“La terza menzogna” di Agota Kristof: finzione o illusione?

Borges parlava (e scriveva) di Finzioni. Quando si legge un libro (poco) importa sapere se si tratti di vita vera oppure inventata. Ed è un gioco immaginare assurdità, che per esempio De Amicis fosse un alunno della classe di ragazzini in cui si sviluppano le varie storie. Che fosse Garrone, Franti o Derossi se non addirittura l’io narrante Bottini è tutt’altro discorso.

Trilogia della città di K. di Agota Kristof
Trilogia della città di K. di Agota Kristof

Anni fa lessi la Saga di Harry Potter e la cosa che più mi meravigliò è l’idea dell’horcrux che Tom Orvosan Riddle, in arte Voldemort, seppe distribuire nei luoghi più impensabili: si trattava di porzioni della sua anima, che quindi non solo non risultò immortale, ma addirittura frazionabile in fette, come una torta.

Jack London è sicuramente Martin Eden, ma anche il pizzicagnolo sotto casa di questi (la butto lì, non ricordo merciai di alcun tipo in quel romanzo). Ogni scrittore tratta della propria anima, dissimulandola in tanti travestimenti (Pirandello le chiamava Maschere nude) che gli permettono di dire alla fine: questa è la storia di un tale che non è mai esistito, prima che io lo creassi, perché in fondo io sono un dio, d’altronde chi non lo è.

A volte ho la sensazione di essere anch’io un dio, sia pure marginale e residuale, ma pur sempre un nume, anche se al momento tratto principalmente delle storie altrui, infilandoci di tanto in tanto alcuni horcrux della mia.

1 + 1 = 2; 1 + 1 – 2 = 0

Zero è il risultato finale della trilogia di Agota Kristof. Avviso ai naviganti (voi): non sono riuscito a scrivere le mie reazioni in itinere, mentre sto leggendo i tre libri, ma solo dopo essere giunto, esausto, alla fine della lettura di ognuno di loro.

Ho quindi ingurgitato un veleno (simile a quello che in Il grande quaderno si dice che Nonna ha somministrato a Nonno), che funzionava come vaccino (speriamo), preparandomi di volta in volta, una tisana al sapore di ortiche, un caffè corretto con alcool puro a 90 gradi e una spremuta di limoni amalfitani acerbi. L’esofago e lo stomaco ne hanno avuto giovamento, la trachea no, per un giorno o due, ma poi il malessere è lentamente svanito.

Quale sarà La terza menzogna, o finzione che sia? Ogni tanto vado su Google per osservare il viso dell’autrice. Aveva un viso bello a modo suo, fine e intelligente, ma non sono riuscito a trovare una foto in cui sorridesse. Continuerò a cercare.

Il protagonista, mi va di chiamarlo così, è “in prigione nella piccola città della mia infanzia”, che “non è una vera prigione, è una cella nell’edificio della polizia locale, un edificio che è una casa come le altre della città, una casa a un solo piano.”

È in attesa di essere estradato al suo paese, qualunque esso sia: “Io non sono un delinquente. Sono qui soltanto perché i miei documenti non sono in regola, il mio visto è scaduto. Ho anche fatto dei debiti.

Chi va a trovarlo è la nuova libraia, a cui deve alcuni affitti non ancora pagati, ma che gli vuole bene lo stesso. Lei gli chiede: “Lei continua a parlare di rimborsi. Vorrei che parlasse d’altro. Tanto per cominciare, che cosa scrive?

Lui, poco garbatamente, risponde chequello che scrivo non ha importanza.”

Lei insiste:Quello che mi interessa sapere è se scrive delle cose vere o delle cose inventate.”

La sua risposta fa meditare sul concetto di finzione: “… cerco di scrivere delle storie vere, ma, a un certo punto, la storia diventa insopportabile proprio per la sua verità e allora sono costretto a cambiarla. Le dico che cerco di raccontare la mia storia, ma che non ci riesco, non ne ho il coraggio, mi fa troppo male. Allora abbellisco tutto e descrivo le cose non come sono accadute, ma come avrei voluto che accadessero.”

