“Il gioco dell’Angelo” di Carlos Ruiz Zafón: quando l’Anima è condivisa

Uno scrittore non dimentica mai la prima volta che accetta qualche moneta o un elogio in cambio di una storia.” ‘O vero! È l’attestato che la sua alterità è accettata da almeno un esemplare di quella tribù umana a cui ha sempre dubitato di appartenere.

Il gioco dell’Angelo di Carlos Ruiz Zafón
Il gioco dell’Angelo di Carlos Ruiz Zafón

L’invidia è la religione dei mediocri.” – ognuno ha quella che si merita. Non invidio te Carlos, né quel Charles di Grandi speranze, che tu chiami don Carlos, e io Carletto, o Charlie, non ho ancora deciso. Tu, per quest’amena avventura, ti chiamerai David Martin.

“… quella trama l’avevo abbozzata io a Vidal un paio d’anni prima, a mo’ di suggerimento affinché iniziasse il suo presunto romanzo serio, quello che diceva di voler scrivere un giorno” – la bozza era di David, la sua prima scrittura di Vidal, il libro è d’entrambi, e alla sua stesura momentaneamente definitiva m’accodo ora io.

Non sottovalutare mai la vanità di uno scrittore, specie di uno scrittore mediocre” tutto è vanità, dice il saggio giudeo, e qualsiasi scrittura è il vuoto più colmo che c’è. Non esistono scrittori mediocri, ma mediocri letture. Ogni anima spiaccicata sulla carta è degna d’amore. Se non la si adora, la causa è l’incomunicabilità.

Trovavo il tempo per lavorare alla Città dei maledetti dove non c’era– David riscrive il libro fallito del suo mentore, che si è nutrito della sua idea e ora si dispera della propria incapacità.

Non c’erano futuro né grandi speranze in quella corsa verso nessun posto, e lo sapevamo entrambi” – tu, Charles, cosa ne pensi? E tu, Carlos? E tu, sconosciuto?

Rimase immobile e quando mi vidi allo specchio del suo sguardo non osai dire nulla– nel di lei viso era scritta la verità di David.

“… pensava che il mio era un impegno mercenario e senz’anima, che stavo vendendo la mia integrità in cambio di una elemosina per arricchire quella coppia di…” – chi ha inventato il denaro? È lo sterco di Qualcuno? O è il fine economico dell’esistenza?

“… perché non avevo il coraggio di scrivere con il cuore, con il mio nome e i miei veri sentimenti– si scrive con l’anima, quando null’altro v’è che possa aiutarti, sempre che tu non segua un dettato altrui.

L’opera meretrice di David (anzi, del suo nome de plume Ignatius B. Sampson) era La città dei maledetti, che Vidal “conosceva per sentito dire”. E che io vorrei leggere! Ignatius, hai un’anima ignea che è in grado d’infiammare i nostri cuori!

A proposito, il libro del cuore di David è Grandi speranze di Charles Dickens.

Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza!

Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza!

Fra le parole è senz’altro la più disperata!

Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza!

Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza! Speranza!

Fra le parole è senz’altro la più disperata!

La stessa cosa che ha portato a lei: grandi speranze.”

“… e trasformerà in realtà tutte le loro speranze.”

So che alberga nel cuore grandi speranze.”

“… seppure in punto di morte, si era guadagnato il diritto di guardarla negli occhi senza vergognarsi delle sue ridicole speranze.”

Il ventottenne David sussurra al dottore, che gli ha appena diagnosticato un tumore: “Non posso morire, dottore. Non ancora. Ho delle cose da fare. Poi avrò tutta la vita per morire.”

Il male risiede dentro al suo cervello e presto gli causerà problemi di memoria. Entro un anno sopraggiungerà la morte.

Il libraio Sempere presenta a David uno strambo essere di nome Isaac, che è il custode di un luogo mistico, e che gli dice: “Uno scrittore non è mai una persona di fiducia.”: egli infatti acquisisce una realtà e la tramanda deformandola.

“‘Ha una brutta faccia’ sentenziò.

‘Indigestione’ replicai.

‘Di cosa?’

‘Di realtà.’

