un’altra volta, dai.
Ne Il cappello scemo di Haim Baharier è scritto che davar significa cosa ma anche parola, parole-cose, non un mero parlare, ma degli oggetti che parlano. Le parole sono particelle composte a loro volta da sillabe, lettere, e sono dotate di accento, che è lo spin delle stesse, il loro modo di girare. E vivono spesso di vita propria. Partono e arrivano dove il destino le ha portate, come capita al fotone e al protone. Il poeta le ascolta e a volte le subisce. Diversamente è lui a ordinarle e a metterle in fila. Non sempre però. Tra Arthur Rimbaud e Paul Valery io so chi scegliere per andare Altrove. Questo è il compito della poesia, condurti Colà. Solo quando atterri, quando hai intercettato il tuo attuale spazio-tempo, inizi a esistere e a farti domande su quel che ti è successo. E cessi d’essere onda, e diventi materia. Ma per poco, ché appena puoi te ne andrai a visitare il prossimo luogo e a vivere diversamente.
Qui finisce la seconda parte, e inizia la terza: Le simmetrie nella scienza. Il decimo capitolo è L’approccio scientifico all’indagine del reale: primi tentativi. In esso descrivi la nascita e l’evoluzione della scienza, che inizialmente coincide con la “filosofia naturale. Invece, diversamente dalla posizione attuale, la matematica non era considerata parte essenziale della scienza.” – la “filosofia naturale tratta della variabilità del mondo mentre la matematica si configura tipicamente come la scienza di ciò che non muta.” Da questo ne consegue a far “stabilire relazioni strettissime tra la matematica – e in particolar modo la geometria – e l’astronomia, la quale studia i moti assolutamente regolari che caratterizzano i fenomeni celesti considerati fondamentalmente diversi e di una qualità distinta da quella degli irregolari processi che si danno sulla Terra.”
Talete: la sua originalità consiste nell’“aver attribuito la suprema unità del cosmo non a un essere divino ma a un principio naturale e materiale”: “lo identificò con l’acqua (più principalmente con ciò che è umido)”. Sui pitagorici si è già detto nella disamina del tuo primo volume Simmetrie – Principi e forme naturali. “Tutte le cose che si conoscono hanno numero: senza questo nulla sarebbe possibile pensare né conoscere” – scriveva Filolao di Crotone. I numeri sono rappresentati per mezzo di punti circondati dallo spazio vuoto. Si ritiene che “dalla collezione di varie unità possano generarsi tutte le cose.” – la pur vaga intuizione dell’esistenza dell’incommensurabile mise in crisi questa potentissima scuola. Tótt à fîn direbbe mia madre. Ma in ogni fine c’è una ragione energetica, come in ogni inizio.
Sto scrivendo queste note a 12 chilometri da Elea, patria di Zenone, la cui filosofia nasce dalla consapevolezza della “fondamentale contraddizione tra la pretesa di giungere a una visione unitaria del mondo e il dover accettare, sulla base dei dati dell’esperienza, la molteplicità del reale e il suo divenire.” Quest’aporia conduce “Parmenide ad asserire l’impensabilità e quindi la non esistenza del non-essere e l’esistenza dell’essere come condizione stessa del pensiero e della verità.” Come già in altri lidi, si pensa che “i mutamenti del mondo sono quindi solo apparenze ingannevoli e in esso non si danno né cambiamenti né movimenti…”
L’essere è una sfera; all’esterno della quale cosa c’è? Qualcuno ipotizzi che il filosofo eleatico avesse una concezione curvacea dello spazio simile a quella di Einstein, e non pensasse a una sfera euclidea. I sogni (di un filosofo, di un suo esegeta) son desideri… Zenone (suo discepolo): segnalò, coi suo celebri paradossi, “l’impossibilità del movimento e del cambiamento”.
Eraclito: tutto è mutamento e scorrimento, dove non si sa, oppure si dice che: “l’armonia e l’accordo soggiacciono a questi aspetti del divenire”, per cui “i contrari non rappresentano elementi inconciliabili, ma risultano assolutamente uniti.”
L’antagonismo tra questi filosofi ripete il conflitto all’interno di ognuno di noi, che si può risolvere solo con la consapevolezza che ha senso il movimento, quanto la sua assenza. Il cosmo è in continua espansione, per via di quell’energia che chiamiamo oscura non sapendone né il nome, né il cognome, né tanto meno il codice fiscale. Eppure… Nulla di nuovo sotto il sole… e Tutto è vanità.
Ora vado a letto, ma come mi ricorda il fisico Catalina Curceanu, dormendo non smetto di essere un ragazzo sprint e continuo a correre a 220 km/sec intorno al centro della nostra galassia…
Empedocle di Agrigento: la conoscenza umana è limitata, per cui occorre farsene una ragione. “L’essere immutabile non è pertanto una sostanza unica ma è composto di diversi elementi, che egli porta a quattro: acqua, aria, terra e fuoco, ‘le quattro radici di tutte le cose’”, che sono dissolte e mescolate, grazie “a due forze opposte che animano gli elementi stessi: la Discordia che tende a separarli e l’Amore che tende a unirli.” – qualcosa di simile all’energia oscura e alla gravitazione. Senza questo dissidio non ci sarebbe la vita e la conoscenza.
Anassagora: Nulla nasce e nulla perisce, ma tutto si trasforma. Gli elementi non sono solo quattro, ma molteplici: “i semi sono infiniti in numero e infinitamente e infinitamente indivisibili.” – mi sa, caro mio, che tu non sapessi dello spazio di Planck, dove veramente tótt à fîn. Forse, ovviamente.
Democrito: forse su ispirazione sul forse mai esistito Leucippo. L’essere è il pieno. Il non essere è il vuoto. Il primo è costituito “da un numero infinito di elementi invisibili per la loro piccolezza, gli atomi.”
E qui sorge il dubbio: infinito o quasi tale? I semi di Anassagora sono “divisibili all’infinito”, gli atomi di Democrito, come dice la parola, no: a tomè, non tagliabili. All’interno sono continui e si muovono per necessità. Quell’espressione in corsivo dà l’idea dell’assurdità della definizione di atomo. Se non è divisibile, non può avere interno, e il suo esterno è il vuoto. Non quello che definiamo oggi tale, che sappiamo pieno zeppo di particelle virtuali; semmai quella strana essenza che non si può definire, se non che è indefinibile e protetta dalla barriera (che folle termine ho scelto) dello spazio di Planck. Le immagini che abbiamo di loro sono “idola”, che creano la nostra relazione col mondo. Parvenze? Illusioni? Quien sabe, direbbe l’imperturbabile nonché cosmico Tex Willer.
Platone: tenta un’astrazione “con riferimento alla filosofia naturale” e affida a Dio il compito di mettere ordine nel mondo, in spregio al secondo principio della termodinamica e alla conseguente entropia cosmica. Il mondo è naturalmente simmetrico! Meno male! “Platone identifica i quattro elementi di Empedocle con quattro poliedri regolari.” – l’importante è crederci. Inoltre, gli atomi non sono tali: sono “omogenei alle idee”.
“La Terra è una sfera che sta immobile al centro dell’universo…” – quando dormiva Platone, era immobile. Anche se ogni tanto si rigirava nel suo letto.
“Il cosmo è organizzato in un modo centralmente simmetrico.” – anche qui basta crederci.
“I corpi celesti eseguono moti circolari e uniformi attorno al centro.” – e qui… anch’io ci credo un po’. Occorre però “elaborare principi modelli matematici i quali, pur rispettando le rigide richieste avanzate, rendano conto delle apparenti deviazioni delle ipotesi.”
Eudosso: due sfere “ruotano di moto circolare uniforme con lo stesso periodo ma in direzione opposte intorno a due assi…” – formando un angolo. E da questo semplice concetto, il primo grande astronomo della storia dà spiegazione simmetricamente ineccepibile, riconducendo tutto a “moti circolari e uniformi”.
Aristotele: intorno a una sfera inserisce nuove sfere che, ruotando “in direzione opposta, con l’effetto di cancellare il moto di tale sfera”.
Ipparco: scopre “la precessione degli equinozi, ossia il lento movimento da est verso ovest dei punti equinoziali (le intersezioni dell’eclittica con l’equatore celeste)”.
Tolomeo: “il cielo delle stelle fisse è una sfera che ruota di moto uniforme con periodo di un giorno attorno a un asse fisso che passa per il centro della Terra. Si suppone che la Terra abbia forma sferica e che stia immobile al centro dell’universo.”
Copernico: per lui, come per Platone, “il mondo deve risultare fondamentalmente semplice e simmetrico.” La sua concezione: “il Sole, stazionario al centro, è circondato…” da vari pianeti e satelliti. Il suo modello non era “né dal punto di vista pratico né da quello formale nettamente superiore a quello tolemaico.” Però era foriero di sviluppi altrui.
Tycho Brahe: riporta la Terra al centro dell’universo, immobile in maniera assoluta. Diversamente, ne sarebbe derivata la sistemazione delle “stelle fisse a distanze maggiori di almeno 700 volte di quella del pianeta più esterno.” – e con “dimensioni e una luminosità inaccettabili per quell’epoca.”
Keplero: allievo del precedente, teorizzo e comprovò che:
1) “tutti i pianeti si muovono con orbite ellittiche con il sole in uno dei suoi fuochi”
2) “la linea che congiunge un pianeta al Sole descrive aree uguali in tempi uguali
3) “il quadrato del periodo di ogni pianeta è proporzionale al cubo della distanza media del pianeta dal Sole.”
La sua opera fu messa in-naturalmente all’Indice dalla Chiesa.
L’undicesimo capitolo è La meccanica classica. Galileo: usa il cannocchiale un piccolo telescopio, per cui non tocca con mano, ma con gli occhi sì, la parte limitrofa della realtà dell’universo; e scopre che la Via Lattea è da considerarsi “semplicemente come una particolare distribuzione di miriadi di stelle”. Il cannocchiale aumentava considerevolmente la dimensione dei pianeti, ma non quella delle stelle, che se si muovevano al momento lo potevano sapere solo loro. A parte questo, Galileo compì numerose scoperte scientifiche, non solo nel campo dell’astronomia, ma anche della dinamica e della meccanica. Scoprì il principio di conservazione dell’energia e dell’inerzia, nonché quello della “composizione vettoriale dei moti la quale, tra l’altro, implica la legge di addizione vettoriale delle velocità.” Suo fu il primo “principio di relatività”, per cui vi è “invarianza dei processi naturali per traslazioni, rotazioni e trasformazioni”, favorendo le teorizzazioni di Newton e quattro secoli dopo di Einstein.
Descartes: la sua grande intuizione fu di giudicare il sistema solare come uno dei tanti sistemi che si muovono intorno a una stella. Lo spazio è “infinito e uniforme, nonché riempito di materia indifferenziata in perenne movimento.”
Newton: le tre leggi della meccanica sono:
- “Se su di un corpo non agisce alcuna forza esso (in un sistema di riferimento inerziale) conserva il suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme.”
- “Il tasso di mutamento dell’impulso di un corpo uguaglia la risultante delle forze esterne che agiscono su di esso.”
- “Le forze si presentano sempre in coppia” e ogni corpo esercita sull’altro la sua (uguale e opposta”).
1): significa che non c’è bisogno di alcuna forza “per mantenere un sistema in moto” – che deve essere perciò rettilineo.
2) significa che “la forza dovrà essere diretta verso il centro e avere un appropriato valore.”
3) porta alla Legge di gravitazione universale: “Due corpi, A e B, dotati di massa si attirano l’un l’altro con una forza direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza e diretta lungo la congiungente dei due corpi.” – azione e reazione.
Dell’opera disgiuntamente congiunta di Galileo-Newton nasce il Principio di inerzia: “un corpo non soggetto a forze (Einstein preferisce specificare: sufficientemente lontano da altri corpi) permarrà nella sua posizione di quiete o di moto rettilineo uniforme ‘rispetto ad un sistema rigido di assi appartenente alla classe dei cosiddetti sistemi inerziali’.”
Mi fa piacere, Gian Carlo, che tu citi Tipler, di cui divorai trent’anni fa la Fisica dell’immortalità, il quale invita a sottolineare la profondità della prima legge. In effetti l’inerzia, che si fa coincidere praticamente con la gravità, è, insieme all’energia oscura, il più arcano segreto del mondo. Forse una delle sue possibili soluzioni ontologiche. Importante considerazione, su come: “… alla base della concezione del mondo di Newton, stia la convinzione dell’esistenza di uno spazio e di un tempo assoluti.”
Mach: “giunse a negare qualsiasi valenza concettuale all’idea di tempo e spazio assoluti”. Ne deduco che uno dei due erri, forse entrambi.
Teoria della forza conservatrice: un campo di forze “è conservativo se il lavoro totale che il campo esegue su una particella quando essa compie un qualsiasi cammino chiuso risulta uguale a zero o, equivalentemente, quando il lavoro compiuto dal campo per uno spostamento del punto da A a B non dipende dal percorso che si segue per andare da uno all’altro dei punti considerati.” Come già ti dissi, fêr e disfêr l ē tótt un brighêr. Fare e disfare è tutto un brigare. Ma perché e, soprattutto, per chi? La risposta è forse al prossimo capitolo? Al momento accontentiamoci della funzione lagrangiana, che “consente di riscrivere le equazioni del moto di Newton in una forma particolarmente utile”… Nonché quella hamiltoniana, che “rappresenta una quantità fisica di notevole rilevanza in quanto rappresenta l’energia totale del sistema in esame.”
Due parole su Il rotore e il teorema di Stokes: il primo è un operatore del calcolo differenziale, che “genera un campo vettoriale da un campo vettoriale dato”. Se il rotore è nullo (beh, capita…), il campo è “irrotazionale” – in prima battuta avevo scritto irritazionale!
Teorema di Stokes: “per ogni campo irrotazionale F assegnato esiste una funzione scalare” la quale “vale; F = grad φ (x, y, z). Più chiaro di così! Per chiudere il capitolo: “L’operatore (div grad), che viene spesso indicato come Δ2 e prende il nome di operatore di Laplace o laplaciano, assume, in coordinate cartesiane” forme mostruose.
“Un altro operatore differenziale di secondo ordine è il rot grad il quale, come il lettore può facilmente verificare, risulta identicamente nullo.” Magari dopo, dai, prima mi schiaccio un pisolino.
Il dodicesimo capitolo è Simmetrie degli oggetti e invarianza delle leggi. Due regole newtoniane.
- “Delle cose naturali non devono essere ammesse cause più numerose di quelle che sono vere e bastano a spiegare i fenomeni”
- “Perciò, finché può essere fatto, le medesime cause vanno assegnate ad effetti naturali dello stesso genere.”
La natura non è mai vana, il filosofo tende a esserlo per necessità psicologica, lo scienziato è come un accanito fumatore che cerca disperatamente di smettere e talvolta ci riesce.
“Il lettore attento avrà notato come Newton ponga sullo stesso piano, in modo del tutto naturale, i processi del mondo sub- e sopralunare, un fatto che mette chiaramente in evidenza l’ormai acquisita concezione moderna della scienza.” Ancora non era sorta la diatriba fra quantistica e relativistica.
Come segnalato dallo stesso Wigner “allo stesso modo in cui la scoperta delle leggi di natura consente di riconoscere la sostanziale identità di processi apparentemente diversi, così l’identificazione delle proprietà di invarianza delle leggi di natura mette chiaramente in luce gli aspetti comuni ad ambiti fenomenici diversi e costituisce un valido principio guida per l’elaborazione di nuove teorie.”
Definizione: “Diremo che la teoria risulta invariante per la trasformazione in questione (o, equivalentemente, che la teoria presenta simmetria per la trasformazione considerata) se la dipendenza funzionale delle componenti della forza dalle variabili di posizione risulta la stessa per i due osservatori…” Quindi lo è anche per l’inversa di una trasformazione data “e che se essa risulta invariante per due trasformazioni essa risulta ovviamente invariante anche per la loro composizione.” Inoltre: “il principio che lega ogni invarianza a una legge di conservazione ci assicura che l’energia del sistema viene conservata.” Anche questo è un atto di fede, a cui non ci si riesce a sottrarre.
“La simmetria delle forze che governano le interazioni tra i corpi dell’universo con la conservazione di specifiche quantità fisiche quali l’impulso, il momento delle quantità di moto e l’energia…”
Il tredicesimo è Il principio di relatività. Riporti il principio di relatività di Galileo: “Le leggi della meccanica e, conseguentemente, i moti da esse implicati per i corpi materiali coincidono identicamente per un sistema di riferimento inerziale e uno che si muove di moto rettilineo e uniforme rispetto ad esso.” Purtroppo non si sa né forse si saprà mai cosa sia, in fondo, un sistema di riferimento inerziale. Sul moto rettilineo e uniforme, Einstein si esprimerà all’inizio del secolo XX. Di fatto, come suggerisci tu: la relatività galileiana, con l’annessa trasformazione addizionale della velocità, “noi tutti la sperimentiamo allorché ci troviamo, ad esempio, su un treno che si muove di moto uniforme.”
Descrivi poi il processo che ha porta all’unificazione dell’elettricità e del magnetismo, delle conseguenti equazioni di Maxwell, giungendo poi alla propagazione della luce, la cui velocità è detta, da Maxwell stesso, c. L’esperimento di Michelson-Morley prova che per la luce, la trasformazione addizionale galileiana non ha valore: il valore della sua velocità nel vuoto rimane costante (e insuperabile): concetti già teorizzati da Maxwell.
Una tua frase mi fa meditare: “Anche con il nuovo dispositivo non si trovò traccia di un vento d’etere.” I due fisici, nel rivelare la costanza e l’insuperabilità della velocità della luce, non rinvengono quel che probabilmente non c’è. Il concetto di etere è descrivibile insieme a quello di spazio: l’etere è o non è nello spazio? Quando il cosmo si è formato in quello che popolarmente è detto big bang, per un certo periodo lo spazio si è sviluppato a una velocità superluminale. Secondo la teoria della relatività questo comporterebbe una regressione temporale. Ma non è così, perché quello spazio non è un ente provvisto di massa. Se quanto mi è parso di capire è corretto, esistono fattori che prescindono da tutte quelle variabili che corrispondono agli eventi fisici. L’etere, che io identifico come sinonimo di spazio, potrebbe essere uno di questi. Esistono due tendenze certe: l’allontanamento delle galassie, l’attrazione gravitazionale dei corpi: le possiamo definire antitetiche, oppure connesse fra loro, in una convergenza parallela (celebre espressione politica di Aldo Moro) che non comprendiamo. È estremamente probabile che quanto ho appena scritto sia una fesseria, ma non meno eclatante di chi credeva
Relatività ristretta: “… se si considerano orologi identici e sincronizzati distribuiti (praticamente) in tutti i punti dello spazio, allora si può definire il tempo di un evento in un punto preciso come quello indicato dalla posizione delle lancette di un orologio nelle immediate vicinanze spaziali dell’evento stesso.”
Relatività della simultaneità: “… poiché abbiamo fatto ricorso precisamente alla definizione di simultaneità di eventi in punti in quiete in un sistema di riferimento per definire il tempo in quel sistema, dobbiamo per forza concludere che ogni sistema di riferimento (tra quelli in moto relativo) ha un suo tempo particolare: si può attribuire un significato al tempo solo specificando esplicitamente a quale sistema di riferimento ci si riferisce.” – la quale teoria mi pare molto auto-referenziale. Vi è un quasi infinito campionario di relatività di tempi e distanze. Questo complica la nostra vita, ma tant’è: questa al momento abbiamo.
Trasformazioni di Lorentz: sostituiscono quelle di Galileo, a meno che la velocità di un corpo sia trascurabile: esse permettono di descrivere le variazioni spazio-temporali tra due sistemi di riferimento inerziali, in cui l’oggetto della misura è in moto rettilineo uniforme rispetto all’osservatore. Cioè mai. Però, il decadimento del muone comprova il tutto: se non fosse così, per la sua esistenza troppo breve (sebbene ad altissima velocità), esso non giungerebbe sulla Terra da una distanza superiore a 10 km.
Il quattordicesimo capitolo è Le varietà e le loro geometrie. Scalare: è una grandezza “che resta invariata per la trasformazione considerata”. Vettore controvariante: “un insieme di n grandezze che si trasformano come le componenti del gradiente di una funzione scalare”. Tensori: vettori con “più indici (due per i tensori del secondo ordine e così via)” Campo vettoriale: “collezione di vettori, uno e uno solo per ogni punto P della varietà” Linee geodetiche: il cammino più breve fra due punti. Sarebbe bello riportare la formula di una geodetica. Preferisco evitare, però: non serve a questa blanda esegesi della tua opera. Ottima la definizione di curva: “la differenza sostanziale tra uno spazio piatto e uno non piatto deriva precisamente dal fatto che il secondo presenta una curvatura.” Teorema: “Condizione necessaria e sufficiente affinché una varietà sia piatta è che il tensore di Riemann risulti nullo.” Mi domando se sia mai successo. Spazio di Minkowski: “Un punto dello spazio e un punto del tempo, cioè un sistema di valori x, y, z, t, lo chiamerò un punto dell’universo. La molteplicità di tutti i pensabili sistemi di valori (t, x, y, z), lo battezzeremo universo.” – si tratta di un’affermazione ottimistica. “Quando una particella si muove nello spazio ordinario, nella prospettiva relativistica, la successione degli eventi che caratterizzano il moto corrisponderà a un cammino nello spazio quadrimensionale che denoteremo come linea di mondo.”
Queste sono le definizioni. Come diceva l’ingegnere e scrittore Luciano De Crescenzo, si può discorrere finché si vuole della teoria relatività ma qualcosa di essenziale sfuggirà sempre. Dire che essa sia assurdamente errata è da folli: funziona. Dire che la meccanica quantistica è assurdamente irreale è da illogici: funziona. Dire che le due suddette teorie sono assurdamente incompatibili è affermare una banalità. Chi da anni, come per esempio il professor Rovelli, tenta di conciliarle e di armonizzarle, affermando che il tempo non esiste e che lo spazio è un grumo che si agita laggiù, è definito da alcuni, con un disprezzo immotivato, lupparolo: la sua eroica interpretazione della fisica del cosmo si chiama gravità quantistica a loop. Chi sostiene la necessita di uno spazio a 11 dimensioni e che il cosmo è ragionevolmente piatto per dare un senso al tutto è definito da qualcuno, con egualmente assurdo disprezzo, stringarolo. Ma se il cosmo fosse davvero piatto non tutto ma quasi tutto si risolverebbe. Questa interpretazione è detta teoria delle stringhe.
Leon Lederman, premio Nobel, nel suo La particella di Dio, si lamentò della poca stima reciproca che intercorre tra fisici teorici e sperimentali. Mi è parso di cogliere che, attualmente, il mondo della fisica non è oppresso dalla molteplicità di modelli, teorie e interpretazioni, ma dalla scarsità di attenzione di talune ricerche verso talune altre. Manca, in altre parole, di quell’unità rispettosa della diversità che invece ho ravvisato nelle tue due opere.
Il quindicesimo e brevissimo capitolo è La dinamica einsteniana. È quello che forse ho capito meno e che senz’altro meno saprò ridurre a una chiara sinossi. “… in relatività generale la gravità non è descritta da una forza ma bensì dalla curvatura dello spazio-tempo.” – per cui la relatività metrica “dipende dalla distribuzione delle masse nelle varie regioni dello spazio stesso.” Poiché, “si ha a che fare con sistemi complessi costituiti da molte particelle”, praticamente si descrive “il sistema come un fluido – una distribuzione continua di massa con una serie di proprietà come la densità, la pressione, l’entropia, la viscosità ecc.” Tanta complessità rende “necessario generalizzare il vettore energia-impulso”, per descrivere la geometria locale dello spazio-tempo.
Pertanto, per dare un senso al tutto occorre utilizzare “un tensore simmetrico che fornisce tutte le informazioni rilevanti su un sistema a molti corpi.” Non mi si chieda come o perché, ma pare che alla fine tutto funzioni a meraviglia. Vorrei accennare al fatto che anche i tre principi della termodinamica scarseggiando di prove, pur non essendo mai stati contraddetti da alcun fenomeno sperimentalmente osservabile. Così è, se vi pare.
Il sedicesimo capitolo è Dalla relatività ristretta alla relatività generale. Relatività generale: “un osservatore accelerato rispetto a un sistema inerziale può legittimamente considerarsi fermo e immerso in un appropriato campo gravitazionale. Va sottolineato che questa possibilità viene a dipendere dal principio di equivalenza, il quale riassume il fato cruciale che la massa gravitazionale e quella inerziale risulta uguali…” Principio di equivalenza: “Un sistema con accelerazione lineare rispetto a un sistema inerziale della relatività è localmente identico a un sistema a riposo in un campo gravitazionale.” La geodetica “dipende dalla curvatura o distorsione o distorsione della varietà la quale determina il cammino (la linea di mondo) della particella stessa.” Ottima “l’affermazione di Wheeler che la materia dice allo spazio come incurvarsi e lo spazio curvo dice alla materia come muoversi.”
Signor Einstein, signor Wheeler, signor Ghirardi: io non metto in dubbio che i meccanismi che comprovano la teoria siano perfetti e al di là della mia possibilità di critica. Però chiedo: questo dialogo non metafisico, ma proprio fisico tout court, da cosa scaturisce? Forse dal fatto che, per dare un senso a questa formidabile teoria, occorre pensare che la materia abbia un’azione e che essa sia diretta verso un luogo logicamente verificabile. Se non fosse così, l’uomo non sarebbe andato sulla Luna, né altrove. Purtroppo al discorso manca il fondamento primo: cos’è la materia, in che senso la massa incurva lo spazio, cos’è lo spazio che prima si fa incurvare e poi detta legge?
Il diciassettesimo capitolo è Orizzonte degli eventi, buchi neri e altri aspetti interessanti. La pur velocissima luce, come tutto ‘n coppa a ‘sta terra, può rallentare. La cosa pare assurda ma non lo è. La sua irraggiungibile costanza “vale negli spazi piatti e non in quelli curvi.” Cioè mai. Il vuoto non esiste, a quanto pare, ma è pieno di un rigoglioso esercito di particelle virtuali. Che conseguenze provocano sulla velocità della luce? Einstein distingue fra corpi vicini e altri sufficientemente lontani, la cui gravitazione (mia aggiunta) è (quasi) nulla. Quasi? Se una spòusa (in arşân è sposa ma anche libellula) sbatte le ali tra Pisciotta e Palinuro, cosa cambia alla mia dinamica gravitazionale ora che sono tornato a Reggio Emilia? Quello che poco apprezzo della fisica è che il quasi quasi non interessa. A me interessa maggiormente il quasi nulla al quasi tutto. Per questo non capirò mai a sufficienza le scienze delle misurazioni.
