“Il Grande Quaderno” di Agota Kristof: un noi narrante indifferenziato
Questo è uno di quei libri che quando li leggi non vedi l’ora di terminarli, perché così, speri, smetteranno di procurarti del male. E se poi decidi di scrivere un commento è come se, all’improvviso, ti trovassi in montagna e dovessi decidersi se resistere al nemico o se darti alla macchia. Non ci sono alternative. Oppure sì, potresti tentare di combattere quel che ti opprime e ogni tanto imboscarti per un paio di settimane, in ferie dalla tua angoscia.
“Il Grande Quaderno” è il primo romanzo della Trilogia della città di K. della celebre autrice ungherese Agota Kristof, poi naturalizzata svizzera, che ha scritto sempre in francese, lingua che, pare, non è mai riuscita a padroneggiare bene, tanto che lei stessa si definiva un’analfabeta.
Nulla di grave, la scrittura ha vari aspetti, la sintassi è una dei tanti. Marquez, in Vivere per raccontarla, scriveva che i suoi correttori di bozze impazzivano a rincorrere le sue sgrammaticature, e nonostante questo vinse il Nobel.
“Arriviamo dalla Grande Città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa scatola di cartone, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche.”
Questo è l’incipit, in cui sono indicate le caratteristiche principali della scrittura di questo romanzo che non eguali, per me, nella piccola storia delle mie letture. Non ho detto che ha pochi eguali, ma che non ne ha proprio.
È il primo libro con un noi narrante, indifferenziato, che non vuol dire io e l’altro, ma noi. Noi significa noi due gemelli.
La Grande Città, così pericolosa, ha costretto la mamma dei due protagonisti alla Grande Fuga.
“Nostra Madre ha gli occhi arrossati”, di quel colore che è il più diffuso in tale periodo, che si può solo definire tragico, anche se non condurrà, temo, a una catarsi.
La madre “porta una grossa scatola di cartone, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche.” – il grande vantaggio di avere un gemello.
La grandezza delle valigie indica che ognuno porta con sé il proprio carico di affanni, ma anche di risorse. Quello che importa è che le seconde aiutino a gestire i primi.
La sostanza di cui sono fatte le valigie indica che non sono state comprate in un Outlet, città mercato oggi ricorrente, da Fidenza a Eboli, ma che allora manco si poteva ipotizzare, bensì arrangiate a mano in un qualche modo. Erano tempi così.
Il dizionario paterno sarà significativo per la crescita mentale e culturale dei due ragazzini. Se lo passano ogni tanto, essendo, come tutto il resto, di proprietà comune (come le loro quattro braccia).
La Madre lascia alla Nonna i due pargoletti, che hanno un’età imprecisata. Lo scoprirò solo facendo un balzo assurdo in un Universo Parallelo che coesiste a questo. Sono gemelli e hanno 9 anni circa. uno si chiama Lucas e l’altro, manco a farlo apposta, Claus. Anche questo lo scoprirò nell’altro multiverso.
“Nostra Nonna è la madre di nostra Madre.” – nel libro non sarà mai indicato né un nome, né un cognome. Anche la città e la nazione in cui la gente vive e nemmeno i vecchi oppressori e i nuovi, sono identificati in alcun modo. Il nome è un dono che viene elargito a qualcuno verso cui si prova empatia, e qui esiste solo paura, diffidenza, solitudine. Un esempio: “La chiamiamo Nonna.
La gente la chiama la Strega. Lei ci chiama figli di cagna.”
Alcuni (praticamente tutti quelli che conoscono la storia, interpretandola) credono che la Strega abbia avvelenato il marito, il padre della Madre, il cosiddetto Nonno. Ora capisco la battuta che ha detto la Madre, accusata dalla Nonna di averla lasciata sola per dieci anni. “Sapete bene perché. A mio padre volevo bene, io.”
Ed è anche spiegato perché i due la Nonna li chiama in quel modo offensivo. La cagna era la figlia.
I due sono ancora dei rametti verdi, ma tosti, quasi indistruttibili. Vivono e lottano per esserlo.
“Siamo nudi. Ci colpiamo l’un l’altro con la cintura. Diciamo a ogni colpo: – Non fa male.
Nel giro di poco tempo non sentiamo effettivamente più nulla. È qualcun altro che ha male, è qualcuno altro che si brucia, che si taglia, che soffre.”
