“In una stella” di Puk Qvortrup: la Morte è un abito che si porta leggero
La vita scorre normalmente, poi accade qualcosa di estremamente naturale: due parole che insieme il lutto sempre adduce. Lo stesso può capitare durante la lettura di un libro.
La morte, quando è descritta con le parole, pare quasi uno scherzo. Se si torna indietro nelle pagine di un romanzo, si assiste alla resurrezione del personaggio deceduto. Capitò una volta a un mio amico carissimo, il principe Andrej Bolkonskij. Che da allora vive dentro di me.
L’autrice descrive con perizia incredibile le sensazioni e i pensieri che le vennero negli ultimi giorni di vita di Lasse, il marito che stava morendo d’infarto, mentre lei era al settimo mese di gravidanza.
Lasse, poco più che ventenne, magro, in assenza di patologie conosciute, stava correndo una mezza maratona, quando all’improvviso s’accasciò, non perché lasso, stanco (gioco di parole di cui mi dovrei vergognare), ma perché quasi morto (poi senza quasi).
Alcune affermazioni di Puk Qvortrup mi colpiscono per la loro crudezza priva di ipocrisia.
So cosa significa avere una persona cara ricoverata nel reparto di rianimazione, e cosa si prova a tenere stretto una mano che è priva di volontà e di energia. In quei tempi tutto mi pareva sfuocato, come se anch’io fossi in coma.
“Con un filo di voce gli sussurrai che ero lì, adesso, e il resto delle parole mi rimase bloccato in gola.” – passo che ho sottolineato perché mi ha fatto ricordare la mia esperienza di familiare in pena. Ma che non m’ha indotto finora a scrivere una reazione.
“Tutto questo poteva diventare la storia con cui avrei parlato con Lasse tante e tante volte, cercavo d’immaginarmi che cosa avrebbe detto quando si fosse svegliato”. – anche questo è per me un deja vu che mi fa soltanto sottolineare ancora le righe.
Lo stesso vale per la descrizione di quel viso anormalmente gonfio, come lo era quello della mia consanguinea: mi emoziona, ma non mi provoca la scrittura. Qualcosa viene memorizzato, ma ancora manca la miccia detonante.
Di questa scrittrice amo la scrittura semplice e figurativa, quando ad esempio narra che quando deve alzarsi dalla seggiola per andare a trovare il consorte, il suo corpo “pesava mille chili”.
Mi commuove anche quando si rapporta con un Dio a cui abitualmente non pensa, chiedendogli una grazia che pare talmente piccola che non può non essere esaudita.
E quando descrive il suo orrore nel vedere “il pene tirato a destra da un catetere” e aggiunge una frase assurda: “Non doveva star lì a guardare il pisello di mio marito!” – il rimprovero è mirato al medico che si è appropriato di una parte importante della sua vita. È una sciocchezza che dà l’idea della tragedia che si sta compiendo. Un uomo giovane, sportivo, corridore podistico, è ormai ridotto a un materiale organico privo di coscienza e, si teme, anche di quell’anima che è racchiusa nel suo corpo.
La cosa mi emoziona sempre di più, ma ancora non mi fa scrivere un rigo.
L’io narrante, Puk Qvortrup, descrive la reazione di Elmer, il figlioletto di due anni alla notizia che il suo papà “sta su una stella, e ci guarda da lì.”
Elmer prende il tutto molto naturalmente e dice “Bocca di mamma piange. Elmmer cciuga.”
È terribile immaginar il bimbetto, mentre “si mise concentrato ad asciugarmi la bocca, le guance e gli occhi.”
Ho già riempito una paginetta e ho ancora il coraggio di affermare che il romanzo non mi ha ancora causato la scrittura. Il miracolo (perché è così che lo definisce Mircea Eliade) accade solo a pagina 62, a un terzo circa della lettura, quando Puk pensa alle emozioni negative che potrebbe trasmettere al nascituro: “… fui presa dal panico al pensiero di cosa gli avrebbe fatto”.
È un sacro panico in cui il lettore, ormai desto, s’innesta nella narrazione.
Intanto, come se non bastasse la disgrazia appena patita, Puk pensa alla profezia Maya che prevede la fine del mondo undici giorni dopo la data presunta del parto. Inoltre, la mamma le pare molto invecchiata, così, all’improvviso: “Capelli bianchi, una ruga profonda in mezzo agli occhi”, una suocera che è ancora legatissima al genero che non c’è più.
“Il bambino apparve subito sullo schermo. Pieno di vita, si era evidentemente appena svegliato da un sonnellino, perché sbadigliò con la sua bocca da scheletro e si strofinò il naso.” – indifferente al mondo, quello che si dice un atarassico compulsivo!
Questa è stata la miccia! Ma perché?
Non credo che l’anima sia un’essenza che esula dal corpo. In questo (e poco altro) sono in sintonia con i testimoni di Geova. L’anima è quello che rende il corpo vivo, animato.
Penso a Charlie, un caro amico che è Altrove da dodici anni. Era un tipo peloso e quadrupede, che amava la pizza e che digrignava le zanne quando mi rifiutavo di lanciargliene un pezzo, oppure quando gli negavo una porzione di panzerotto. Ti fa male, gli dicevo, ma lui non voleva sentire ragioni. E alla fine qualcosa gli mollavo. E lui lo divorava con rabbia.
Lo conobbi quando aveva sette anni, perché era abbinato a colei che sarebbe diventato la mia consorte.
Soffriva di attacchi epilettici. Quando gli capitavano, mentre mia moglie preparava la siringa, io lo accarezzavo, ma lui capiva al volo. Per cui lo stringevo sempre di più, perché voleva fuggire: uno spinone-bracco-segugio di trentatré chili tremebondi. Sono certo che nel suo intimo maledicesse tutti gli umani del pianeta e la loro folle tendenza al sadismo.
Praticata l’iniezione, si sedeva ai miei piedi, spingendo empaticamente col deretano contro il mio stinco destro.
Ma stavo commentando un libro, o no?
È possibile quello che accade quel che sta scrivendo Puk, cioè che “Quando la madre prova gioia anche il bambino prova gioia. Il mio dolore era un veleno che pompavo costantemente in lui e fui presa dal panico al pensiero di cosa gli avrebbe fatto.”
Quell’essere misterioso che tutti fummo, quando ancora non eravamo emersi in questo continente della pazzia, è ontologicamente diverso da noi. Quando nasciamo, la vecchia psiche viene sostituita dalla nuova, che assume tutti i nostri difetti e qualità. Ci diversifichiamo e diventiamo esemplari di quest’umanità che tanto lutto adduce non solo agli Achei. Questo è il peccato originale: nascere tra delle schiere di umani.
Non so decidermi se è giusto così.
Però devo farlo: lo è perché è inevitabile. Né so che mondo sarebbe quello in cui i nostri sentimenti non si depositassero, né marcissero, ma svanissero d’incanto, apparendo ogni volta primevi e originali. Forse una specie di Iperurania. Che non fa per me.
Questo forse ci differenzia dalle cosiddette bestie: la tendenza a rielaborare continuamente i nostri dati esistenziali, diventandone i turbati prigionieri, condannati a un’irritante reclusione a vita.
Riprendo la scrittura alla fine del quarto capitolo. Do un occhio, per la dodicesima volta, al viso di Puk, che pare ammiccare nella terza di copertina.
Alla morte del marito “la mia carta di credito fu rifiutata”. E le scappa la battuta: “bloccano tutto, in modo che la vedova non possa scappare a Bali con il malloppo.”
Puk non è depressa, di più: è disperata. Però reagisce: “… decisi di ricominciare a prendermi cura del mio aspetto esteriore.”
Deve pensare anche all’abito del figlio per quando dovrà presenziare al funerale di papà. Le propongono un abito tutto nero e lei risponde: “Bè no. Non è lui che è morto.” – frase non felicissima: “la commessa e mia madre mi guardarono sgranando gli occhi.” Strano.
Si guarda allo specchio e il pensiero corre al cielo: “… se Lasse avesse guardato giù, mi avrebbe trovato di un sexi pazzesco.” Spero che l’abbia fatto (io almeno ci avrei buttato un occhio e chissà cos’altro).
“È vero. È proprio così.” – è la replica che più le viene spontaneo alle condoglianze che riceve. Umberto Eco lo chiamerebbe principio caritativo. Dar sempre ragione a chi, soffrendo, non può capire. Quando si deve rincuorare qualcuno, si prova un inusitato imbarazzo. Occorre aver pietà di lui. Che cosa orrenda.
Una parola del discorso funereo del prete le pare sensata: insensato. Che senso ha la morte? Un senso unico ti indica dove andare. Dove non andare. La morte cosa indica? Dove stare? Per l’eternità?
Puk aveva una veste corta (laggiù a Pixuntum sarebbe stata criticata, lassù a Aarhus forse no). S’era però armata di leggings tagliati magistralmente dal padre, che le “avrebbero coperto il sedere”). Si fa per dire magistralmente: “I pantaloni nuovi scivolavano giù di continuo e le mutandine verdi spuntavano in bella vista.”
Dice allo spettro del marito, che sempre le aleggia addosso: “Mi hai insegnato a vivere. Ne ho davvero bisogno, adesso.”
Una battuta serissima del figlio “rimbombò nella navata.”, e diventa un aiuto insperato: “… nel mezzo del funerale di mio marito, mi ritrovai a reprimere le risate…”
La presenza di Lasse si fa sempre più tosta: “Io scuotevo la testa e andavo avanti, mentre lui mi seguiva.”
I miei due genitori dovrebbero essere morti rispettivamente 18 e 7 anni fa. Eppure ogni volta che mi siedo alla scrivania, li vedo e dico loro: Ciao cari. Come va?
Anche tu, Puk, mia recente amica, ti ritrovi “a fissarlo negli occhi nella speranza di ritrovare nel viso l’accenno di un movimento.” Mentre io, nel dubbio che coltivo giornalmente, più che nella fede, continuo a salutarli.
Un tuo concittadino, il filosofo che ho compreso di più, m’ha insegnato che la vita è un eterno Aut Aut. Occorre sempre scegliere.
E accettare l’esito delle magnifiche sorti e progressive: dà un occhio, se ti capita, a La ginestra scritta da mio fratello Giacomo (Leopardi).
E medita, se ti va, sul pensiero che deriva da mia madre (brillante studentessa di quinta elementare): piânser fa trî e réder fa trî, che nel mio dialetto avito significa che, se piangi o ridi, fa sempre lo stesso: e tre meno tre è il Nulla.
Intanto ti stai dicendo: “non avrei scambiato la mia vita di merda con nient’altro al mondo.”
Non tutti gradiranno il tuo seguente pensiero. Io sì. Ti rendi conto che è lecito dir tutto, tranne le ovvietà inaccettabili. Parlando del tuo amato consorte, puoi dire che rimpiangi le sue carezze e i suoi baci. “Ma non potevo farmi uscire di bocca che mi mancava il suo cazzo.” – purtroppo siamo messi così, cara. A cosa sono serviti tante migliaia di anni di civiltà, se non a vergognarsi dell’evidenza!
Letto il quinto capitolo, in cui ti sfugge una cattiveria molto grande. Non la riporto, ma sappi che la condivido. Anch’io l’avrei pensata, ma non so se l’avrei detta. Ammiro tantissimo il tuo coraggio.
Ho sentito il bisogno di cercare una foto di Lasse su Google. Trovata. È veramente stupendo. Lui non invidia me. Io non invidio lui. Non perché sia morto. Perché non ha senso in-vidiare, guardare sopra, con la brama di sangue dello sparviero.
“Con lui ero fiorita, ora mi contorcevo a terra aggrovigliandomi e cercando di trovare dentro di me il mio nuovo inizio.”
Una buona notizia: “Ogni passo che facevo era un passo che mi allontanava da lui.”
Buona passeggiata.
Il capoverso che inizia con “Le scarpe di Lasse erano ancora…” mi suggerisce l’idea che questo non è tanto un romanzo quanto una raccolta di liriche. Anche i generi letterari però sono parole arbitrarie. Fesserie di cui è amabile discorrere.
Spari a Elmer una balla cosmica, non meno assurda di altre più rinomate: la religione è quel che ti distacca dalla verità, ad onta di uno dei suoi etimi, il latino ligàre, unire, per cui preferisco l’alternativa lègere, scegliere. È giusto che ognuno scelga l’illusione che più gli si confà.
Perdono il tuo peccato: “Io gli promisi quello che non si può promettere”.
Avrei voluto farlo con mio figlio quando mi feci coraggio e provai a comunicargli che il nonno non l’avrebbe più accompagnato a scuola. Iniziai con un tono sereno e quasi sorridente, dopo poche parole cominciai a frignare. Lui rise, pensando che stessi celiando. Poi pianse a dirotto.
Dopo la morte di Lasse, la tua testa rincorre i vostri usuali scambi d’opinioni, civili e un po’ aspri. E continui a bisticciare, ora, senza che lui possa granché competere con te. Un rapporto ancora vivo. Meno male. “Cominciammo a litigare, la sera. A voce bassa, per non svegliare Elmer”.
Non c’è una guarigione per tanto dolore, ma una cura forse sì.
Sesto capitolo. Finora non hai scherzato, ma ancora non hai dato il meglio di te.
Nel frattempo nasce Kaj: “… lacerazione del perineo, che richiese una sutura di parecchi punti…” Non so cosa sia il perineo, ma mi auguro di non averlo. Purtroppo Google mi avvisa che lo dovrei avere.
Descrivi il tuo penoso defecare. La sua tragica narrazione merita l’acquisto del libro. Non voglio spoilerare, ma solo riportare il succo del tuo pensiero: “… sentivo che un rancore amaro verso quella brutta stella del cazzo stava prendendo forma da qualche parte dentro di me.”
Sei felice e infelice, e ignori perché. In italiano felice deriva dalla radice sanscrita bhu-, che si trasforma magicamente in foe-, fe-, e ha che fare con la fe-rtilità, la fe-condità. In danese, dimmi tu.
Settimo. Una frase da non commentare: “… un bambino è un gancio a cui un genitore appende la sua vita.”
Proverbio pixuntiano: quannu su muortu tinni fai nu tianu, quando sono morto (di me) te ne fai un tegame. Un ciclico cannibalismo, in altre parole.
Ma anche: crisci figli crisci puorci. E non puoi nemmeno farci i salami. Dei simpatici suini, però.
Te la prendi sempre col povero maritino, che ogni tanto cambia stella per evitare le tue raffiche, ringraziandolo dei tanti stress che ti ha elargito morendo: “Ti odio, Lasse!”
Secondo proverbio pixuntiano: meliu nu male maritu che nu male vicinu. Meditate donne, meditate.
Ottavo. Solita frase bomba: “Convertire l’amore in forza.”
Non è facile, direi semi-impossibile. L’amore è kam’a, da cui kamasutra, passione, energia, vigore, attrazione, repulsione, ricerca, abbandono, disperazione, autodistruzione. È corpo in movimento. È forza senz’altro. Saperla utilizzare è un altro discorso.
Al Kvickly (supermercato, immagino), due grosso modo scopano davanti ai tuoi occhi. Cose che a Pixuntum non succede coram populo, specie di giorno: “Non vedevano nessun altro, io non vedevo nessun altro che loro.”
E ti viene una gran voglia addosso e la cosa più bella dell’intera faccenda è che non te ne vergogni affatto: “… quel pensiero non mi metteva a disagio. Lo lasciai muoversi liberamente per…”
Che Aarhus non sia Pixuntum, anche se entrambe si affacciano sul mare, lo scopro a pagina 190 (cinque dalla fine). Tua madre fa ridere l’uditorio quando “raccontò un aneddoto inappropriato della vita erotica sua e di mio padre”. Questa simpatica banalità illumina lo spirito che ha animato il tuo libro, di cui dirò alla fine due parole.
Scopro anche che mentre Lasse è Lassù (il gioco di parole in danese non rende: Lasse er deroppe), giù ora ne hai altri due, ancora mignon:
“Quando Elemer stringeva le labbra concentrato, Lasse era lì” – fuori uno!
“Quando scaldavo i piedi di Kaj era come avere in mano una versione in miniatura di quelli di Lasse…” – fuori due!
E fra non molto ce ne sarà un terzo, per Fortuna. E non è chiaro a chi assomiglierà.
Come definirei la tua scrittura? Innanzitutto è chiara.
Proverbio arşân (reggiano): A t ē brótt ma s-cètt, sei brutto ma schietto. A occhio, dalla foto in terza di copertina e da quelle che ho ricavato dal web, sei perlomeno carina. Ma schietta lo sei senza dubbio. Nun teni nu cecere in bocca (locuzione casertana): non sai tenere un cece in bocca. Vivaddio!
M’hai fatto un’ottima compagnia.
Mai letto un libro come il tuo.
Aspetto con un’ansia relativa il prossimo.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Puk Qvortrup, In una stella, Marsilio, 2021
Anche io ho letto il libro in pochissimi giorni. Siamo dentro ad una esperienza personale molto triste e comprendo bene la descrizione.
Mi sfugge qualcosa dell’ultima pagina. Non ne capisco il senso
Il senso di cosa?