Life After Death: l’intervista al maratoneta Dorando Pietri
Non dovevo correre con questo caldo! A fine marzo, di un marzo balordo per mille motivi, il caldo è arrivato all’improvviso con randellate di raggi sole.
Oggi il sole picchia. Picchia sulla schiena appesantendo la mia corsa che forse non è più neppure corsa. Picchia e appesantisce il mio fiato. Picchia sul viso, infuocato senza scampo, che si difende con una gocciolina di sudore. Sensazione di solletico mentre la lascio scorrere e morire lì. È strano che sia da un lato soltanto, come una lacrima di sudore, una lacrima, perché marzo non ha mantenuto neppure una promessa, e mi dispiace.
Non dovevo correre con questo caldo.
Dopo una manciata di lunghissimi chilometri non mi scoraggio ai piedi di una salita. Lo sapevo fin dal primo metro, che sarebbe arrivata la salita e avrebbe sgretolato le mie energie residue; sciolte come un pugno di sabbia dentro il mare. Oggi non c’è scampo. Stato liquido.
La periferia rassicurante della mia città l’ho lasciata oramai da quasi mezz’ora. Mi piace la progressione lenta con cui si diradano le case, la gente, e il traffico. Tutto in dissolvenza, le cose e forse anche la vita. Ogni cinque minuti trovo sempre meno persone, che forse ora sono solo la radice quadrata di quelle di cinque minuti prima. Azzardo una formula matematica per ipotizzare quante ne incontrerò nei prossimi chilometri di questa striminzita pista d’asfalto, imprigionata tra muretti a secco e campi a perdita d’occhio.
Prendo il lato sinistro della stradina per perforare l’ombra densa di qualche albero che interrompe il sole a tratti. Refrigerio bugiardo.
Non dovevo correre con questo caldo.
Nessuno in giro da molte centinaia di metri. La formula matematica, che cerco invano di risolvere mentre corro, si pianta alla radice quadrata di nove come un ombrellone nella sabbia. Quanto fa? Fa due, no, che dico, fa quattro virgola cinque… Quattro e mezzo? Ma non posso considerare mezza persona. Ricomincio il calcolo da capo. Non riesco, lo so, è per la mancanza di acqua. Lo so, è un primo sintomo della disidratazione.
Rimango appeso a un’operazione irrisolvibile: ho deciso che il calcolo non ha una soluzione. Non c’è un numero che dia una risposta certa. È tutto così eventuale, provvisorio. Come questa solitudine, marchiata di silenzio e di distanza da tutto.
Nessuno davanti a me, nessuno in queste campagne disabitate, e forse nessuno neppure dietro. Non riesco a voltarmi mentre corro, al passo, fermo, sbircio alle mie spalle. La solitudine si protende silenziosa fin molto lontano.
Adesso cammino, sono venuto per correre e cammino: ho perso qualcosa. Ho perso il mio impegno. Ho perso, punto. C’è di bello che nessuno può vedere il mio mesto aver mollato. Forse se non se ne accorge nessuno non è successo. Come la radice quadrata di nove: un’utopia.
Però mi vedo io, e vedo chiaro le mie sconfitte di marzo. Marzo balordo, troppo sole oggi.
Non dovevo correre con questo caldo.
Mi guardo ancora alle spalle per scoprire un mondo vuoto che mi aspettavo. Da fermo sento il cuore che arranca come una cremagliera di montagna che sferraglia. Lento, toc, toc. Profondo; rintocchi di caverna. Passano i secondi tra un toc e l’altro. Toc, niente. Toc, niente. Capogiro come se i pensieri precipitassero a spirale fino ai piedi. Perdo molte sensazioni. Se sto fermo svengo. Lo so, sto per varcare il cancello di non ritorno. Nella corsa può succedere. Nebbia luminescente. Rinuncio a cadere, ho due secondi per ripartire piano prima del crollo. Riparto, urgente e lento, e riprendo a correre pianissimo un attimo prima che il nero invada tutta la mia mente.
Due secondi sono passati, resisto sulle gambe, e i ritocchi vuoti della caverna risuonano cercando un’armonia scanzonata.
Sensazioni azzerate, o disperse. Sono a posto, io ci sono, è solo colpa del caldo.
Forse un passo dietro di me, da un vuoto siderale, una voce nasale mi incita:
«Forza, dai, non puoi mollare!».
Un attimo fa non c’era nessuno. Non può essere. La voce è attaccata alla mia nuca e sento dei passi leggeri più veloci dei miei. Non ho la forza di girarmi e aspetto che mi superi per inquadrare quello che non ci potrebbe essere.
«Dai, vieni al passo mio, non mollare ora», insiste squillante mentre mi affianca.
Sono stordito dal caldo, dalla fatica e da una visione che forse non esiste. Lui, la voce, sembra caduto dentro pantaloncini rossi e maglietta bianca decisamente troppo larghi, come si usavano un secolo fa. Sguardo affilato di chi quella salita se la può bere, e baffi scuri che richiamano un’anima scura.
Oggi tutto può essere, però quel pettorale col numero “19” così in grande mi fa sognare…
Sognare, sbandare, potrebbe essere lui, sognare, crederci. Passo leggero e respiro come se sbuffasse, lo chiamavano la “locomotiva umana”, una leggenda, e forse è proprio lui: Dorando Pietri. Uno dei maratoneti più famosi del mondo, forse l’unico atleta diventato celebrato per non aver vinto.
Erano le Olimpiadi di Londra nel 1908 quando lui nella maratona stava per arrivare per primo al traguardo, ma, ormai esausto, era caduto esamine per quattro volte nell’ultimissimo tratto, rialzandosi ogni volta, e raggiungendo l’arrivo sorretto dai giudici di gara e dal medico che si erano commossi per la sua abnegazione.
Tutto lo stadio, settantacinque mila persone, si erano idealmente stretti attorno a lui trepidando per il suo coraggio. Ma ovviamente era stato squalificato e la medaglia d’oro olimpica era andata al secondo arrivato.
Ne aveva scritto lo scrittore Arthur Conan Doyle, che aveva assistito alla immane sofferenza del suo arrivo, facendolo diventare famoso nel mondo. Ne era rimasta profondamente colpita la stessa principessa Alessandra di Danimarca, che lo volle premiare con una coppa d’argento, come vincitore morale della maratona.
Tutto questo mi passa nella mente nel tempo che l’ombra di un falchetto mi taglia la stradina proprio davanti a me.
P.B.C.: Ma sei davvero tu: Dorando? Non ci credo. Hai fratto sognare tante generazioni di appassionati e amanti della corsa. Tu rappresenti lo spirito che tutti inseguiamo dannandoci a pestare i piedi sull’asfalto.
Dorando Pietri: Esagerato, non ho fatto niente. E in fondo mi è rimasto solo l’amaro di aver perso la medaglia.
P.B.C.: Macché, tu sei l’ispirazione; il sogno. Il sogno che se si vuole si può, senza mollare mai. Vorrei farti qualche domanda, se permetti, per la rubrica Life After Death, di Oubilette Magazine.
Dorando Pietri: Ah, il solito che cerca di scoprire il mio segreto. Tieniti forte: non ho nessun segreto. E poi che ci azzecco io con Oubliette Magazine? Da noi si conosce bene questa rivista pattinata, dove parlate solo di letteratura, di arte… Sveglia, oh, io sono molto più a terra.
P.B.C.: Ma dai, non è una rivista pattinata, è una rivista on line, che si interessa di tutto, anche di sport e di calcio…
Dorando Pietri: Zitto, non bestemmiare. Calcio, ma si può?
P.B.C.: Sono d’accordo con te, e penso che la corsa sia la specialità olimpica più vicino alla poesia.
Dorando Pietri: Anche questo mi tocca sentire! La corsa è sacrificio, sudore, abnegazione, dedizione infinita. Nella corsa ci devi mettere dentro tutto quello che hai dentro, e tante volte non basta. E poi tanto non ti ripaga, non ti ripaga mai abbastanza.
P.B.C.: Ecco, lo vedi? Hai appena fatto una descrizione perfetta della poesia. Perché nella corsa ci sono sensazioni, ci investi sentimenti, coraggio. Devi scavare nelle tue riserve di energia, e tu, mi pare, che questo lo sappia molto bene; devi scavare dentro te stesso senza mai sapere se ti piacerà quello che trovi. Così nella corsa, così nella scrittura. Tu per me, per quello che hai fatto, sei un poeta.
Dorando Pietri: Ma smettila, o ti ci mando… Ma quale poeta, io correvo perché da ragazzo ero garzone in una pasticceria, e correvo e correvo. In piedi e in bicicletta. Vedi, io sono piccolino, non arrivo a un metro e sessanta, ma quando correvo, come dire, quando correvo mi sentivo più in alto di tutti. Era io che facevo il passo. E tutti a guardare, o dietro. Facevo una cosa bene, che mi faceva stare bene. Guadagnavo la stima di me stesso, mi ci giovavo i sentimenti.
P.B.C.: Lo vedi che ho ragione. Per correre, ma forse per tutte le cose che ti impegnano, ci devi dare l’anima, cadere e rialzarti…
Dorando Pietri: E io quel giorno mi sono rialzato quattro volte. Quattro volte, sulla pista in terra battuta. Ricordo, sono entrato allo stadio nella direzione sbagliata, non capivo le urla del pubblico, non capivo neppure dov’ero. Sono stati giudici di gara che mi hanno rimesso in piedi e indirizzato verso l’arrivo…
P.B.C.: Cos’hai pensato in quei momenti drammatici?
Dorando Pietri: Ma che domanda stupida! Da giornalista televisivo. Cosa vuoi che abbia pensato… Se fossi stato in grado di pensare non avrei sbagliato percorso, o forse non sarei caduto. Non ho pensato niente, che domanda! Sapevo solo che mi ero preparato per mesi, che avevo sudato e faticato per infiniti chilometri, e che a quel punto non mi potevo fermare. Volevo arrivare al traguardo, anche senza gambe. Le avrei consumate, sacrificate, per arrivare. Sai quando vuoi una cosa, e fai di tutto per arrivarci, e non ti importa neppure se fosse l’ultima cosa che fai? Spesso, nella corsa, ma anche nella vita, ti sembra che non ce la fai, che non hai più le energie, e allora ci devi spendere tutto il cuore, perché è il tuo obbiettivo, e ti possono portare solo le tue gambe, o quel che ne resta… È tua la sofferenza. Tuo il risultato, per quel che vale. Ma ti assicuro che sei tu, lì, e che per te vale!
P.B.C.: Capisco, tre minuti fa mi stavo fermando. Non ce la facevo, e mi sembrava che non ne valesse la pena, troppo caldo, oggi, troppi problemi, e poi, intanto, non mi vedeva nessuno…
Dorando Pietri: Ma ti vedevi tu! Se rinunci, tu, ti vedi. E poi ti rimane dentro. Come un’ombra, che si allunga al tramonto e che piano piano ti oscura tutta l’anima. In certi momenti lo sai, che devi dare tutto, per non lasciare che i rimpianti si mangino i tuoi giorni futuri. E sai che se stringi i pugni, anche se le gambe non ce la fanno, il cuore ti può portare avanti.
P.B.C.: Lezione di sport, lezione di vita. Ma quel giorno lì, alle Olimpiadi di Londra tu hai avuto una dura lezione. Ricordi di più l’arrivo con l’ovazione di un immenso pubblico, o la bruciante squalifica.
Dorando Pietri: Di quel giorno lì non ricordo poi tutto… Forse per il caldo e la disidratazione sono arrivato come sospeso, in una bolla di sapone, senza coscienza. Ricordo soprattutto le gambe di pasta frolla all’arrivo, e non ho memoria neppure dei giudici che mi sorreggevano. Ricordo dello stadio, la immensa emozione di tutta quella folla, ma senza aver avuto la lucidità, di quella emozione. Ricordo, questo sì, quel brivido nella schiena di quell’essere lì, al centro soprattutto di me stesso.
P.B.C.: Già, il caldo… Anche oggi il caldo mi ha ucciso…
Dorando Pietri: Ma no, il caldo deve essere tuo amico. Lo devi rispettare. Rappresenta le difficoltà che incontri. Nelle difficoltà ti misuri, è li che si vede. Come dire… sei costretto a valutarti, a vedere come sei realmente. Cadere e rialzarsi, io l’ho fatto per ben quattro volte in quei maledetti ultimi metri! Pensa: cadi, ti rialzi; ricadi e ti rialzi, e poi ancora, e ancora. Sì, mi hanno aiutato i giudici, ma perché hanno visto che io volevo ostinatamente crederci. Forza, dai! Mi dicevo, mi bisbigliavo.
E quelli che mi hanno offerto il braccio non lo hanno fatto per me, ma per il rispetto che io ho messo nella corsa. È quel rispetto che li ha smossi, e che vale rispetto. Rispetto chiama rispetto.
Non mi so esprimere bene come i letterati che compaiono in queste colonne, ma ricordalo, il rispetto è soprattutto per se stessi. Sempre. Rispetto per quello che si sei. Entusiasmo dentro, brividi, e quello stato di grazia di quando hai faticato tanto a fare qualcosa bene, qualunque cosa, e poi te la porti dentro. Per sempre.
P.B.C.: Forse per questo finale di gara epico, poetico a suo modo, per questa grandissima emozione che ci hai fatto attraversare, alla fine sei diventato più famoso che se avessi vinto normalmente la medaglia d’oro.
Dorando Pietri: Oh, ma proprio non capisci! La medaglia, io, non l’ho vinta, sono stato squalificato, e forse giustamente. Ho avuto la fortuna che sul traguardo ci fosse la regina, che si è commossa, e che mi ha fatto avere una coppa d’argento che vale tante medaglie! Tantissime. Ho avuto la fortuna che lì ci fosse uno scrittore famoso, Arthur Conan Doyle, che si è emozionato, e l’ha raccontato al mondo intero.
P.B.C.: Tuttavia penso che la fortuna sia solo farina del tuo sacco. La tua fortuna è stata la forza cieca di tentare di rialzarti per la quarta volta! Sì, anche sorretto, ma se non lo fossi stato, saresti caduto ancora e ti saresti rialzato ancora. Una grandissima, dura, lezione, quel cercare di rialzarsi. Un monito per tutti: non è mai finita, finché non lo decidi tu.
Dorando Pietri: Vedo che hai ripreso fiato. Continua così, con un ritmo regolare, impegnandoti, ma dosando le forze. Incontrerai il caldo e la fatica, per fortuna, perché così imparerai il rispetto per la strada, e per la vita. Respira, stringi forte i pugni e vai, che è tutto lì. Addio…
Lui allunga il passo, quel suo passo leggero e sbuffante e si allontana davanti a me. Due, quattro falcate, e la sua immagine sparisce. Diventa trasparente all’improvviso e svanisce. Resto obnubilato, sospeso sulle sue parole. Ma ormai ho ritrovato il mio passo, scollinato, e ora inizia la discesa.
Il caldo e la fatica sono lì, come pericoli ai bordi della stradina.
Resto solo, lui sarà andato a spingerne un altro. A sorreggerne un altro prima che cada.
Vado avanti per inerzia. Questo marzo è così: un po’ caldo, un po’ balordo. Ma è il nostro marzo, la nostra corsa.
Via. Un po’ di vento più fresco mi rincuora, ritorna il traffico, la gente e la periferia con le sue case eleganti. Ho capito: corro per rispetto.
Ho capito: è tre, la radice quadrata di nove è tre. Grazie Dorando, bellissimo esempio.
Written by Pier Bruno Cosso