Non amano gli strilli, per lo più orrendi, della Nonna, e le dicono: “Smettetela di gridare, Nonna, picchiate invece!”
Sono dei militi della sofferenza: “Guardate, porgiamo l’altra guancia, com’è scritto nella Bibbia. Colpite anche l’altra guancia, Nonna.” Se esiste un libro di cui la Nonna non sa che farsene, è la Bibbia. Detto inter nos, è analfabeta.
I due consanguinei si sparano epiteti tipo “Stronzo! Buco di culo!”, oppure “Vaffanculo! Bastardo!” e continuano “così finché le parole non entrano più nel nostro cervello, non entrano nemmeno nelle nostre orecchie.”
Poi vanno in strada a provocare gli ignari passanti e in tal modo, facendoli mal rispondere, “constatiamo che finalmente riusciamo a restare indifferenti.”
Diversificano l’allenamento, dicendosi fesserie affettuose, del tipo: “Tesori miei! Amori miei! Vi voglio bene… No vi lascerò mai… Non vorrò bene che a voi… Sempre… Siete tutta la mia vita…”
Frasi sconnesse le cui “parole a poco a poco perdono il loro significato e il dolore che portano si attenua.” In effetti, un buffetto sulla guancia, quando questa sanguina, fa molto male.
Il Padre non sopportava quest’unità di intenti, come se fosse un unico Essere a ragionare e a compiere i propri atti. Li fece quindi separare, facendoli mettere in classi diverse. Quando entrambi, per la conseguente asfissia, svennero, la Madre disse loro: “Da domani sarete nella stessa classe.” Il Padre li definì “Simulatori!”
La Nonna li riprende perché parlano “troppo correttamente” e dicono frasi non tipiche della loro età, tipo: “disposti a effettuare”. No, non va bene, ma loro sono imperterriti a perseguire il loro fine, che è la sopravvivenza intesa unicamente a modo loro.
Scrivono temi e se li correggono a vicenda, mettendo “in fondo alla pagina” il giudizio: “Bene o Non Bene. Se è Non Bene gettiamo il tema nel fuoco e cerchiamo di trattare lo stesso argomento nella lezione seguente. Se è Bene, possiamo ricopiare il tema nel Grande Quaderno.”
Si noti l’inevitabile verbo alla prima persona plurale: gettiamo.
“Per decidere se è Bene o Non Bene, abbiamo una regola molto semplice: il tema deve essere vero. Dobbiamo descrivere ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che facciamo.”
Terribile. Gioco anch’io (anche se per loro è in Gioco la Vita, per me pure, ma con meno urgenza). Mi illumino di immenso. Vero? Mah! Tra un fiore colto e l’altro sognato l’inesprimibile nulla. Non credo proprio. A thing f beauty is a joy for ever. Uhm! Penso che ci passerei tutta la vita a pensarci. Loro tutto questo tempo non l’hanno.
Sono un po’ integralisti: “Noi mangiamo molte noci.”: bene. “Amiamo le noci”, Non Bene, “perché il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e di obiettività.” – che è il suo bello però!
I due non inseguono la Bellezza, ma la sua negazione: uno stoicismo che più atarassico non si può. Come si suol dire in questi casi: O tempora o mores!
Stavo pensando a una loro affermazione: “Noi non giochiamo mai.” – che è una frase ambigua, direi un Non Bene, in quanto anche Gioco è un termine come Bellezza: manca di una regola unica.
A chi chiede loro di mantenere un segreto, e di non dirlo nemmeno alla mamma, rispondono: “… noi non diciamo mai niente a nessuno e non abbiamo una madre.”
Il vero va tradotto, in mancanza d’altro, con una finzione, e qui si vuol dire che noi non diciamo mai nulla che non ci serva e non abbiamo, né l’avremo per molto tempo, una madre a cui dire qualcosa.
Quando quel tale (che è un disertore) si mette a piangere, loro gli dicono: “Sa che piangere non serve a niente? Noi non piangiamo mai. Eppure non siamo ancora uomini fatti come lei.”
Altri allenamenti necessari: “Oggi e domani non mangeremo. Berremo solo acqua.” La Nonna, la Strega, non può rispondere se non con un “Me ne frego. Ma lavorerete come al solito.” Al che loro replicano con un saggissimo: “Naturalmente, Nonna.”
Finora non ho ancora colto un punto esclamativo connesso ai loro discorsi. Loro infatti non esclamano, parlano. Sanno esigere la loro mercede (in natura), quando dicono alla Strega: “Mangeremo un pollo tutte le domeniche, che voi lo vogliate o no.”
Sono diventati dei killer a disposizione, per cui le dicono: “Quando ci sarà qualcosa da uccidere, vogliamo essere chiamati. Lo faremo noi.”
Per esercitare cominciano a troncare la vita a pesci, galline, conigli, anatre, rane, farfalle (anch’io lo feci, con vari lepidotteri e anche con cetonie dorate): “Un giorno impicchiamo a un ramo il nostro gatto, un maschio fulvo. Impiccato, il gatto si allunga, diventa enorme. Quando non si muove più, lo stacchiamo. Resta disteso sull’erba, immobile, poi bruscamente si alza e fugge.” Resta ovvio che il felino non si farà mai più vedere in quel temibile cortile.
Il calzolaio vuole regalare loro degli stivali, ma gli dicono che non amano i regali, “perché non ci piace dire grazie.” Lui insiste e loro cambiano idea e nel salutarlo gli dicono: “Arrivederci, signore, e grazie, grazie tante.”
Talvolta usano il ricatto, ma solo se non possono evitarlo. Al curato, che non vuole soddisfare le loro richieste economiche, dicono: “Domani suoneremo fino a che non ci lascerà entrare. Batteremo alle finestre, daremo dei calci alla porta e racconteremo a tutti quello che faceva a Labbro-leporino.” Si tratta di un’estorsione a fin di bene. A Labbro-leporino servono dei soldi per mantenere sé e la madre. La quale Labbro-leporino è una ragazzina a cui quel religioso usava chiedere di mostrarle la figa (“E delle volte ci metteva il dito dentro. E dopo mi dava dei soldi perché non dicessi niente a nessuno. Ditegli che Labbro-leporino e sua madre hanno bisogno di soldi.”).
Il curato dà loro ampia soddisfazione, e dice: “Ma non pensate che lo faccia per cedere al vostro ricatto, lo faccio per carità.” Ci credo, curato mio. Come credo al tuo Signore.
Quando, puntuali come il fisco, ritornano, il curato gli chiede: “Come? Avete letto tutta la Sacra Bibbia?” E loro rispondono: “Sì, signore. Ne conosciamo a memoria molti passi.”
A una successiva domanda: “Allora conoscete i Dieci Comandamenti. Li rispettate?”, loro rispondono con una logica ferrea: “No, signore, non li rispettiamo. Nessuno li rispetta. È scritto: ‘Non uccidere’, e tutti uccidono.”
Però, educati sono educati. Intelligenti pure. Non manca loro che un pizzico di anima. O, se ce l’hanno, l’hanno allocata altrove.
“Che genere di libri vi piacerebbe leggere?” Rispondono: “Dei libri di storia e dei libri di geografia. Dei libri che raccontino cose vere, non cose inventate.”
Non Finzioni di Borges, né Dissipatio H.G. di Morselli, né altri 124.872,4 opere letterarie, pertanto.
L’ufficiale (nemico o amico?, domanda idiota in questi frangenti) apprezza quelli che egli, erroneamente, interpreta come atti masochistici, il loro “picchiare uno altro con cintura”. Glielo spiega in realtà l’attendente che traduce la lingua del suo superiore).
Loro tentano di spiegargli il perché lo facciano: “Noi vogliamo soltanto vincere il dolore, il caldo, il freddo, la fame, tutto quello che fa male.”
Quello strambo degenerato non può capire e chiede loro di frustarlo sulla schiena che “si stria di righe rosse”.
Tutto diventa di quel colore: “il corpo, i capelli, i vestiti dell’ufficiale, le lenzuola, il tappeto, le nostre mani, le nostre braccia sono rossi). Poi chiederà loro di non orinare in cortile, ma “su di me. Non abbiate paura. Pisciate! Sulla mia faccia.” Lo fanno, per gentilezza.