Lo scrittore, anche mentre dorme, divora il reale e solo quando ha estromesso il corpo estraneo conquista una pur caduca libertà.

Isaac “sorrideva come una vecchia volpe che assapora il suo trucco preferito:

‘Ignatius B. Samson, benvenuto nel Cimitero dei Libri Dimenticati.’”

Vari articoli di legge in vigore in quel luogo mistico:

  • “la prima volta che qualcuno viene qui ha il diritto di scegliere un libro, quello che desidera, fra tutti quelli che ci sono”
  • “quando si adotta un libro, si contrae l’obbligo di proteggerlo e di fare il possibile perché non venga perso. Per tutta la vita.”

Sul primo articolo è arduo essere in disaccordo, per cui ci provo: tu desideri il libro e, insieme, lui desidera te. Per quanto riguarda il presente tomo, due miei amici talvolta lo citavano nei loro discorsi. Ma finii per dimenticarmene. Poi uno dei due riprese a parlarmene, perché aveva iniziato il terzo libro della serie. E ne era entusiasta. Diceva che il secondo (che è questo) l’aveva un po’ stancato. Mentre affrontava la lettura del successivo, aveva cominciato ad apprezzare il precedente.

Ne parlai a mia volta con una mia consanguinea e lei mi disse che non solo aveva letto i primi tre volumi, ma che me li aveva imprestati da quasi un anno. Glieli avevo chiesti quando i due amici me ne avevano parlato la prima volta, poi me n’ero scordato, dimenticato, e non li avevo più rimembrati.

Carlos Ruiz Zafón
Carlos Ruiz Zafón

Li cercai e a fatica li ritrovai. Erano quasi scomparsi dalla mia vita. Per modo di dire, ché erano tranquilli ospiti di uno scaffale dimenticato. Dormivano come fa un cane o un gatto, con gli occhi serrati e la mente socchiusa.

Sul secondo articolo non ho assolutamente nulla da obiettare. In casa ospito tutti i libri che ho letto, a parte una decina che qualcuno mi imprestò da ragazzo e che poi avevo reso e due che affidai a qualcuno che li aveva dispersi. Vigliaccamente.

“Come si fa a scegliere un solo libro fra tanti?” – si adotta la tecnica kirkegaardiana: aut-aut! Questo? No! Questo! No! Questo! Sì! Non sono accettabili riposte quali: Forse!, Potrebbe darsi! Non so!

E si comincia la lettura. Quasi si accarezza quel corpicino di cellulosa, all’inizio, e lo si liscia. Si dà un occhio alla copertina, alla quarta della stessa, poi alla seconda e alla terza. Perché ogni volta io segua questa categorica trafila è un mistero. No: è un’abitudine.

“C’è chi preferisce credere che sia il libro a scegliere lui… Il destino, per così dire. Quella che lei vede qui è la summa di secoli di libri perduti e dimenticati, libri condannati a essere distrutti e ridotti per sempre al silenzio…” – non voglio che succeda!

“… libri, che preservano la memoria e l’anima di epoche e prodigi che nessuno più ricorda…” – e che non sparirà mai, nemmeno se bruciassero tutti i libri del mondo. La memoria rimarrebbe. È assurdo ma ci credo, credo quia absurdum.

Questo posto “è antico quanto la città stessa ed è cresciuto con lei, alla sua ombra.” – ogni libro è civile? Ne esistono di anarchici? Ne esistono di inumani?

Al mondo v’è un unico libro che anni fa lessi e immediatamente ripudiai. Per fortuna era rimasto incompiuto, che è come dire: per fortuna la tal guerra ha prodotto solo centomila morti. Lo scrisse un marchese idiotamente geniale, che non ho mai cessato di deprecare. Quando lessi quella sua immonda opera, cercai subito di dimenticarla. Dovetti poi ingurgitare un romanzo di Bukowski, a mo’ di antibiotico (Taccuino di un vecchio porco).

Oggi mi sento il dovere di domandargli il perdono. Al libro incompiuto, non al suo infido autore. Ma ho giurato a me stesso di non riprenderlo più in mano, per cui la sua sorte è per sempre segnata.

Non so però, ogni tanto ci penso.

“… e rilessi il primo paragrafo, immaginando l’istante in cui, se la fortuna l’avesse voluto, e molti anni dopo che io fossi morto e dimenticato, qualcuno avrebbe percorso lo stesso cammino e sarebbe arrivato in quella sala per trovare un libro sconosciuto nel quale avevo messo tutto ciò che avevo da offrire.” – gli scaffali dove sono riposti i libri letti mi ricordano quei loculi appesi all’ultimo ripiano, dove dormono placidi sonni gli antichi consanguinei, in genere i nonni. E dalla piatta terra tu li onori e li rispetti. La differenza è che ai libri occorre soltanto che tu li rimuova dall’oblio e li rimetta in vita, sfogliandoli.

“In quell’istante sentii quella raffica di vento sferzare all’improvviso la torre e spalancare i finestrini dello studio, che sbatterono con forza contro i muri. Una brezza gelida mi accarezzò la pelle, portando con sé il soffio perduto delle grandi speranze.” – il tempo sta forse cambiando, e forse è una bella notizia. O forse no.

Corelli, l’arcano e atarassico editore (detto anche il principale), chiede a David: “Voglio che convochi tutto il suo talento e che si dedichi anima e corpo per un anno a lavorare alla storia più grande che abbia mai creato: una religione.”

L’idea sgomenta il giovane. Anch’io sarei più che stupito, io che non credo in Dio, né nella sua negazione. Io che sono ignorante di Lui e che non so neppure se lo conosco. Eppure, un giorno gli davo del Tu.

“Non la tenta una storia per la quale gli uomini siano capaci di vivere e morire, di uccidere e farsi uccidere, di sacrificarsi e di condannarsi, di offrire la propria anima?”  – troppo banale, troppo presente nella vita normale! Scrivere è vivere anormalmente!

“Quale sfida più grande per il suo mestiere che creare una storia tanto potente da trascendere la finzione e diventare verità rivelata?” – io non scrivo per sfida, ma per intima necessità.

“Tutto il denaro è sporco. Se fosse pulito, nessuno lo vorrebbe, ma non è questo il problema.” – è uno sterco a cui sono affezionato, che talora vola in alto, dissolvendosi tra le nubi. Non è connesso con la scrittura, anzi, lo è perché occorre sopravvivere per poi scrivere.

“… se lei fosse capace di scrivere un libro così potrebbe morire tranquillo”Se il seme non muore, non dà frutto, ci avvisò André Gide (e forse ancora lo ricorda). San Giovanni scrisse qualcosa di analogo un paio di millenni fa. Ognuno lo può ancora leggere, solo che ne abbia voglia.

Lo scrittore, per comunicare la propria anima, deve sacrificarne almeno un pezzetto. Guido Morselli ha bruciato la maggior parte di sé prima di dare i suoi primi frutti. E non è un’eccezione. La sua Dissipatio H.G. vivrà per sempre in me. E sempre su di lei io veglierò.

Gino Ruozzi mi scrive: C’è un bel racconto di Giorgio Messori su Atrani. Era un carissimo amico, morto ormai quindici anni fa. Storie invisibili e altri racconti è un libro che ho curato io per Diabasis. Ha scritto altri due libri molto belli: Viaggio in un paesaggio terrestre e Nella città del pane e dei postini (dedicato a un suo soggiorno in Uzbekistan).

Non appena tornerò a Reggio, li cercherò ovunque. E, come per ogni cosa, basterà posarci la mân ‘nsèmma. Ed entrarci in comunione! E correlarsi a lui in un eterno entanglement!

David è un ragazzo ironico, che pare pigliarti in giro, quando parla con te. Non si riesce a scrivere se non si osserva il mondo esterno e non si può farlo senza provare un senso di comicità, mista a tragedia.

David ha ben poco da ridere, eppure fa sorridere. Il lettore non può che essergli grato. Esisteva in un lontano paese un sant’uomo che, sentendone la vanità, non poteva evitare il riso per qualsiasi essere che si muovesse, fosse anche il vento che spinge a oriente le nuvole. O a occidente, tanto è lo stesso.

Mâma la dgîva che piànşer fa trî, réder fa trî, e trî méno trî a fa sèinper şero: 3 – 3 = 0

David è un ragazzo a volte cinico. La vita lo ha reso tale, e lui ha ricambiato con gli interessi. Non pare cattivo, ma neanche buono. Nemmeno indifferente. Neppure lui sa cosa sia e cosa potrebbe parere.

David era il pupillo del suo mentore Vidal, ora è il maestro di una ragazzetta di nome Isabella, aspirante scrittrice, infatuata della di lui anima.

“Isabella, se davvero vuoi scrivere, o almeno scrivere perché altri ti leggano, devi abituarti al fatto che a volte ti ignorino, ti insultino, ti disprezzino e che quasi sempre ti dimostrino indifferenza. È uno dei vantaggi del mestiere.” – si tratta di una forma d’iniziazione, senza la quale potresti pagare tutta la vita la tua disonesta fortuna. Più ti disprezzano e meglio ti sentirai, ma prima ti conviene morire.

“Io non so se ho talento. So solo che mi piace scrivere. O meglio, che ho bisogno di scrivere.” – è un’impellenza notoriamente impellente.

Sento davvero che questo è il libro della mia vita. Il fenomeno mi occorre un paio di volte a settimana.

“Credo che tu abbia talento ed entusiasmo, Isabella. Più di quanto credi e meno di quello che ti aspetti.” – da ragazzino, fra me e me, mi dicevo che ero un piccolo genio, eppure nel mio intimo am sentîva un mèş cujòun. L’altra metà m’era purtroppo ignota.

L’ombra del vento di Carlos Ruiz Zafón
L’ombra del vento di Carlos Ruiz Zafón

“A fare l’atleta, o l’artista, è il lavoro, il mestiere e la tecnica. L’intelligenza con cui nasci è solo una dotazione di munizioni. Per riuscire a farci qualcosa è necessario trasformare la tua mente in un’arma di precisione.” – ottimo esercizio anche per giocare alla roulette (russa).

“Ogni opera d’arte è aggressiva, Isabella. E ogni vita d’arte è una piccola o grande guerra, a cominciare da quella con se stessi e con i propri compiti.” – è E = mc2, Shiva e Visnù, Yin e Yang, Eros e Civiltà, Amore e Libertà.

“Per raggiungere qualunque obiettivo, c’è bisogno prima di tutto dell’ambizione e poi del talento, della conoscenza e, infine, dell’opportunità.” – mamma mia! Lo sapevo! E ora?!

“Il caldo e l’umidità avevano spinto molti abitanti nel quartiere a portarsi le sedie in strada in cerca di una brezza che non arrivava.” – un’altra aria rispetto alla Barcellona de L’ombra del vento.

“Soltanto una foglia si agitava nel bosco che ricopriva la collina alle mie spalle.” – era forse mossa dal fischio di qualcuno?

“Potevo sentire il suono del mio respiro, del fruscio dei miei vestito mente camminavo, dei miei passi che si avvicinavano alla porta.” – in quell’attimo fugace, tutto può non accadere.   

“Per quale motivo, secondo lei, credenze di ogni tipo compaiono e scompaiono nel corso della storia?” – perché la Verità è Una e tutti credono di possederla, come una 127 vagamente tamponata dal Tempo.

Il nuovo principale di David ha poche e ben chiare idee: “La storia è l’immondezzaio della biologia, Martin.” – e la biologia lo è della fisica, e la fisica lo è…? E il mio piccolo io? A quale discarica appartiene?

“‘Ogni opportunità di fare un affare nasce dall’incapacità degli altri di risolvere un problema semplice e inevitabile.’

‘Parliamo di religione o di economia?’

‘Scelga lei la terminologia.’”

Tutto è un’illogica conseguenza di tutt’altro.

“L’essere umano crede come respira, per sopravvivere.”

Om! Om! Om! Om! Om! Om! Om! Om! Om!

“Secondo lei, allora, tutte le fedi e gli ideali sarebbero solo una finzione.” quien sabe?, direbbe Tex Willer.

“La natura è un grande e libero mercato. La legge della domanda e dell’offerta è una questione molecolare.” – anche subatomica, se non addirittura cosmica.

“… nell’arte commerciale, e ogni arte degna di questo nome prima o poi diventa commerciale, la stupidità sta quasi sempre nello sguardo dell’osservatore.” – secondo quel pilifero ebreo tedesco ogni evento è economico, secondo me esso può assurgere ad arte.

La stupidità è equamente diffusa, ma non tutti ne sono egualmente consapevoli. L’artista è osservatore del suo mondo, e in tal modo lo trasforma. Il lettore osserva quel mondo Altrui e contribuisce a deformarlo.

“… la maggioranza di queste credenze nasce da un fatto o da un personaggio probabilmente storico, ma presto si evolve in movimenti sociali modellati dalle circostanze politiche, economiche e sociali del gruppo che le accetta.” – l’umanità è una particella che muta continuamente i suoi stati, ognuno dei quali viene memorizzato in quel luogo misterico che si chiama Storia, dove non cessa mai di evolversi.

“Buona parte della mitologia che si sviluppa attorno a ciascuna di queste dottrine, dalle liturgie alle norme e ai tabù, proviene dalla burocrazia che si genera via via che si evolvono e non dal presunto evento sovrannaturale da cui hanno avuto origine.” – Dio risulta sempre assunto a norma di Legge.

“La teoria è la pratica degli impotenti.” – solo a livello teorico, però.

“Credere o non credere è un atto da pusillanimi. Si sa o non si sa, punto.” – s’ignora anche quel che si sa.

“Parlo in senso figurato. Dio non è un ciarlatano. La parola è moneta umana.” – alzi la mano chi non ha mai ciarlato.

“‘Cosa voleva essere da bambino, signor Corelli?’

‘Dio’”

La risposta m’inquieta. Anche a me capita di puntare a esserlo. Sia pure per lugubre scherzo.

“Voglio che impari la grammatica, non la morale della favola.” – la struttura della casa, non chi ci abita. La forma? Il contenuto? È una dualità che mi sfugge.

“Si può convertire un peccatore, mai un santo.” – in arşân, péca significa gradino, dove preme il piede salendo e scendendo. Solo nell’ascesa, o nella discesa, si pecca, a rischio d’inciampo. Chi è santo è assiso, immobile e perfetto. Nessuno fra i miei conoscenti lo è.

Per raggiungere un luogo occorre abbandonarne un altro. Occorre peccare Altrove.

“L’ispirazione viene quando si mettono i gomiti sul tavolo, il culo sulla sedia e si comincia a sudare. Scegli un tema, un’idea e spremiti le meningi fin quando ti fanno male. Questa si chiama ispirazione.” – a me capita l’inverso: comincio a sudare, poso il culo sulla prima cosa che capita e mi scordo di avere i gomiti.

“Questa si chiama ispirazione.” – che è la sorella antagonista della disperazione.

Jiddu Krishnamurti
Jiddu Krishnamurti

“Fondamentalmente, si leggono migliaia di pagine per imparare il necessario e arrivare all’essenziale di un tema, alla sua verità emotiva, e poi si disimpara tutto per iniziare da zero.” – l’importante è svuotare la mente mentre la si adopera. Certo, Jiddu, me l’hai insegnato tu, ma non ti cito per indolenza.

“Allora bisogna essere onesti e brave persone per scrivere narrativa.” – occorre togliersi la maschera e pensare ad Altro.

“No. Bisogna avere mestiere. La verità emotiva non è una qualità morale, è una tecnica.” – il mestiere di Cesare Pavese. La verità emotiva segue la sorte delle sue infelici consorelle.

“Niente è giusto. Al massimo si può sperare che sia logico. La giustizia è una malattia rara in un mondo per il resto sano come un pesce.” – come quello che è fritto il Venerdì Santo. La giustizia è una finzione, la logica è un’illusione.

“La routine è la governante dell’ispirazione.” – in fondo è vero, per cui chiamarsi routine l’esistenza umana.

“Le ore di reclusione nello studio si cristallizzarono rapidamente in pagine e pagine nelle quali, non senza una certa inquietudine, iniziai a riconoscere che il lavoro aveva raggiunto quel punto di consistenza in cui smette di essere un’idea e diventa una realtà.” – assimilare il parto di un testo a quello di una creatura umana è un’ovvietà essenziale.

“Mi resi conto che, per la prima volta da molto tempo, passavo ore intere senza pensare a Cristina o a Pedro Vidal.” – chi scrive non odia né ama alcuno al mondo, né l’ha più in mente, mentre lo sta ricreando.

“Sentii un freddo intenso nelle viscere.” – anch’io lo patisco ogni volta che la mia parte migliore spicca il volo e incurva la schiena a quella più colpevole.

“Non mosse una palpebra finché non fui a pochi metri e non sapendo cosa fare, lo salutai con la mano. Faceva freddo e il vento odorava di calce e di zolfo.” – allegria! Quest’essere non sbatte mai gli occhi, è franco, un po’ rigido ed emana delle smorte aulenze.

“Stavolta la voce e il tono erano di ghiaccio, privi di quella umanità pratica e studiata che sprizzavano a sua conversazione e i suoi gesti.” – vorrei tanto conoscere la temperatura del suo effluvio inferiore.

“Attraverso la redazione navigando tra sguardi schivi, sorrisi sghembi e mormorii gelidi. Il tempo cura tutto, pensai, meno la verità.” – non cura nulla, tranne se medesimo.

David ironizza appena sul “metabolismo, un po’ lento” di Guerra e Pace, uno dei libri non dico noiosi, ma annoianti che abbia mai letto. La morte del Principe non mi fu fatale, ma egli sta ancora agonizzando dentro di me. È uno dei libri della mia vita. Se talvolta il mio sguardo pare un po’ perso, la colpa è di quel lungagnone di Lev.

Il tempo dentro la scrittura (e la lettura), è come quello esterno: relativo.

Strana opinione quella di David: “una delle prime risorse dello scrittore professionista che Isabella aveva imparato da me era l’arte e la pratica di procrastinare” – rimandare a cras, crai, domani, aroppo. In fondo è vero, tutto accade prima e accadrà dopo: la scrittura vive durante quell’attimo in cui accade, che cade giù dall’alto o che sale dal basso.

Il prima e il dopo sono relativi, il durante è assoluto, sacro, allorché il divino s’incrocia con l’umano (il solito Mircea Eliade dixit). Ah, a proposito:

“‘… Lux Aeterna era un poema sulla morte e i sette nomi del Figlio del Mattino, il Portatore della Luce.’

‘Il Portatore della Luce’

Roures sorrise.

‘Lucifero’”

Nelle diadi di qualche capoverso fa avevo dimenticato la più cosmica di tutte: Luce – Gravità.

Gesù (o Chi per Lui) attirava le genti. Il Diavolo le illuminava a giorno.

Torno a pagina 167 (Capitolo 3 dell’Atto Secondo).

David tira “fuori dal cassetto della scrivania il libro salvato dal Cimitero dei Libri Dimenticati.”

“Lo aprii alla prima pagina e iniziai a leggere.

Lux Aeterna

D.M.”

È davvero un titolo illuminante!

“Mi misi a camminare senza meta, indifferente al freddo e a quel vento impregnato di pioggia che cominciava a sferzare la città con il respiro di una maledizione.” Divina? Lo ignoro. Questo so: che sta cambiando ancora il tempo.

“‘Vada all’inferno’ mormorai, mentre la notte, più scura che mai, sprofondava dietro i vetri.’” – l’augurio è al buio ma è mirato.

“La luce proseguì nel suo percorso verso la parte più profonda della…” – guai se non ci fosse quel lume diabolicamente acceso, sarebbe un mezzo paradiso!

“Per tutta la vita avevo sentito che le pagine che lasciavo al mio passaggio erano parte di me. La gente normale mettono al mondo dei figli; noi romanzieri dei libri. Siamo condannati a metterci la vita, anche se quasi mai ce ne sono grati. Siamo condannati a morire nelle loro pagine e a volte perfino a lasciare che siano loro a toglierci la vita.” – scrivere è incidere la propria confusa epigrafe.

“… cominciai a camminare senza meta, percorrendo strade che mi sembravano più vuote che mai, convinto che se non mi fossi fermato, se avessi continuato a camminare, non mi sarei reso conto che il mondo che credevo di conoscere non c’era più.” – Lo spazio che è privo dei nostri sogni ci pare stranamente vuoto. C’è chi propone l’idea di un vorticoso loop che s’aggira come una belva sempre a caccia di nuove prede.

Dice il prete “una volta che la folla si fu schierata attorno al feretro”: “… il signor Sempere credeva che tutti facciamo parte di qualcosa, e che, lasciando questo mondo, i nostri ricordi e i nostri desideri non vanno perduti, ma diventano i ricordi e i desideri di chi prende il nostro posto.” – di chi occupa il nostro spazio, che non è affatto lo stesso, ma che deriva da esso.

“Non sapeva se avevamo creato Dio a nostra immagine e somiglianza, o se lui aveva creato noi senza sapere bene quello che faceva.” – come capita a due stelle doppie che si svuotano e riempiono a vicenda.

“… il Signore, sebbene il vecchio Sempere non se l’aspettasse, accoglierà accanto il sé il nostro caro amico, e so che vivrà per sempre…” – Amen! Sempere era il primo libraio dell’anima di David.

Un’inquietante dedica “Per il signor Sempere, il miglior amico che un libro potrebbe desiderare, per avermi aperto le porte del mondo e insegnato ad attraversarle”: si sussurra che Mosè covasse il Libro tra le mani e se lo stesse beatamente leggiucchiando, mentre camminava ignaro fra le due masse acque del Mar Rosso.

“Ogni libro aveva un’anima, l’anima di chi l’aveva di chi l’aveva scritto e l’anima di quelli che lo avevano letto e sognato. Sempere era morto credendo a quelle parole…”

Torno al Capitolo 3, Atto Secondo, pagina 168: “A mano a mano che sfogliavo il manoscritto, avevo la sensazione di percorrere passo dopo passo la mappa di una mente malata e incrinata. Rigo dopo rigo, l’autore di quelle pagine aveva documentato senza saperlo la sua discesa in un abisso di follia. La terza e ultima parte del libro mi sembrò un tentativo di ripercorrere il cammino all’indietro, un urlo disperato dalla cella della sua pazzia per sfuggire al labirinto di gallerie che gli aveva scavato nella mente. Il testo moriva a metà frase di una supplica, una soluzione di continuità inspiegabile.”

Due capitoli e sei pagine dopo: “Il racconto che mi aveva portato quasi non aveva trama. Narrava con una sensibilità affilata e parole ben articolate le sensazioni e le assenze che passavano per la mente di una ragazza confinata in una stanza gelida in una soffitta del quartiere…” – Isabella, aspirante scrittrice sedicenne sta scrivendo della sua anima, la cui trama è impalpabile, ma esiste, eccome!, caro il mio David.

Stephen King - Photo by Cinefilos
Stephen King – Photo by Cinefilos

La trama (garantisce l’immaginifico Stephen King), non ha l’importanza che possiede la storia che esiste in te. Non so chi sia a esigere una trama, ma se non è la storia stessa a condurti a essa, finirai per andare dove non serve a te, ma a qualcun altro.

Ora, dopo tanti e variegati onanismi letterari, lascerò la parola alla storia, a qualche attimo che la possa illuminare.

“… cadde a terra di spalle, stringendosi il polso mutilato e fumante, mentre il suo volto punteggiato di bruciature di polvere da sparo si scioglieva in una smorfia di dolore che urlava senza voce. Mi alzai e lo lasciai lì, a dissanguarsi in una pozzanghera della sua stessa orina.”David (insieme a Carlos Ruiz e a me) riesce a dare l’idea dello scempio che talvolta ricorre nella vita di ognuno, senza mai eccedere in descrizioni verbose o correre il rischio di sembrare di gusto violento, sanguinario e raccapricciante.

David spara a qualcuno: “Lo sparo gli aveva aperto nel vestito un foro fumante. Dal quale sgorgava a fiotti sangue scuro e denso. Don Pedro mi guardava fisso negli occhi mentre il suo sorriso si riempiva di sangue e il suo corpo smetteva di tremare e cadeva a terra in un odore di polvere da sparo e di miseria.”

Qualcuno spara a David: “Mi palpai il petto e trovai il foro lasciato dal proiettile dell’ispettore. Mi sbottai il cappotto e tirai fuori la copia dei Passi del cielo.” – il libro ha allungato la vita al suo autore.

“La corrente fredda e umida che usciva dal foro del muro invadeva la stanza.” – brutto segno.

“Una ventata d’aria putrefatta esalò dall’interno, impregnandomi i vestiti e la pelle.” – il destino è ormai per sempre indicato, ma può ancora cambiare!

“Dopo un po’ sentii esplodere i vetri dello studio e mi voltai per vedere il fuoco ruggire e abbracciare la rosa dei venti a forma di drago.” – chissà perché non esiste la rosa delle bonacce!

“Benvenuta al Cimitero dei Libri Dimenticati, Isabella.” – prima o poi capiterà a ciascun apprendista lettore.

“Questo posto è un mistero. Un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi, ha un’anima. L’anima di chi lo ha scritto e di quelli che l’hanno letto e vissuto e sognato. Ogni volta che un libro cambia di mano, ogni volta che qualcuno fa scorrere lo sguardo sulle sue pagine, il suo spirito cresce e si rafforza. In questo posto i libri che nessuno più ricorda, i libri che si sono perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa di arrivare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito…” – qualcosa mi dice che forse l’ha scritto una parte celata di me. O appartiene a un mio gemello di nome Carlos Ruiz?

“Presi il volume accanto al quale avevo confinato il manoscritto e lo aprii. Mi bastò leggere un paio di farsi per sentire un’altra forza quella risata cupa alle mie spalle.” – chi è senza demoni scagli la prima pietra!

“A una a una le luci della città si spensero in lontananza e capii che avevo già iniziato a ricordare.”

Epilogo 1945: “Nei miei anni di pellegrinaggio ho visto l’inferno promesso nelle pagine scritte per il principale acquistare vita al mio paesaggio.” – da notare che David non scrive mai il mio ex principale: egli ancora vigila, a suo modo, dentro di lui.

Nessuno ha mai chiesto a David:perché non invecchiavo” – forse non l’hanno frequentato per il tempo necessario.

“Isabella aveva dato alla luce un maschietto che si sarebbe chiamato Daniel Sampere.” – Toh! Ma questa forse è un’altra storia.

Scrive lo spettro di Isabella: “… abbiamo avuto un figlio, Daniel, a cui parlo sempre di lei e che ha dato un senso alla mia vita che nemmeno tutti i libri del mondo potrebbero neanche cominciare a spiegare.” – un altro ipocrita lettore!

“… mi piacerebbe che mi ricordasse e che, un giorno, se lei ha qualcuno come io ho il mio piccolo Daniel, gli parlasse di me con le sue parole mi facesse vivere per sempre.” – e cos’altro potrei scrivere ora se non A thing of soul is a joy for ever?

Dice il principale di David: “Ci ho messo un po’ di tempo a riconoscerlo, ma se c’è una cosa che non mi manca è proprio il tempo.” – e a ha parlato il Signore della Luce!

Una banalità doverosa: è la forza elettromagnetica che crea la differenza. La gravità buia finisce per annullarla.

La bambina luminosamente afferma: “Mi hanno detto che lei è un fabbricante di storie e di racconti.”

E domanda all’ignoto scrittore: “Ne farà uno per me?”

Il principale l’ha affidata per sempre a David. Chi vivrà, morrà!

“Queste pagine saranno la nostra memoria fino a quando il suo ultimo respiro si spegnerà fra le mie braccia e l’accompagnerò al largo, dove s’infrangono le…”,“dove né il cielo né l’inferno potranno mai trovarci.”

Non te la prendere, David, né tu, Carlos Ruiz se, entrando nel giro, ho reso a voi quello che voi avete combinato ad altri! Ora però devo andare, Altro m’aspetta.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Carlos Ruiz Zafón, Il gioco dell’Angelo, Mondadori

 

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