Passi poi a parlare della “radiazione di Hawking da un buco nero”. Dalla formazione di “coppie virtuali particelle e antiparticelle (e anche coppie di fotoni o gravitoni) le quali, usualmente, se create all’orlo dell’orizzonte si materializzano nel vuoto quantistico e subito dopo si annichilano.” Se una casca dentro a buco nero, “l’altra emerge dall’orizzonte degli eventi” – e il gioco della radiazione di Hawking è fatto. Nessuno ha mai incontrato per strada un buco nero, si intuisce però che ne esista uno enorme al centro della galassia e che ve ne siano in numero esorbitante (non possono non esserci). Sono certo che la maggior parte dei fisici riesce a visualizzare questa immagine delle due gemelline separate alla nascita. Lo stesso dicasi delle “onde gravitazionali”: “oggi esiste una notevole fiducia nel fatto che le onde gravitazionali esistano effettivamente.”
Il diciottesimo capitolo è Verifiche sperimentali della relatività generale. Breve anch’esso e abbastanza chiaro: lo conosco da quando lessi il celebre libro di Hawking: Dal Big Bang ai buchi neri – breve storia del tempo. Mi pare di ricordare che il famoso esperimento dell’eclissi solare realizzato da Lord Eddington non fosse esente da errori anche gravi. Ciò non toglie che relatività einsteniana goda di notevoli prove a suo favore.
Il diciannovesimo capitolo è La meccanica quantistica. Tutto nacque quando Planck “assunse che una radiazione elettromagnetica di frequenza ν non può avvenire assorbita o emessa da un corpo materiale in modo continuo ma solo in quantità discrete, proporzionale alla frequenza stessa…”. Tale affermazione fu confermata dallo stesso Einstein, grazie al cosiddetto effetto fotoelettrico. Bohr “assume che, nel caso di un atomo, non tutte le orbite che risultano compatibili con la teoria classica per un sistema di un elettrone e un nucleo che si attraggono secondo la legge di Coulomb sono di fatto possibili. In natura esiste solo un numero discreto (un’infinità numerabile) di orbite sulle quali l’elettrone può trovarsi.” Questo modello di limitazione consente di “ottenere risultati in quasi totale accordo con l’esperienza anche per atomi estremamente complicati. Il termine quasi nel contesto presente, non deriva dal fatto che ‘la regola di Bohr’ risulti in qualche modo non appropriata, ma fa riferimento al fatto che, poiché non si sanno risolvere esattamente le equazioni di Newton per un sistema a più elettroni, si deve far ricorso a metodi approssimati per determinarne i moti, a quali si applica comunque la regola di quantizzazione di Bohr.”
Interessante la nota 7 di pagina 664: “George Paget Thomson ricevette il Premio Nobel, nel 1937, per aver ‘dimostrato’ che l’elettrone è, in qualche misura, un’onda, mentre trentun’anni prima suo padre Joseph John aveva ricevuto il Premio Nobel per aver dimostrato, nei suoi esperimenti sui processi radioattivi, che l’elettrone è una particella.” Quantisticamente si può dire talis pater talis filius e, contemporaneamente, alius pater alius filius.
L’ipotesi di Louise de Broglie contemplò per la prima volta la duplicità della condizione di una particella. È un po’ come chiedersi se l’aereo abbia le zampe. Sì e no. Dipende dal momento. E da chi è incaricato a tirare su e giù il carrello, quando serve. Non le ha mai quando svolazza libero nell’aria (a meno che il pilota non sia un tipo distratto come il sottoscritto). Le famose due fenditure, che Feynman definì “come il solo mistero della teoria quantistica” – beato lui…
“… i quanti (fotoni o elettroni) che impressionano la lastra devono necessariamente passare per una delle due fenditure, ciononostante, e anche se un solo quanto percorre il cammino che lo porta allo schermo, esso sembra saper se l’altra fenditura è aperta oppure no e comportarsi di conseguenza.” A me questa storia non risulta gradita: a volte non so dove ho lasciato il cellulare o le chiavi di casa e invece questo messer messerino sembra sapere tutto. Diciamo che la sua onda è intelligentissima, ma quando è particella esso diventa sciocco come tutti noi.
Heisenberg: “… ipotizzò che le osservabili fisiche dovessero essere associate a matrici complesse i cui autovalori rappresentano i soli esiti possibili (quantizzazione) ottenibili in un processo di misura dell’osservabile considerata.” Ancoira: così è se vi pare, ma solo in riferimento a un singolo dato osservabile. Schrodinger (quel noto fisico di nome Catalina e di cognome Curceanu m’insegnò la pronuncia: Scrudingaa): “gli stati del sistema sono specificati da funzioni” di un certo tipo, “per le quali esiste ed è definito l’integrale esteso a tutto lo spazio del quadrato del modulo della funzione stessa.”
In merito al principio di esclusione di Pauli: Gian Carlo, tu a volte riesci a far diventare assurdamente complesso quel che anni di lettura m’hanno reso quasi banale. Se un elettrone è seduto qui, il suo amico deve cercare un posto distaccato. Se un fotone si agita lì, lì può accodarsi suo fratello, e se vuole può spararti con il laser composto da tutta la sua famiglia. Per capire il perché e il percome consiglio di leggere tutt’intero il tuo libro.
E qui, stravolto da tanta ignoranza (la mia) chiudo il libro, e la sua traduzione e corro verso la più bella invenzione del mondo: il mio adorato lettuccio.
Il ventesimo capito è La violazione della simmetria destra-sinistra. Rammento che, nel testo citato, Lederman osservò che solo la loro pazienza tipicamente orientale aveva permesso ai fisici Tsung Dao Lee e a Chen Ning Yang di verificare che, nel mondo delle interazioni debole, talvolta accadeva “una chiara violazione della parità del decadimento beta del CO”. Non un CO normale ma con un apice targato 60. Pare dunque che la natura differenzi fra destra e sinistra (meno male).
“È importante osservare come questo configuri un’altra caratteristica di simmetria dei sistemi naturali, vale a dire la cosiddetta simmetria per coniugazione di carica.” Proviamo a sostituire ogni particella con la sua antiparticella (trasformazione C): “la simmetria per parità non è una buona simmetria allorché entrano in gioco le simmetrie deboli, e anche in conseguenza del fatto che esperimenti del tipo di quello discusso non risultano invarianti rispetto alla trasformazione C…”
Il fisico russo Lev Landau “propose nel 1957 di investigare se le leggi di natura risultassero invarianti per la combinazione delle due trasformazioni di coniugazione di carica e di parità, vale a dire che valesse l’invarianza per CP.” Alla fine si teorizzò che: “pur essendo violata la conservazione della parità P e, ovviamente, anche quella per C, si ha invarianza per la trasformazione combinata che abbiamo indicato come CP.” Purtroppo non è sempre così: James Cronin e Val Fitch, nel 1964, “studiando i decadimenti di mesoni K neutri, dimostrarono che anche la simmetria CP viene violata in natura.” – beh, capita.
“A questo punto non possiamo tacere che esiste un teorema cruciale delle moderne teorie di campo quantistiche in base al quale qualsiasi teoria di campo relativistica che rispetti alcune irrinunciabili richieste, in particolare l’invarianza per trasformazioni di Lorentz e la località, risulta automaticamente invariante per le trasformazioni CPT, vale a dire la combinazione della parità, della coniugazione di carica e dell’inversione dell’asse temporale. Le implicazioni di questo fatto risultano ovvie…” – ovviamente.
“… si deve ammettere che non si ha invarianza per la trasformazione che abbiamo indicato con T: esiste quindi una direzione privilegiata…” e anche: “l’analisi condotta ci ha insegnato un fatto di grande rilievo culturale.” Speróm, dai! Meditiamo un attimo sulle parole appena trascritte: esiste quindi una direzione privilegiata. Si dice che all’inizio era un’immensa singolarità e poi ci fu un cosiddetto Big Bang, che però non fu una vera esplosione, ma quell’espressione è servita a dare l’idea. Lo spazio andava creandosi sempre di più, a velocità superluminale, senza andare indietro nel tempo perché trattavasi di un quid che non conteneva materia: era spazio puro e incontaminato. Solo dopo lo sarà, contaminato dalla massa dei corpi. La domanda è: lo spazio si espandeva equamente in ogni o ne aveva una o più privilegiate?
Cos’è lo spazio? Semplice: è la distanza che va dall’inizio alla fine della celebre frana dal basso, Cilento (con strada sconnessa perennemente ricoperta di asfalto nuovo e nuovamente scassata poche settimane dopo; percorso inibito alle vetture normali, ma permesso ad autoambulanze e alle forze dell’ordine; una volta ho incrociata una gazzella dei carabinieri e non me la sono sentita di fermarli), che in questi giorni ho attraversato minimo quattro volte o forse anche cinque. Lo spazio è di circa due chilometri ed è analogo a quello che precede e che segue la stessa frana. Il fondo stradale decisamente no. Se tu hai, come il sottoscritto, un’utilitaria gipiellata, la velocità massima che puoi raggiungere sono i 16 km/h; la minore, nell’ormai classico Culmine della Morte, in salita dove dovrai mettere la prima e potrai raggiungere la velocità di 7 km/h (ma in discesa è consigliabile il folle e puoi andare anche ai 12 km/h). La velocità media dell’intero percorso sarà alla fine di 11,37 km/h. Nel caso fortunoso che tu abbia una Ferrari GT (Gran Turismo!) le velocità saranno: come massimo 23 km/h; nel suddetto culmine della morte 9 km/h, in discesa dal quale anche i 18 km/h. La velocità media dell’intero percorso sarà alla fine di 14,51 km/h. Ovvio che dipenderà anche dal pilota, da cui occorre però prescindere in questo esperimento de-mentale.
Quando la luce entra nello spazio non potrà superare i 299.792,458 km/s (e rotti). Io mi gioco la mia già in gran parte pregiudicata reputazione e affermo che non ha senso dire che un fotone emesso da un corpo in movimento mantenga la stessa velocità che ha un suo collega emesso da un corpo immobile (che non esiste): non è un dato errato, ma è più logico affermare che la velocità massima di un corpo in questo spazio è questa. A meno che un erede del fisico Erasmo Recami verifichi la reale esistenza dei tachioni. Mi verrebbe da dire che se ci sono abitano uno spazio/tempo diverso dal nostro. Dimenticavo: nella frana che viene dal basso di Rizzico di Pisciotta la velocità della luce annaspa a 299.792,45234 km/s (senza rotti).
Il ventunesimo capitolo è Cenni sulla rottura di simmetrie. “Consideriamo un recipiente pieno di latte e perfettamente simmetrico per rotazioni attorno all’asse verticale che passa per il centro della sua base. Si suppone che la superficie del latte sia orizzontale. A una certa altezza sopra il vaso, in posizione centrale, viene posto un piccolo tubo che lascia cadere, a intervalli opportuni, una goccia di latte.” Ti chiedi: “Ma cosa accade in pratica?” E ti rispondi: “Quello che tutti sanno benissimo: la superficie del latte si innalza lungo un’appropriata circonferenza ma la sua forma dettagliata, che richiama un corona, è rappresentata da una successione di filamenti che terminano con una gocciolina.” Anche un lettore tardigrado come me non può fare a meno di capire che ogni volta che si lascia cadere il latte i filamenti sono disposti in maniera disuguale, dato il “rilevante numero di elementi che non possiamo né osservare né controllare…” – a me viene da dire il tempo che non sarà mai uguale, né il grado di entropia universale e altre bazzecole del tipo, ed anche “la disposizione dettagliata delle molecole del latte intorno al punto di caduta della goccia”, eccetera. Consideriamo, così per gioco, un sombrero dalla cui sommità caschi una biglia. Non andrà mai a finire nello stesso punto. Che strano!
Meno male che “questo formalismo appare alquanto complicato sul piano formale e risulta difficile anche solo i punti salienti con un linguaggio semplice e in un numero ragionevolmente limitato di pagine.” – Gian Carlo, ti rammento che siamo soltanto a pagina 719, ma che si sta facendo tardi.
Due parole sulla supersimmetria: non sperimentata. “Le trasformazioni supersimmetriche scambiano essenzialmente particelle a spin intero con particelle a spins emi-intero, particelle che, grazie alla simmetria, acquistano la stessa massa. Nei modelli supersimmetrici si ha sempre un partner di spin diverso per ogni particella, ma con la medesima massa. Per esempio, il partner dell’elettrone fu battezzato selettrone, quello dei quark squark e così via.” – io sarei un enigmatico spioli.
“La supersimmetria, con il suo carattere spazio-temporale, è una simmetria ‘troppo bella’ per non darsi in natura.” – mi fa piacere che tu dica che tale affermazione “non ha fondamenti seri”, ma soprattutto che “Dirac, Weyl, Wigner e altri hanno aderito al medesimo punto di vista.” – e qui mi strappi il solito e super inflazionato motto keatsiano A thing of simmetry is a joy for ever.
Il ventiduesimo e ultimo capitolo è La simmetria di scala e i frattali. I frattali, questi fin troppi misconosciuti. “Non esiste una rigorosa definizione di frattale.” Il fatto è significativo. “Considereremo sia processi ricorsivi applicati a figure geometriche sia analoghi processi che portano a immagini astratte, generate dall’applicazione successiva e iterata infinite volte di relazioni specificate da precise regole matematiche.” Però anche qui (a pagina 731) decidi di tenerti stretto e di rimandare allo “splendido testo Chaos and Fractals di Heinz Otto Peitgen, Harmut Jürgens e Dietmar Sauper, che fornisce una trattazione completa e rigorosa del tema di questo capitolo, si configura come un vero e proprio trattato di quasi mille pagine. Il lettore interessato potrà proficuamente fare riferimento a questa importante opera.” – questo è ovvio, come disse Totò allungando il consueto ombrello.
“Nella teoria degli insiemi, una funzione f che mappa un insieme X (dominio di f) sui punti di un insieme Y (codominio) si dice suriettiva quando ogni elemento del codominio è immagine di almeno un elemento del dominio. In tal caso l’immagine del dominio coincide con il codominio.” Cóst l ē pȏc ma sicȗr: questo è poco ma sicuro. E non sono nemmeno certo che sia poco. È notevole che in una tribù si trovi un parente di un elemento dell’altra tribù: è speranza di fratellanza. La derivata del diavolo: “non ammette derivata in nessuno dei punti dell’insieme non numerabile di Cantor che contiene gli estremi degli intervalli aperti che sono stati via via rimossi per generare l’insieme di Cantor.” In altre parole: “rappresenta l’esempio classico di una funzione singolare generata mediante un procedimento ricorsivo.”
Ottima è la rappresentazione “del fiocco di neve o isola di Koch.” – troppo bella per descriverla. Che dire della “gerla di Sierpiński”, se non che chi non la conosce ha perso un pezzo mirabile del creato? In effetti alcune “varianti di alberi pitagorici” risultano un poco hard. Però son belli!
“L’insieme di Julia”: per ogni z, “la sequenza risulta illimitata, vale a dire che gli elementi ‘escono’ da qualsiasi regione limitata del piano”; eppure “resta limitata: esiste un cerchio con centro nell’origine che non viene mai abbandonato dagli elementi della sequenza.” Essa preannuncia “l’insieme di Mandelbrot”, che se non lo conosci puoi dire di aver capito poco o nulla del cosmo dei frattali. Peccato! E qui finisce il tuo incredibile e pressoché unico al mondo libro, caro Gian Carlo. Cosa ne traggo?
L’ho capito quel poco che ho potuto, quel poco che mi servirà per tutta la vita. Il mondo si basa sulla somiglianza. Il mondo si basa sulla differenza. Vi sono due tendenze principali, e una marea di traverse secondarie. L’una rappresenta la fuga, la libertà. L’energia oscura che mai si trasformerà in massa, in materia. L’altra rappresenta la voglio disperata di unione. La gravitazione che ci induce alla singolarità, all’Uno plotiniano. La somiglianza ci permette di nutrire quel minimo di speranza che ci fa sognare. Ma si ha bisogno anche di disperdersi, di andare Altrove. Perché Altrove è anch’esso, parte di quell’Uno. L’indifferente è il padre di due gemelle antagoniste e simmetriche: uguaglianza e diversità.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Gian Carlo Ghirardi, Simmetrie – Nell’arte e nella scienza, Carocci Editore