L’ufficiale e il suo amico sono a volte come cani e gatti, e l’amico chiede all’altro di sparargli, se ha coraggio. La situazione sembra precipitare quando, con esagerata passione, l’ufficiale ricorda un ragazzo morto a diciannove anni e poi si scioglie nella sua emozione. E l’amico, geloso, lo chiama “Farabutto!”
I due prendono atto del suo problema e si offrono: “La uccidiamo noi se lo desidera veramente. Ci dia la sua pistola.” – e lui li chiama “Piccoli bastardi!”
I due imparano alcune canzoni e a suonare (anzi, uno canta e uno suona l’armonica: chi dei due è il musicista lo scoprirò poi in quel multiverso; per esclusione l’altro è il cantante) e iniziano ad andare nelle osterie, ricche di ogni sorta di mutilati, reduci, disgraziati. Dopo l’ultima canzone e dopo che qualcuno ha detto una banalità del tipo Bene (Vera): “Nessuno ha voluto questa guerra. Nessuno, nessuno.”, le due particelle simmetriche escono.
“La luna rischiara le strade e la viuzza polverosa che porta alla casa di Nonna.”
Il curato pensa sempre alle loro anime e li invita a pregare insieme a lui. La loro risposta lo spiazza (ma ormai c’è abituato): “Non preghiamo mai, lo sa bene. Vogliamo capire.”
E dicono una verità che inquieta la sua coscienza: “Noi non dimentichiamo mai niente.”
Raccolgo una frase a pagina 87: “Il frutto non cade mai lontano dal suo albero.” – che mi ricorda un detto delle mie parti: da un pòm an pol mia nàser un pîr, per cui ognuno deve assomigliare alla pianta madre, ma io so che ‘sto fatto non è mai del tutto vero. Però i due detti sono analoghi e mi spingono a credere che la storia che sto leggendo è anche mia, perché da noi, ottant’anni fa, la situazione era pressoché analoga. Chi ha detto quella frase vuole che i due ragazzini confessino una colpa che non hanno commesso e ricorre poi alla violenza, pigliandoli “a calci nelle costole, nelle reni, nello stomaco”. Alla fine “Non riusciamo più ad aprire gli occhi. Non sentiamo più niente. Il nostro corpo è inondato di sudore, sangue, orina, escrementi. Perdiamo conoscenza.”
Qualcuno ha compiuto un attentato di cui è rimasta vittima la fantesca del curato: “Stamattina, mentre accendeva il fuoco come al solito, la stufa della cucina è esplosa. l’ha presa in piena faccia. è all’ospedale.” La poveretta è sfigurata per sempre. In prima battuta avevo scritto trasfigurata, ma poi ho corretto.
Da quell’inchiesta maledetta i due escono a testa alta, presunti innocenti. D’altronde due così super allenati sono destinati a superare qualsiasi avversità. Si spera almeno.
A chi chiede loro: Che cosa fate lì, coricati per terra, senza muovervi per delle ore?, loro non rispondono: “Continuiamo il nostro esercizio di immobilità anche quando ci lancia dei frutti marci.” Alla domanda successiva: “Perché oggi non mangiate niente?”, stavolta la risposta non si fa attendere: “Oggi è il giorno dell’esercizio del digiuno.”
I due gemellini chiedono al curato che fine ha fatto la fantesca. Questi risponde loro: “Si è arruolata, è andata al fronte a curare i feriti. È morta.” – chiede poi loro se intendono confessarsi.
A colui che s’illude di convincerli delle loro colpe, loro replicano, semplicemente: “Non ci pentiamo di niente. Non abbiamo niente di cui pentirci.”
Una visione li coglie di sorpresa (non si può essere preparati a tutto), per cui: “Vomitiamo. Usciamo dal campo di corsa. Torniamo a casa. Nonna ci chiama per andare a mangiare, ma noi vomitiamo ancora.”
A una Nonna stranamente preoccupata che li accusa di aver “mangiato di nuovo qualche schifezza”, loro mentono (non Bene, ma Necessario): “Sì, delle mele acerbe.”
Mi sento dire che sia il Necessario a far scaturire dal Nulla la finzione letteraria.
Prestano le loro cure alla madre di Labbro-leporino, che desidera morire: “Le tagliamo la gola con un colpo di rasoio, poi andiamo a prendere della benzina da un automezzo dell’esercito. Innaffiamo di benzina i due corpi e i muri della catapecchia. Appicchiamo il fuoco e andiamo a casa.”