Questa è sola la prima lezione gratis, le altre si pagheranno. Eccole:

Dice lei: “Sì. Certe vite sono più tristi del più triste dei libri.

Dice lui: “Proprio così. Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita.”

Dissento: dipende dal libro e dalla vita di chi l’ha scritto, e di quella di chi lo legge.

Da piccolo era internato in un lager, che dico, in una struttura di riabilitazione, a causa di uno colpo di pistola che navigando a caso ha pensato bene di approdare sulla sua colonna vertebrale, rendendolo immobilizzato per vario tempo e poi solo un po’ invalido (Mathias, coprotagonista di La prova, potrebbe intuirne il disagio).

Poi una bomba cade sul centro e quei fantolini vengono distribuiti presso dei volontari che possono tenerli. Lui capita “da una vecchia contadina che più tardi ho imparato a chiamare ‘Nonna’. Lei mi chiamava ‘figlio di cagna’.”

Aspetta, vado a bere un goccio di qualcosa, va bene anche l’acqua. E sette acini di uva verdina. Odio essere impreciso, in questi casi.

“Il mio migliore amico, Peter, che quand’ero giovane era stato il mio tutore, è morto d’infarto due anni fa. Sua moglie, Clara, che fu la mia mante iniziatrice, si è data la morte da un bel pezzo, perché non sopportava l’avvicinarsi della vecchiaia.” Ah, Peter, ah, Clara…

Clara, come diceva in La prova lo stesso Lucas, assomigliava alla sua mamma, Clara però dissentiva. I suoi capelli erano bianchi a causa di un trauma tragico.

Alla stazione un ragazzo si offre di portare la sua valigia. E lui gli dice: “Ho fatto questo lavoro prima di te”, in quel medesimo luogo, “… quando avevo la tua età.”, esattamente: “molto tempo fa”.

Faceva di tutto, in quell’infanzia problematica, e “per guadagnare un po’ più di denaro, ogni volta che potevo andavo alla stazione ad aspettare i viaggiatori. Portavo le valigie.”

E divenne scrittore: “… ho potuto comprare dei fogli di carta, una matita, una gomma, e un grande quaderno in cui annotavo le mie prime menzogne.”

L’eredità della nonna esiste anche in questo multiverso: “è sotterrata sotto la panca davanti a casa in un sacco di tela che contiene dei gioielli, delle monete d’oro e d’argento. Se cercassi di vendere questa roba, mi accuserebbero di furto.

Anche in questo cosmo esiste un volontario fuggitivo, che gli apre la strada: “L’uomo cammina davanti, non ha scampo. In prossimità della seconda barriera, salta una mina e l’uomo con lei. Quanto a me, cammino dietro di lui, non rischio niente.” – se non dover riscriverne la storia varie volte.

In sogno gli appare suo fratello, che gli dice, ridendo: “… Lo sai che sono soltanto un sogno. Bisogna rassegnarsi. Non c’è niente, da nessuna parte.”

Quando fu (qui i tempi vanno e tornano) quasi senza soldi, “mi compro un’armonica a bocca e vado a suonare nelle osterie come quand’ero bambino. I clienti mi offrono da bere. Per mangiare, mi accontento della minestra di verdure della libraia. In settembre e in ottobre non posso nemmeno più pagare l’affitto. La libraia non me lo chiede, continua a fare pulizia, a lavarmi la biancheria, a portarmi la minestra.” – una mogliettina devota, senza le controindicazioni del caso.

“Dal mio arrivo, malgrado l’esagerato consumo di alcol e di tabacco, i miei dolori non sono ricomparsi.” – forse grazie a quelli.

“È una menzogna. Lo so benissimo che in questa città, da Nonna, ero già solo, e anche allora me lo immaginavo soltanto che fossimo in due, io e mio fratello, per sopportare l’insopportabile solitudine.”

Un tipo cerca di fargli aprire gli occhi (ma è mezzo cieco anche lui): “No, penso che lei confonda la realtà con la letteratura. La sua letteratura. Penso anche che debba tornare nel suo paese, riflettere un po’ e poi ritornare. Definitivamente magari. Lo auguro a lei, e a me.”