Il secondo corpo era di Labbro-leporino che ha fatto, dal suo punto di vista, la miglior morte, non per mano, ma per ben altro degli stranieri. “Sì. È stata lei a chiamarli. È uscita in strada e ha fatto loro segno di venire. Erano dodici o quindici. E intanto che le montavano addosso non smetteva di gridare: ‘Come sono contenta, come sono contenta! Venite tutti, venite, ancora uno, ancora un altro.’ È morta felice, scopata a morte. Ma io, io non sono morta! Sono rimasta coricata qui senza mangiare, senza bere, non so da quanto tempo. E la morte non arriva. Quando la si chiama non viene mai. Si diverte a torturarci. La chiamo ormai da anni e lei mi ignora.”
Tu, che mi stai leggendo, cosa avresti fatto se fossi stato al posto di quelle due benefiche creature?
Le quali amano molto le lingue e si fanno insegnare dalla Nonna la lingua che usa quando è ubriaca, che è la sua lingua madre, e che è anche quella dei prossimi invasori.
A quella povera Strega viene un attacco di apoplessia, a cui si riprenderà a fatica, e nel frattempo i due ragazzini la smerdano, l’accudiscono, l’imboccano. Quando sta meglio fa loro promettere che, in caso di un secondo attacco, loro dovranno guarirla definitivamente, più o meno come hanno fatto con la madre di Labbro-leporino. Patto mantenuto.
Ogni promessa, di vita o di morte poco cambia, è un debito (così mi diceva Suor Bice quando andavo all’asilo).
Prima che morisse Nonna, era tornata Madre che li voleva portare via con sé (e con una sorellina), ani, li pretendeva. Nonna è contraria, loro pure. Lei insiste. Prima che si decida il da farsi, lei scoppia, non di gioia, ma a causa di una granata.
“Quando arriva nostro Padre stiamo lavorando tutti e tre in cucina, perché fuori piove.”
Chiede della moglie alla Nonna, che “sogghigna: – Toh! aveva davvero un marito!”
La Nonna dice all’uomo dove deve scavare. Quando la trova chiede: “Cos’è questo, questa cosa su di lei?” – non aveva riconosciuta la neonata, ovviamente.
“Padre non risponde. Guarda gli scheletri. Il suo viso è madido di sudore, di lacrime e di pioggia…”
I due ragazzi hanno un’idea: “… per mesi, levighiamo, verniciamo il cranio e le ossa di nostra Madre e del neonato, poi ricostruiamo pazientemente gli scheletri attaccando le ossa tra di loro con dei sottilissimi fili di ferro. Quando il nostro lavoro è terminato, appendiamo lo scheletro di nostra Madre a una trave della soffitta e attacchiamo quello del neonato al suo collo.” – similmente i devoti si occupano della conservazione delle spoglie di un santo.
Vari anni dopo, “una sera arriva Padre”, che chiede della Nonna (“È morta”).
La novità è che, anche a rischio della vita, egli vuol passare la frontiera. Loro lo assecondano e gli danno i consigli opportuni, offrendosi di accompagnarlo in quell’impresa temeraria. Ora è lui il figlio che impara dai suoi due piccoli genitori.
“Prepariamo quattro assi. Dissotterriamo il tesoro di Nonna: monete d’oro e d’argento, molti gioielli. Ne mettiamo la maggior parte in un sacco di tela. Prendiamo anche una bomba a testa, nel caso fossimo sorpresi da una pattuglia. Uccidendoli possiamo guadagnare tempo.”
Hanno un piano in testa, che rivelano parzialmente al Padre, il quale “avanza, posa una delle assi contro la barriera, sale.” Poi, “c’è un’esplosione.”
Le due particelle corrono “fino al reticolato con le altre due assi e il sacco di tela.” Intanto “Nostro Padre è coricato vicino alla seconda barriera.” Lo ammettono: “Sì, c’è un solo modo per attraversare la frontiera: consiste nel far passare qualcuno davanti a sé”.
Uno si reca altrove, libero, si fa per dire, mentre la particella a lui simmetrica (antagonista?), diciamo la sua metà virtuale, diventata anche lei reale e ripiomba nel Buco Nero, “a casa della Nonna.”
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Agota Kristof, Trilogia della città di K., Einaudi
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