È il suo secondino a parlare, fa’ tu. È anche colui che sta cercando di imparare a giocare a scacchi grazie alla maggior esperienza del suo tutor-recluso.

A complicare il discorso è che lui chiede al secondino di chiamare un eventuale suo figlio come suo fratello, Lucas. E io che ero quasi certo che lui non fosse Claus.

Nei documenti c’è scritto Claus, non Lucas, e si dice che ha 18 anni e che l’uomo con cui ha tentato la missione impossibile di espatriare fosse suo padre. “Tre menzogne”, scrive chi può farlo. Io posso solo riportarlo.

Una verità c’è, però: è apolide. Si tenga presente che anch’io lo sto diventando, leggendo il libro. E che Agota ha passato la vita a chiedersi: A che tribù appartengo?

Il suo diario, dice, è fatto di “menzogne”, cioè di “cose inventate. Delle cose che non sono vere, ma che potrebbero esserlo.” – ogni letteratura ha un fine ottativo.

Scopre che esiste un certo “Klaus T., con la K” che “ha fama di misantropo. Non lo si vede mai in pubblico e non si sa niente della sua vita privata.” – un poeta vero, di quelli che, tra l’altro, pubblicano a ripetizione.

Suona il campanello e si fa ricevere da una famiglia che non semplifica la mia cognizione anagrafica dei personaggi: lui dice di chiamarsi “Lucas. Sono vostro figlio, Lucas”.

Li chiama papà e mamma. La mamma dice: “Klaus non se n’è andato, lui.”. Il papà dice “Ti abbiamo cercato per anni.”; la mamma dice: “E poi ti abbiamo dimenticato. Non saresti dovuto tornare. Disturbi tutti quanti. Abbiamo una vita tranquilla, non vogliamo essere disturbati.”

Lui chiede dov’è Klaus (con la k), al che la mamma dice: “È in camera sua. Come al solito. Dorme. Non bisogna svegliarlo. Ha solo quattro anni, ha bisogno di dormire.”

Papà lo caccia fuori. Prima però va a vedere il bimbetto. Lei s’incavola come una mamma: “L’hai svegliato, razza d’idiota. Sparisci!”

Per fortuna che con questa scena demenziale finisce la prima parte.

La seconda non si preannuncia migliore.

Luca chiama al telefono Klaus, il coetaneo. Che sa che quel consanguineo è una tassa che non finirà mai da pagare. Non si sa a chi. La chiamano vita, immaginiamoci la morte cosa sia.

Klaus sa che Lucas è Lucas. Teme che la mamma, che abita con lui, lo veda e riconosca, o che la veda lui. Chissà.

Lui firma i suoi poemi Klaus-Lucas. T. Lui sale. Lui l’aspetta.

“Accendo la luce della veranda, mi rimetto nella mia poltrona, mio fratello entra. È magro e pallido, avanza verso di me zoppicando con una cartella sottobraccio. Mi vengono le lacrime agli occhi, mi alzo, gli tendo la mano.” – e gli dice: “Sia il benvenuto”.

Agota Kristof
Agota Kristof

Lui dà del lei a lui, lui dà del tu a lui.

Lui fugge e lui lo insegue, coi ricordi.

Lui nega e lui insiste.

Lui dice che ha sempre vissuto solo e non sa perché, forse “perché nessuno mi ha insegnato ad amare.”

Lui si finge sposato, con una nidiata di nipotini, che però ora abitano altrove. Ora abita con la suocera che sta poco bene e che non bisogna disturbare. A volte lei lo chiama figlio perché… e inventa una balla.

Lui gli dice: “Reciti la tua parte fino in fondo, Klaus. Se avessi saputo che avevi il cuore così duro, non avrei mai cercato di incontrarti. Rimpiango sinceramente di essere venuto.”

Al che lui, rimasto, come normalmente gli capita, solo, “entro in casa, vado in bagno, mi lavo la ferita, la disinfetto, ci metto un cerotto, poi torno nello studio per leggere il manoscritto di mio fratello.”

Klaus ricostruisce quel fatto antico, che produsse quella “cosa”, che non si sa come meglio definire, che eliminò una vita e ne distrusse varie altre, a Luca, a Klaus, alla loro madre, all’amante del loro padre. Non solo a questi, ma un po’ a tutti.

Da allora Lucas, reso storpio, fu ricoverato e finì poi da quella che lo chiamava figlio di cagna. Klaus un po’ visse con l’amante del padre e con Sarah, la di lei figlia, sorellastra

La mamma, assassina volontaria, perse il senno e fu a sua volta internata.

Klaus poi decise di tornare dalla madre, qualsiasi fosse il costo di questa sua assurda scelta. E fu la sua condanna a vita.

“Certe volte un bambino, lo direi più piccolo di me, un bambino claudicante attraversa la piazza. Suona un motivo con l’armonica, entra in un’osteria, esce, entra in un’altra.”

Il piccolo Klaus scorgeva se stesso senza però riconoscersi.

“Mamma non ci pensa a prepararmi un pasto per la notte, non pensa neanche a ordinare del carbone per l’inverno. Non pensa a niente. Salvo Lucas.”

Klaus lavora di notte come tipografo e lei pensa all’Altro che è Altrove.

Klaus ama Sarah. Sarah ama Klaus. Un amore così assoluto che, quando si incontrano di nuovo, lei gli dice: “Hai dimenticato quanto ci amavamo? Io non ti ho dimenticato, Klaus.”

Lui le risponde a tono: “Nemmeno io. Ma non serve a niente rivederci. Non lo hai ancora capito?”

Lei gli dice che. ora che ha capito, se ne andrà per sempre.

Lui la notte parla al fratello che non c’è e gli dice che “se è morto, beato lui, e che vorrei essere al suo posto. Gli dico che la parte migliore è toccata e che sono io a dover leggere il fardello più pesante. Gli dico che la vita è di un’utilità totale, è non-senso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l’immaginazione.” Amen.

La mamma accusa chiunque della sorte che ha colpito la sua famiglia, il marito, la sua amante. E si dimentica di giudicare se stessa. Al figlio che è con lei e che la accudisce, non fa che dire quanto grande era l’altro che non c’è. Che è sparito.

Da testimone esterno che non sa fare gli affari propri, io dico che tu Klaus abbia fatto un errore infinito a non riconoscere il consanguineo, che radicato nella tua storia, e a dirgli: “… Si guardi e guardi me. C’è tra noi la minima rassomiglianza fisica? Io e Lucas eravamo dei veri gemelli, ci assomigliavamo perfettamente. Lei invece ha questa faccia e trenta chili meno di me.”

Lui ti ha spiegato:Dimentichi la mia malattia, la mia infermità. È un miracolo che abbia imparato nuovamente a camminare.”

Appena vi siete visti lui ti aveva consegnato il suo quaderno e ti aveva detto: “Ecco il mio manoscritto. È incompiuto. Non avrò il tempo di finirlo. Te lo lascio. Lo devi finire.”

In questo almeno gli darai soddisfazione, anche se lui non lo saprà mai.

Un funzionario dell’ambasciata ti riferisce che il tuo sedicente consanguineo ha scelto una scorciatoia esistenziale, di quelle che ti permettono di volare, d’incanto, dall’Altra Parte, col solo biglietto di andata.

Gli dai “l’autorizzazione a seppellirlo vicino ai suoi genitori.”

Il motivo è chiaro: “Sì. Accanto a mio padre. È l’unico morto della mia famiglia.”

Alla fine ti balena una speranza: “… presto saremo di nuovo tutti e quattro insieme. Morta Mamma, non mi rimarrà nessuna ragione per continuare. Il treno è una buona idea.”

Al momento però non prenotare per me. Tengo impegni urgenti presso Questa Provvisoria Parte!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Agota Kristof, Trilogia della città di K., Einaudi 

 

Info

Leggi la recensione de “Il grande quaderno”

Leggi la recensione de “La prova”

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *