“Letteratura e altre rivoluzioni – scritti per Raul Mordenti” di AA. VV.: l’informatica umanistica ha un cuore antico
Poco fa, chissà a chi potrà mai interessare, mi ha chiamato Riccardo Garbetta da Parigi; verso la fine della telefonata squilla un altro telefono: è Roberto da Bari, che avevo chiamato poc’anzi, perché compiva gli anni, e non m’aveva risposto. Chiudo la chiamata di quest’ultimo e lo richiamo, dopo aver parlato un minuto col romain–parisien, e li metto in comunicazione fra di loro; i due si conoscono per vie traverse, ma è con mio sommo gaudio che sento che uno fa vocalmente gli auguri all’altro e che i due si scambiano alcune battute. Cose del genere mi emozionano sempre un po’, perché amicizia è passione, da kam’a, da cui kama-sutra, anche amare. Ma perché racconto tutto ciò?
Forse perché non sapevo come cominciare questa reazione e in secondo luogo perché non so ancora dove andrò a parare.
Nell’Introduzione, Alberto Asor Rosa mi colpisce per una sua constatazione: “Del resto, accanto a Nietzsche, io chiamo in causa Marx e Leopardi. Si possono leggere l’uno accanto all’altro, e l’uno a sostegno dell’altro? E perché no? questo è il presupposto di un’indagine letteraria allargata. Poco importa se alla fine, con questo insieme di operazioni non riusciamo a cambiare quasi nulla. L’importarle è impostarle, motivarle e farle.” Resterò sempre col dubbio che il refuso (“importante”?) sia stato fortemente voluto.
Ancora più sagace è l’altra sua affermazione: “Al centro del mio ragionamento, allora come oggi, c’è la persuasione che il conflitto costituisca ovunque e sempre la molla di una sana e dinamica dialettica sociale…” E tu chiamale, se vuoi, interazioni.
Claude Cazalé Bérard, nel primo dei capitoli che i vari critici, per amicizia, o per stima, o per entrambe le cose?, dedicano a Raul, cita Cesare Segre: “Il grande critico – che ci fu vicino e amico – era profondamente consapevole della crisi che minacciava gli studi umanistici, insistendo sulla necessità di salvaguardare la memoria che assicura il perdurare della comprensibilità dei testi.” Interessante questa particella, ci.
Mia madre diceva al parlêr l’è argînt fîn, al tašèir ôr zechìn. Scrivere è anche tacere, s-cancellare, annullare, togliere, direbbe Michelangelo, il non essenziale, ma anche aggiungere, rifinire, ritoccare, direbbe Leonardo, liberare l’anima, quindi scrivere è agire, in ogni caso. Quale sarebbe il fine, se non eternare, come direbbe Keats: A thing of beauty is a joy for ever. Scrivere è una forma di sopravvivenza, una ricerca dell’attimo perpetuo. Compito che svolge mischiandosi al mondo, che le appare come esterno.
Quello dello studioso/critico, in un momento successivo, è anche (non solo) quello di conservare, di proteggere, ciò che è stato sottratto all’estinzione, e giudicare l’opera, utilizzando una nuova scrittura, in un gioco senza fine. Ma ora, dice Segre, citato da Bérard, quest’attività salvifica è minacciata da qualche agente esterno, che ha forse nell’indifferenza la sua forza tutt’altro che segreta.
Bérard cita Walter Benjamin, che “aveva messo in guardia contro i rischi di una modernità dimentica di se stessa, indifferente alla storia, minacciata dall’inautenticità della meccanica riproduzione delle opere e dei testi.”
Per cui: “Il rischio che rimane è l’appiattimento della dimensione storica. La rinuncia alla storia dell’autore, del suo ambiente di produzione, alla storia del testo e delle sue redazioni, del pubblico mirato, delle condizioni di trasmissione, alla storia delle sue interpretazioni. La rinuncia alla memoria.” Memoria ricorda marmoraria, l’arte di lavorare il marmo. Questo io intendo per letteratura: riprodurre una storia, incidendola nel materiale più duro e imperituro che ci sia.
La mia ignoranza scopre finalmente che Mordenti è stato uno dei fondatori dell’informatizzazione della critica e dei testi. Un suo titolo, tanto per capire è: L’altra critica. La nuova critica della letteratura tra studi culturali, didattica e informatica. Ma ancor di più: Edizione digitale dello Zibaldone Laurenziano di Boccaccio. Raccolgo queste preziose informazioni, e proseguo.
Trascrivo la citazione che Bérard fa di Sciascia perché è incantevole: certi autori, come Kakfa, Borges e Pirandello ti fanno capire che la “speranza sta nel fatto di scrivere. Perché non c’è pessimismo che sia definitivo quando lo si scrive. Lo scrivere è sempre un atto di speranza.”
L’articolo di Attilio Bartoli Angeli su La lettera autografa di Boccaccio, scoperta per miracolo da Roberto Abbondanza, mi suggerisce un’analogia che esiste fra i pur diversi aspetti dello studioso di letteratura e quelli dei fisici quantistici. Leon Lederman, premio Nobel 1988, ne La particella di Dio, distingue fra teorici e sperimentali, che poco si stimano reciprocamente. Ignoro se questa differenziazione esista anche nella scienza letteraria. È una delle questioni che cercherò di esaminare nel corso della mia disamina. E io? Io sono un irregolare che non appartiene a nessuna schiera. Un anarcoide semi zotico e ignorante, che desidera solo entrare in relazione con la scrittura altrui, anche quando essa scarseggia di valore, perché non esiste una particella priva di stati, e non è concepibile un autore non interessante, o un’opera totalmente inutile.
Estrapolo una frase che mi colpisce, non so esattamente perché: “Estraggo infine dal dossier epistolare che sto compulsando la corrispondenza intercorsa nell’estate 1963 con…” Compulsare dà l’idea, anche se non quale esattamente.
Sto leggendo il capitolo di Guido Liquori Il Gramsci necessario di Raul Mordenti. Anche qui una frase mi fa cogitare: “il pensiero di Gramsci doveva essere appunto tradotto senza essere tradito, per poter mostrare, sotto nuova veste, il suo valore di classico che parla a epoche e in luoghi anche molto diversi da quelli in cui egli visse e pensò.”
Secondo me, caro Guido, quello che dici è tanto bello quanto impossibile. Non è consentito osservare un ente a te esterno senza modificarlo, questo garantisce la fisica moderna: tu e lui diventate un nuovo fenomeno che è una copia infedele di quel che eravate prima. Si tratta di un evento in cui gli attori inter-agiscono e si mutano reciprocamente, you both are entangled, correlati l’uno nell’altro. Questo, che non pare intuitivo, è però verosimile.
Se io leggo un classico, anche se non sono in grado di comprenderlo in misura sufficiente, però lo compenetro, come e mentre Lui compenetra me, recandoci a volte un disagio reciproco. Fa ridere, vero? Ho letto Vita nuova di Dante e ho reagito a quel libro (stavo per scrivere libercolo, ma solo con l’intento di provocare). Non so quanto l’abbia compreso, ma solo che ne ho scritto e che da allora, quel libro (anche se il mondo quasi lo ignora) è variato. In me c’è una fede: Dante rivive mentre lo si legge.
Non lo dico io, ma Borges: un’opera letteraria continua la sua vicenda umana ogni qual volta s’imbatte in una diversa particella che le conferisce una nuova e mutata esistenza. Borges non ha (di certo) scritto questo, ma lo intendeva (forse).
Antonio Gramsci era un intellettuale che sentiva il bisogno di mettere a contatto la cultura elitaria con quella popolare, in modo da farle entrambe reagire. Anche in questo ravviso un’azione fisica e materiale.
“I quaderni ‘sono sì fatti di frammenti’ ma ‘questi non si accumulano casualmente’”. Se un giorno sorbiremo insieme quel famoso caffè da entrambi promesso, caro Raul, voglio chiederti se davvero sai cos’è il caso.
“I Quaderni sono ‘uno dei grandi testi incompiuti del Novecento’”, cito Liguori che cita Raul, “il testo caratteristico di un’epoca segnata dalla ‘crisi delle certezze’”
Nel carcere, luogo in cui la libertà di possedere è negata, ma non quella di essere, “Gramsci sta cercando costantemente di leggere la realtà, non di scrivere saggi eruditi per i quali sarebbe sì necessaria la conoscenza di tutta la letteratura scientifica disponibile.”
La definisce un’“opera mondo”, cioè un mondo che opera in lui, che trova nella sua incompiutezza una necessità miracolosamente soddisfatta.
Segnalo un vezzo di Liguori, a proposito di Gramsci. Egli ama diversificare l’appellativo dell’Angelo Sardo che di volta in volta è: 1) il prigioniero di Turi 2) il marxista sardo 3) il comunista sardo 4) il pensatore marxista, ma soprattutto colui che, come Mordenti, “come tante e tanti altri intellettuali comunisti di questo paese: ha cercato di insegnare e di imparare, in un rapporto continuo e reciproco con i lavoratori e le lavoratrici, con i giovani e le giovani”, di erogare e ricevere energia, in uno scambio equo e solidale.
Che dire dell’articolo di Giovanni Ragone, che chiude la prima arte dell’omaggio amicale e professionale a Raul, se non che è l’unico che chiama Raul Raul e nulla più? E che narra più diffusamente, rispetto agli altri, l’origine e la storia della loro amicizia, con un’emozione che, pur contenuta, trapela in modo subliminale (egli avrebbe forse scritto subliminalmente), da ogni capoverso.
Interessante il suo rimembrare una tesi di Raul: “le opere rielaborano sempre materiali preesistenti, in processi di rimediazione; l’arte (la poesia) si dà sempre come prodotto collettivo, nel suo rapporto con le strutture della produzione, nella relazione (conflittuale) tra forme dell’opera e tecnologie dei media; l’operazione implica come fondamentali i processi ‘di traduzione e di rielaborazione, di riscrittura e di variazione sul tema, di citazione e di allusione, di paradosis’, che danno forma di orientamento dell’opera verso l’Altro, alla azione di condivisione”, in uno slancio che si allarga in campi diversi dalla letteratura, urbani, spaziali, sociali, in una parola: politici.”
Sulla prima parte, tutto bene, concordo, anzi, sfonda uno spioncino aperto, ma…
Rimbaud, il poeta più imperfetto di sempre, dove lo mettiamo, col suo Je est un autre? E Celine, e Perec? E Lautréamont? E l’orrendo De Sade, a cui non ho mai perdonato (unico caso occorso in un paio di decine di centinaia di libri) quel maledetto libro?
Ma lasciamo perdere codesti, e rimaniamo a quel per circa 26 giorni e nulla più comunardo Arthur? Chi mi sa rispondere se sia stato più sociale lui o PPP, Sciascia, e Vittorini? O se siano stati tutti sociali, bastando solo che abbiano scritto e respirato sia pure rantolando?
Ora, cari Raul e Giovanni e compagnia bella, ho deciso di autocitarmi onanisticamente come fate voi: i seguenti sono tre brandelli sanguinanti di una mia reazione ad Arthur:
“J’ai horreur de tous le métiers…”, soprattutto quello per cui mi sono guadagnato la vita nelle ultime quattro decine di anni… Anch’io sono di “race inférieure”, talmente e incommensurabilmente tale, che è ormai cessato il senso di alcun paragone.
“L’éclair”: “Le travail humain! C’est l’explosion qui éclaire mon abîme de temps en temps.”
Sebbene io non desideri produrre alcunché per quella spregevole schiatta umana a cui appartengo… ancora credo nella luminosità dell’azione umana. Perché “Rien n’est vanité”.
Tutto è ignominioso commercio d’armi e di gente disperata.
Perché si legge un libro? Per entrare nella vita dell’Altro.
Perché si scrive un libro? Per entrare nella vita dell’Altro.
Entrambi gli atti sono un cercare i se stessi fuori di sé.
E aggiungo ora: è riscattare la memoria di una necessaria rovina.
Stop.
Dopo aver chiesto scusa per la mia esternazione, forse, quasi sicuramente esagerata, mi rimetto a sedere, e pongo una domanda a tutti i precedenti autori esaminati fino a pagina 101.
Parto dal presupposto che l’apporto che i critici ben strutturati possono dare alla cultura è essenziale e che se non ci fossero bisognerebbe inventarli, ma domando: secondo voi Harold Bloom ha mai letto il Cornell Woolrich di Appuntamenti in nero? E voi, che forse trascorrete intere stagioni a esaminare polverose e ponderose bibliografie, che mi dite a proposito? Vi è piaciuto? La mia è un’impura e maligna curiosità.
Conscio di aver proseguito vilmente e subdolamente la polemica, passo alla seconda parte del libro: Politica.
L’articolo di Alberto Olivetti è sanguigno e si apre con un: “Nel cielo della mia vita il Sessantotto è una costellazione lontana.”
Io invece sono un figlio di un Settantasette per me morto e sepolto.
Alberto riporta una definizione di uno dei suoi maestri, Guido Calogero, per cui lo studium è la “capacità di ascolto”. Sì, è la capacità di sentire e, al contempo, di rimanere attenti a quello che si sente, che sono due atti diversi, ma stú-d-ium vale per impulso interno, tendere con zelo, provare una passione anche, forse.
“2020, dove, come, se, il Sessantotto” – Non è facile rispondere, ma forse lo si può fare, ponendo nuove questioni.
“Mi avvedo che ogni argomento mi si presenta in forme di domanda.”
Buone notizie: significa che l’argomento non è ancora e forse non sarà mai finito.
Cattive notizie, vuol dire che è ancora molto all’interno, e che se non è ancora uscito, il fatto depone male.
“… quell’alcunché di memoria mi giunge, e per dir meglio, mi si fa presente.” – e per dir peggio ancora incombe, come l’It di Stephen King, che si può neutralizzare solo in un modo, dimenticandolo. Ma a volte ritornano, It è tornato più volte, per poi sparire di nuovo, ma fino a quando?
“Del resto, quando rammemoriamo episodi e occasioni e scelte della nostra vita, le descriviamo secondo le consistenze d’una consapevolezza presente e diamo in realtà conto, ricostruendone i momenti di formazione, della sua forma attuale.”
Che ha la consistenza di una cartolina? O di uno studium vero e proprio? Quando io guardo vecchi filmati di quell’epoca, rimango abbagliato, ma non scosso, e non colgo che quella gente, intendo quegli individui, che manifestavano o agivano in base a una nuova etica, erano scossi più che abbagliati, e pagavano con la loro esistenza le proprie scelte. Ringrazio Alberto, per questa mia nuova consapevolezza di quel tempo che non mi è mai appartenuto.
L’allora cinquantatreenne Pietro Ingrao non li capiva proprio, questi giovini che disdegnavano l’autoritarismo, che volevano tutto e subito, e non in piani quinquennali ragionati a tavolino. Se qualcuno gli dice, ad Alberto: “Nel 1968, a Valle Giulia, io c’ero.”, a lui viene da chiedere: “E con questo?”, ma intendendo: A far che?
Nel ‘77 (anno in cui fu assegnata come prova di maturità scientifica la materia di latino orale, come già fu nel ‘68) fisicamente io c’ero, sì, ma, per tutto il resto, ero Altrove.
Alberto narra la tragica vicenda delle violenze perpetrate da “un gruppo di aderenti alle associazioni universitarie neofasciste”, per cui un certo “Rossi, colpito duramente nella colluttazione, svenne, e cadendo giù dall’alto parapetto dell’atrio trovò la morte.”
Non ho vissuto tali orrori, per fortuna, ma pochi anni prima avevo assistito alle botte rifilate da parte di una squadraccia del Collettivo Studentesco del Liceo Scientifico reggiano, cinque energumeni che, altezza media un metro e ottantadue, presero a sberle due macilenti studenti monarchici, altezza media uno e sessantasei, strappando loro i volantini e minacciando quei tapini, con grida di stampo camorristico, di non osare riprovarci!
Questo è uno dei tanti episodi che vissi come vile spettatore, a quei tempi, per cui, pur concordando con le istanze del Movimento (specie le direttive impartite dal governo coi Decreti Delegati), disprezzando in modo equanime monarchici, ciellini e i nascenti Studenti Democratici (mi pare si chiamasse così), che schifai, a meglio pensarci, più di tutti perché, pur nati dal nulla ideologico, grazie ai voti della maggioranza silenziosa raggiunsero numero due rappresentanti di istituto, al pari del Movimento Studentesco. Un alfiere di questi ultimi mi telefonò a casa, invitandomi ad andare a votare, promisi di sì e feci di no. Anche quella volta, restai chiuso altrove, tra gli immoti apoti tipo quelli di Giuseppe.
Carlo Felice Casula, non solo ritorna al Raul, ma è anche l’autore dell’articolo finora più carico e vivace. Sardo dentro e fuori, mostra un bel carattere combattivo, con cui di certo convive dalla nascita, soprattutto da quando ha “fatto il pastore per un anno, dopo le scuole elementari.”
Egli cita poi un link dove Raul ricorda l’omicidio di Paolo Rossi, già rimembrato da Alberto, che subito vado a intercettare e a leggere. L’ex addetto agli armenti lanosi e paterni, ora esimio docente universitario, ha dei ricordi che appassionano, ad esempio quando dice che qualcuno del Collettivo aveva “coniato lo slogan ‘Sardegna come Cuba, sarai il nostro Vietnam!’”
Carlo Felice rammenta un incontro dell’anno appena passato, e mi emozionano le sue parole: “il Collettivo fuori sede si è ritrovato in quasi cento persone, grazie ai miracoli della rete e all’impegno di alcuni di noi, proprio alla casa dello studente cinquant’anni dopo l’anno memorabile del Sessantotto, socializzando ricordi, fotografie e riflessioni, ma anche orgogliosamente constatando, che tranne rarissimi casi, il nostro cuore continuava a battere a sinistra.”
Raul, se per caso un giorno le nostre anime si incontreranno, parlami di Carlo Felice e, se capita, presentamelo.
Seguono Racconti sulle esperienze di movimento in un quartiere di Roma Il collettivo San Lorenzo tra il 1968 e il 1975, scritti da vari volontari di quella benemerita associazione, volta al sociale e alla lotta contro le ingiustizie, tipo quella, più volta citata, delle classi differenziali (“A loro discrezione, direttori e presidi ci confinavano i bambini troppo vivaci o troppo timidi, o balbuzienti”). Come rammenta Claudio Rizzello, “Si davano ripetizioni ai ragazzi, si cercava di partecipare alla vita di quartiere, si scrivevano manifesti da incollare alle pareti di mercato.” Paola Frezza ricorda un aneddoto sfizioso: una classe era improvvisata in un appartamento di via dei Volsci, e talvolta i figli della loro ospite si presentavano alle lezioni in pigiamino, fatto simpatico ma non gradito a una certa Titti Cancelliere. Carlo Pavolini si rammenta del marito di una “signora Sindori, indimenticabile per le sue chiacchiere fluviali”, e del di lei marito che, “dignitoso e riservato, compariva poco, si dichiarava apertamente di destra, ma era una persona civile.” C’è dunque speranza, perché come nella vita si dice ci sia la morte, e viceversa, così, pare, nella destra ci sia la sinistra, e anche il contrario. La frase assomiglia a quella che, nel mio quartiere, si disse di un Pino, siculo: l ē un taròun ma ag à una vòja ed lavurêr ca fà pavura.
Carlo fa un’affermazione che ha l’unico torto di non essere spiegata, per cui rimane in gola al lettore: “E poi noi rimanevano ‘mordentiani’ ma Raul stesso stava prendendo politicamente altre strade.” Il probabile refuso (rimanevamo?) rende la frase ancor più ambigua. Anche quel politicamente, però. Carlo termina il suo arcurdêr con l’entusiasmo, ancora vivo in lui, che “esplose quando si seppe che il referendum era stato vinto con una maggioranza schiacciante: la sera andammo tutti a festeggiare in pizzeria e i compagni della sezione si misero a ballare. Io la ricordo come la giornata più bella della Repubblica”. Gisella Dallabona afferma: “C’era, certo, orgoglio di sentirsi differenti, più di sinistra, di considerarsi portatori di istante e di idee da diffondere. Tuttavia, non c’era chiusura…” Giulio Sansonetti, uno dei più organici fra questi rimembratori, dice che “Di sessantotti ce ne furono parecchi.” Questo plurale stride e attira al contempo. Incrina un po’ il mito, come dire che Gesù è uno dei Messia. Quest’analogia mi dà il destro per dire che questi ragazzi, già allora più vecchi di me (e forse lo sono ancora!) erano immersi sotto una specie di fiammella da Pentecoste, che li rendeva miracolosamente portati all’Altro, specie se in difficoltà. Anche Cludio Trevers chiama Raul Raul, quando ricorda un suo testo in cui egli parla della fame di cultura, di notizie e di materie scolastiche, soprattutto la matematica, cosa che rendeva le 150 ore “lo strumento per cambiare la scuola stessa.”, cosa difficile se “la richiesta più frequente riguardava un ‘sapere tradizionale’”. Non c’era quindi troppo spazio per la predicazione della Buona Novella. Finisce la sarabanda un bel tipino che di nome fa Barbara Pettine che, a occhio, mi pare in grado di pettinare chiunque (me compreso, anche se farebbe fatica, stante il mio scarso crine), che riesce a ricordare le facce, se non i nomi dei suoi assistiti: “un cascherino di macellaio, considerato un po’ ritardato, e con cui avevo sperimentato la didattica di Don Milani”, ispirandosi al suo “Lettera a una professoressa, libro faro che mi aveva sconvolto la vita.” (è grazie a lei che vengo a conoscenza di questo termine desueto, che vale per fattorino). Poi fa rivivere l’immagine di “una ragazzina rossa, magrissima e perennemente arrabbiata col mondo, una irriducibile che ci sputava (letteralmente) in faccia il suo rifiuto per qualsiasi regola che volessimo proporle, un ragazzetto moro con la faccia bionda e con il ciuffo alla Little Tony con il sorriso ironico e sornione, pluribocciato…” eccetera, ma anche “una signora piena di problemi e di figli che abitava al piano di sopra o la porta accanto”, e altri personaggi che riprendono in vita dalla sua tastiera di computer. Se volessi farla incazzare, le chiederei perché alterna lo stato minuscolo o maiuscolo di Collettivo, se collegato a Lettere o a Tiburtino IV. Magari, se la incontri, chiediglielo tu, Raul, e poi rendimi edotto.
A seguire le immagini di scannerizzazioni di ciclostili dell’epoca, che esamino con lo scrupolo di un tecnico di laboratorio analisi.
Nel primo si parla delle tante violenze che le forze dell’ordine hanno compiuto ai danni di innocenti dimostranti, che hanno causato numerosi morti a Battipaglia e ad Avola. Colgo, senza segnalarlo, un refusetto, ormai destinato all’Eternità. Nel secondo, si parla dell’ingiustizia della bocciatura, che altro non serve che a eternare la sudditanza delle classi operaie e agricole. Nel terzo si stigmatizza (urlando) che i libri di scuola costano troppo! (l’esclamativo è mio, perché pure oggi, nel 2020, la cosa non è mutata). A dirla tutta, anche il presente volume costa troppo (€ 24,00), non a me che è arrivato per posta come omaggio. Il che raddoppia l’ingiustizia. Nel quarto desta la mia ilarità l’abbrivio: “Il diritto allo studio è una balla per tanti motivi”, principalmente per il suddetto onere economico relativo all’acquisto dei volumi, per cui si suggerisce lo scambio di libri da una famiglia di proletari all’altra. Forse l’autore dimentica che non sempre un operaio prova solidarietà per un collega, specie se ha una macchina meno vecchia della sua, o altre fesserie (tipo la qualità dei gerani sul balcone); mi domando perciò se il progetto è funzionato, speròm! Nel quinto si urla il preside della Borsi si vergogna! (il punto esclamativo qui è originale), volendo nascondere il numero dei bocciati (113, mentre 180 sono i rimandati, su 757 alunni totali); ben tre volte le truppe del Collettivo si erano presentate a chiederlo, per tre rivolte respinte e disdegnate dal dirigente scolastico! Il sesto è finora il meno chiaro, anche per via di una striscia bianca che lo percorre in verticale e per la qualità pessima del ciclostile: in esso s’ipotizza una scuola serale a San Lorenzo. Nel settimo si stigmatizza un’altra ingiustizia: “8 proletari su 10 sono privi della licenza media”, beh questo non succedeva nella rossa ed esemplare Reggio! Non conosco nemmeno un caso fra i miei coetanei! Nel ciclostile si sbraita No alla truffa delle scuole private! L’ottavo è il manifestino che invita a iscriversi entro novembre alla Scuola serale gratuita. Il nono si apre con il solito slogan-messaggio Scuola per i lavoratori. E si accenna al fatto che “tutti i lavoratori, i disoccupati, le casalinghe e gli apprendisti che vogliono prendere la licenza media gratis in un anno” debbono compilare un modulo. Non conseguire una licenza, quel prendere è molto più democratico. Nel decimo spicca un’imprevista minuscolaggine: s. lorenzo 19 luglio ’71 La resistenza continua nella lotta di classe. E il testo, in cui si parla anche dell’omicidio occorso a Pinelli, comincia con un: Compagni (che, in arşân significa uguali uguali) e finisce con un invito a partecipare a un comizio a Parco Tiburtino lunedì 19 alle 18,30. Cioè, poche ore dopo. Undicesimo: solito strillo che inneggia stavolta al 25 aprile, anche in previsione del referendum (per cui in seguito Carlo ballerà dopo la pizza con i suoi solidali); interessante il gossip che l’autore non sa sottacere: uno dei due strenui difensori della famiglia è oltre che Boia anche Bigamo e tra parentesi si specifica (ha due mogli). Nel dodicesimo si narra di alcuni attentati perpetrati dai neofascisti ai danni di strutture pubbliche e si invita All’unità delle masse popolari e A un piano di autodifesa di massa. Già immagino centinaia di migliaia di romani di etnia non ciociara, alle sei di mattina, formare all’unisono la medesima coreografia, tipica dei cittadini delle metropoli cinesi, alternando la taijiquan alla guangchangfwu! Il tredicesimo è un invito a manifestare “una grande forza e una grande unità nei giorni della provocazione fascista a Roma”. Nel quattordicesimo, la cui immagine è quasi illeggibile, si chiede una massima partecipazione al Popolo dei quartieri popolari di Roma a fianco della classe operaria in lotta per il contratto. Nel quindicesimo si spiega per cosa lottano metalmeccanici, lavoratori della scuola, chimici ed edili. Mi riservo di riparlarne quando mi sarà permesso di leggere con calma il documento originale. Nel sedicesimo si proclama 12 gennaio sciopero generale contro i padroni e il loro governo, contro la politica antipopolare e fascista di Andreotti. Il diciassettesimo esce in occasione dell’8 marzo: Giornata internazionale della donna. Della “donna lavoratrice” si precisa subito dopo, che è vittima di varie ingiustizie: in 10 anni 1.000.000 di donne sono state “espulse dal mondo del lavoro”, sono “meno qualificate, meno pagate, sottoposte alla duplice fatica del lavoro casalingo sommato ala lavoro di fabbrica”, e sono “soggette al ricatto del lavoro a domicilio nel quale il padrone trasforma la loro casa in fabbrica.” Nel diciottesimo Collettivi Tiburtino IV e Sanlorenzo propagandano la lotta di classe contro la DC. Nel diciannovesimo si dice che Il Cile resiste contro il fascismo, anche dopo il sacrificio di Allende, e si indicano le ragioni economiche e capitalistiche che hanno portato al potere quei nemici del popolo. Questo mentre in Italia la Dc applaude a quei militari assassini. Infine, s’invoca alla Resistenza, l’unica arma di cui dispone in definitiva il popolo. Nel ventesimo si segnala la necessità urgente di un’inchiesta volta a conoscere i dati, ad esempio, sugli affitti, sul lavoro, sui servizi sociali. Nell’ultimo si annuncia che Il Vietnam ha vinto. Punto! Anzi, due punti: una vittoria politica, una vittoria militare, una vittoria del proletariato di tutto il mondo. E, soprattutto, è Una confitta per i servi dell’imperialismo. Si trattava, si può dire col senno del poi, di un piccolo successo in una scaramuccia e nulla più.
Credo proprio che Antonio G. sarebbe stato fiero di questi eroici, dialettici e democratici redattori.
La terza sezione del libro è dedicata all’Informatica umanistica.
Il primo articolo di Tito Orlandi è singolare. Lo ringrazio innanzi tutto di due vocaboli che ho acquisito per merito suo: ircocervi e glifici. Nell’articolo di Bérard ne avevo acquisito un altro che ora è piombato nel nulla sempiterno della mia ignoranza e dubito che avrò mai il coraggio di rileggere quelle ormai sperdute pagine.
Dice Tito “Pur refrattario a mettersi al corrente dei particolari tecnici, egli riusciva – come riesce tuttora – per mezzo di quella che potremmo chiamare fantasia scientifica a immaginare come l’informatica può concorrere a migliorare la teoria e la prassi della disciplina.” La frase potrebbe significare: Raul è negato per l’informatica, ma capisce come utilizzarla.
A proposito di un progetto che coinvolgeva altre lingue, Tito ammette un po’ mestamente “di tutto quanto allora era stato pensato, sono rimasti per lo più solo alcuni rapporti di amicizia.”
A proposito di quanto ancora si stenta a ingranare, “Spesso si trascura la differenza fra testi digitali ottenuti mediante optical reading o copiatura, diciamo così, inerte, e vera digitalizzazione.” Ricopiando la citazione avevo scritto per errore mera: il mio refuso dà l’idea della differenza. Una digitalizzazione vera non è affatto mera, ma è totalizzante. Segnalo infine una schermaglia virtuale fra Italo e Domenico (Fiormonte, uno dei due curatori). Ipotizzo, cioè mi creo una delle tante storie possibili, la più probabile garantirebbe Richard Feynman, quella che è quasi certamente accaduta. Italo invia la sua relazione a Domenico, che la legge e, per almeno tre volte, tre volte interagisce e obietta, dopo averlo fagocitata in gabbie di varia ampiezza. Le tre obiezioni sono catturate dall’operatore e ivi commentate. Chi ha ragione dei due? Facile rispondere: chi presenta il risultato al mondo accademico, dichiarandolo al momento concluso: Italo. Ma ogni ragione è immanente, direbbe Karl (Popper). Qui si parla di ri-editing. Sull’editing avrei qualcosa di grave da dire, ma non so se avrò qui occasione.
Ora occorre fare alcuni respiri lunghi, prima di tuffarsi nell’articolo di Dino Buzzetti, filosofo informatico.
Segre afferma, parafrasato da Dino, che “Del testo possiamo avere sempre e soltanto un’immagine, perché il testo è ‘soltanto un’immagine’, perché solo così può esistere, perché non può darsi se non come immagine.” Il testo è un film, se ho ben capito, che appare ogni volta come una singola immagine, a seconda di chi lo esperienza, ma un altro, o lui stesso, subito dopo, ne coglie un’altra. E scorre immagine per immagine. Si può allargare l’esperimento? Chiedo. Poniamo che un audio libro sia letto e che ad ascoltare siano sette persone diverse: ogni attimo dell’ascolto produce sette sensazioni psico-fisiche diverse? E quindi, essendo un attimo indivisibile, possiamo dire che ciascun audio libro produce una serie infinita di sensazioni psico-fisiche? Sette volte infinite?
Chiedo scusa dell’interruzione e torno a Dino.
Il pensiero di Beckett: There are many ways in which the thing I am tring invain to say may be tried in vain to be said è un accadimento, non dico quotidiano, ma sottolineo: perenne, continuo, istante dopo istante, nonché motivo di conflitto nella mente di chi scrive. Immaginiamoci di chi legge.
Jerome McGann: Nessun testo è identico a sé stesso. Purtroppo, sono tenuto ad accettare l’accento sulla e, perché voglio essere consono al testo. Quindi ogni scrittura è perennemente instabile. Perché, domando poco umilmente, esiste qualcosa al mondo che non lo è in modo assoluto? Esiste una relazione d’indeterminazione fra sintassi e semantica, come fra posizione e quantità di moto della particella quantistica. Ma questo vale per tutti i fenomeni fisici. Ma ora stiamo parlando di testo, per cui una frase qualsiasi, del tipo: “Beati i poveri di spirito” può essere interpretata in molti modi. E qui il lettore deve scegliere. A me pare corretta quella del teologo Aldo Bergamaschi: beati quelli che si sentono poveri dentro, e che non permettono alla ricchezza di impadronirsi della loro anima, come insegna il tantrismo.
Questo vale per ciascun autore ed è per questo che prima o poi m’imbatterò in un testo che per anni fui sul punto di comprare, al negozio Remainders in via Emilia San Pietro e che mai lo feci, perché allora (si parla di oltre trent’anni fa) non avevo ancora letto nulla di Sade, prossimo mio! Finora ho avuto modo di odiare tanti libri, per poi sempre riappacificarmi alla fine, o prima o poi, ma questo mai avvenne con l’opera più incompleta e follemente estesa del Marchese. Il suo peccato è agganciato al mio, alla mia stolta incapacità di amarlo come me stesso.
E si spera che sia davvero “la variazione la regola invariante della condizione testuale”. Si spera. Anche perché Dino parte, contemporaneamente, per la tangente e per la parallela alla cotangente, che mai si incontreranno mai, se non colà. Egli non va fuori tema per il semplice fatto che il tema è infinito. La cosa più importante è che il testo può celare paradossi, ma è ognora ambiguo. Io direi poli-guo.
Accenno soltanto alla teoria dei multiversi concepita da Hugh Everett III (mi son sempre chiesto in che mondo vivano i primi due e gli eventuali successivi), secondo cui l’onda particella, al suo incedere, al suo interagire con l’Altro, va dove deve andare, dove la probabilità, anche quella quasi nulla, le impone di andare. E lì, in ogni lì, crea un nuovo mondo. Pensare che vi sia un Altrove in cui in un testo similare a questo via sia un lì non corsivo o addirittura in grassetto lì o, ancora più assurdamente, un lì, o un LÌ, mi fa un po’ rabbrividire.
Il testo di Dino pare inattaccabile, anche per via delle sue molte citazioni autorevoli, per cui in questo caso nemmeno Domenico si è azzardato in alcuna obiezione.
Ho colto un refuso, non grave, non significativo: a pagina 218, tra la settultima riga e la successiva:
“In beve…”
Beh, pelle d’oca! Dino mi ha insegnato tanto (e tanto dimenticherò presto), e persino tre vocaboli: Diacritica, Autopoietico, Rematica.
Per non scordare un termine mi affido a un trucchetto imparato nel corso di un vecchio corso di memoria: vi abbino un’immagine emozionale (erotica, orrida, oppure, che so, romantica).
Diacritica: per un punto Martin perse la cappa!
Autopoietico: il mio amico Silvano mi istruì un giorno sul fatto che ogni atto onanistico deve essere dedicato, a Rosaria, Giovanna, Filippa eccetera…
Rematica (mi viene poco), penso a Ben Hur, ma ancor di più al suo interprete Charlton Heston, condannato a una galera galleggiante, che seminudo si rivolge al suo aguzzino e gli chiede: Ma di cosa stiamo parlando!?, al che l’Altro gli grida, frustandolo: Rema! (destinazione Attica).
Il capitolo, che credevo di aver compreso all’85%, vede precipitare la quota al 13%, per colpa dell’ultimo capoverso: “Sicché, a dispetto della ‘deriva ermetica del decostruzionismo più oltranzista’ che conduce perfino a ‘smentire le possibilità di significazione del testo’, possiamo invece ritenere che il testo, secondo l’antico adagio, una volta pensato, lo sia stato per sempre.”
Passo all’articolo successivo, di Daniele Silvi, che subito mi offre un’insperata sorpresa, una citazione in questo volumaccio tratta da On Writing (ne sono quasi certo) di Stephen King, e mi fa un immenso piacere che uno studioso di letteratura italiana conosca quel libro, che molto mi ha fatto reagire qualche mese fa. Il senso della citazione: le idee di un racconto nascono letteralmente dal nulla; il fatto non è vero ma significa dall’inconnue. Anche un uomo che spunta dal nulla, sembra creato dal Nulla, ma è una vita che ti sta aspettando e che sia un tuo fratello o un assassino lo scoprirai soltanto ora. Il difficile è spiegarlo a quello spettro serioso di Paul.
Una successiva citazione, questa volta di Raul, m’infiamma: egli dice che comprese Leopardi solo dopo la lezione del Binni. Io lessi e apprezzai Canti orfici di Campana, ma li sentii miei, parte integrante delle mie budella, solo dopo che lo sentii recitato da Carmelo, il cui software era quasi completamente compatibile col mio.
La citazione di Eco, che parla dell’umiltà scientifica, non mi dice nulla di nuovo, ma m’illumina come non mai quel che già so. La frase meravigliosamente semplice è: “Chiunque può insegnarci qualcosa.” Anche mio cognato Andrea.
Una volta lo interrogai… a raffica:
“Cosa devi evitare… quando vai a trovare zio Angelo?”
“Non devo chiedergli dei soldi… Pare brutto.”
“Bravo!… E quando vai a pranzo da Sofia… cosa non puoi fare assolutamente?”
“Non devo alzarmi a metà del pranzo… ma aspettare che tutti abbiano finito.”
“Ottimo!… Cosa fa arrabbiare soprattutto tua sorella?”
“Quando passo con le scarpe sporche… dove ha appena lavato…”
“Bene!… E cosa ancora?”
“Andare a letto coi piedi sporchi.”
“Complimenti!… Lo sai, André?… In teoria sei un bravo ragazzo!”
“Sì. Lo saccio. Ma è la pratica che mi riesce difficile!”
Nemmeno Soren avrebbe potuto essere icastico come l’Amalfitano.
Daniele emana simpatia da ogni riga, ed è anche per la lezione di vita e di letteratura ricevuta dal suo maestro Raul, che gli ha insegnato a leggere anche con la mente sgombra, per il gusto di farlo. Molto poetica l’immagine di Daniele che legge La ginestra con in mano un reale ramo di ginestra. E nell’osservazione che letteratura “è lì, in quel ramo di ginestra, In quel panorama all’orizzonte, in quel profumo di pane caldo.”
Un saggio tibetano, alla domanda se c’era vita dopo la morte rispose: nella vita c’è la morte, nella morte c’è la vita.
In modo non analogo, ma non opposto: “Tra ragione e sentimento, tra critica e fruizione estetica, tra rigore e piacere della lettura sempre in armonia con le parti, questo è l’insegnamento di Raul per me.”
L’articolo di Daniele, che è quello che più mi ha emozionato, ha tanti momenti che stimolano la discussione con qualcosa che vige dentro di me. Sta discorrendo ora della scuola media inferiore, quando veniva assegnato un tema e vigeva l’obbligo di riempire almeno tre colonne del foglio protocollo. Quest’imposizione, che allora lo faceva soffrire, gli “insegnò che le parole potevano (e in alcuni casi dovevano) essere manipolate”, inventando “un numero di elementi da elencare”, ma anche l’utilizzo di “artifici retorici per espandere in dieci righe quello che si poteva comodamente condensare in una.”
Questi obblighi atroci mi fecero soffrire assai, specialmente quando mi fu comminato (nel senso senz’altro esagerato di condanna) un tema di cui non ricordo nulla, se non che mi risultò più breve del solito, che mi conferì un bellissimo e meritatissimo 4, per cui quella graziosa professoressa mi disse che esso era semplicemente brutto. E nel dirlo, fece una brutta smorfia. Aveva ragione. Ma questo non cambia il fatto che solo dopo qualche anno riuscii a farmene una ragione, quando scoprii che Luigi in pagella aveva il mio stesso voto in italiano scritto: 5. Anche ‘sta storiella mi insegnò che per tutta la vita avrei scritto principalmente per i fatti miei, perché, come dice l’ulteriore citazione kinghiana che chiude l’articolo di Daniele, “La vita non è un supporto per l’arte. È il contrario.”
King, nell’opera citata, parla di “Telepatia, naturalmente”: E qui, non so quanto consciamente, egli si collega alla meccanica quantistica. Due esseri: uno scrive, l’altro legge, a distanza di anni, secoli o millenni, a cinque chilometri da casa tua, o nel tuo letto coniugale, o nell’emisfero opposto della Terra. È il miracolo, come già dissi, dell’entanglement, il collegamento che c’è sempre stato, che solo a volte prende forma nella realtà. La scrittura non è rappresentazione, è realtà che viene rappresentata come tale.
Ora tocca all’articolo di Paolo Monella, che come insperato cadeau, a pagina 244, nota 4, mi restituisce il vocabolo che Bérard mi aveva regalato e io avevo smarrito: ecdotica, per cui cercherò, finita questa fatica, un’aneddotica, anectodal, an edcdotic in grado di farmi ritenere per altri quarant’anni il termine, dovesse ancora servire. Ne sopraggiungono altri: grafematica, sintagma, diacritico, allografo e altri: ma sono tutte sciocchezzuole per un arşân tèsta quêdra cme mé.
L’articolo è molto nozionistico, al pari di quello di Dino, e non è privo di spunti di riflessione.
In un gruppo facebook di amanti del dialetto delle mie bande, Parlòm ed dialètt parlòm in dialètt, c’è stato il seguente dialogo fra il sottoscritto e Denis Ferretti, autore di Grammatica di dialetto reggiano (2016). Prima vorrei spiegare che sono un figlio degli anni ’50, per cui frequentai la scuola media inferiore nei primi anni ’70. Ricordo un cartello che nell’atrio così in quegli anni ammoniva chi entrava nell’edificio scolastico: Vietato parlare in dialetto. E che Tassoni, modenese, ne La secchia rapita, disse che i reggiani presero tante legnate in testa da farla diventare quadrata.
Pongo la questione: A mé che a sùn metecc (metèe italiân e metèe tèsta quêdra) sfugge sempre la differenza fonetica fra queste e: Prēt Intêr e Infièe.
Risposta come sempre precisa e completa (cme un dî in dàl…) di Denis: Sul Ferrari Serra ée = ē, èe = è. La differenza è solo un suo vezzo grafico: preferisce mettere le due vocali quando sono finali di parola, che fa molto francese. Mentre, “se il suono è tra due consonanti o iniziale di parola, lo mette col macron (suono chiuso) e con il circonflesso (suono aperto). Stessa logica con la ó. In tutti gli altri sistemi che usano il circonflesso ê e ô sono usati con il suono chiuso (cioè l’opposto del Ferrari-Serra)”; che è ancora oggi il più autorevole dizionario reggiano-italiano, concepito nel 1989, mentre la mia edizione è del 2009.
Ed è da qui che sorgono le difficoltà nel gruppo social di dialetto, in l’amministratore ha cercato di sensibilizzare gli utenti nell’uso degli accenti, anche per evitare a volte imbarazzanti equivoci che sorgono fra parole che in italiano si scriverebbero in un modo uguale, in arşân no. Questa s col pedicello in italiano sarebbe la ş di asino chi legge ma non sa scrivere. Mia madre, che lo parlava dalla nascita, non compiva mai errori di senso, ma oggi chi lo scrive o lo legge invece sì.
Ho letto con interesse la parte del capitolo, del resto assai estesa, che tratta dell’arabo: “quando i giovani si scambiano messaggi in lingua vernacolare (cioè nelle varianti locali dell’arabo) scrivendo sullo schermo di un cellulare o di un tablet, tendono sempre di più a scrivere l’arabo in caratteri latini, più semplici da inserire in quei contesti, in quanto i sistemi operativi di quei dispositivi sono stati disegnati in occidente, e successivamente adattati all’input in caratteri arabi.” E questo pare un tradimento, un traviamento dello spirito arabo. Infatti “i popoli arabi e maghrebini, ribelli ad un impero sempre meno ottomano e sempre più turco, hanno trovato proprio nella lingua e nella scrittura araba uno dei simboli identitari di quella lotta.” L’ASCII è l’acronimo di American Standard Code for Information Interchange). Da cui: Yankee vattenne a casa! Ma Yankee non ci pensa proprio di rincasare.
Siamo al capitolo finale, gestito dai due curatori: oltre che Domenico, c’è Paolo Sordi.
Una loro frase, volutamente travisata, forse stimolerà la mia esternazione finale: “il modo in cui le tracce digitali inglobano, riverberano e talvolta amputano il sé materiale.”
Una citazione di Raul esamina il “corpo collettivo del movimento ‘in fusione’, questo rapporto speciale che nel movimento si stabilisce fra compagni è della massima importanza.”. Continua, poco dopo: “Nel movimento infatti uomini e donne già prefigurano e vivono un rapporto sociale diretto e non alienato giacché ciò che li ‘tiene’ insieme è appunto un reciproco riconoscimento immediato, questo – a sua volta – deriva dalla volontà comune di cambiare il mondo insieme, dalla lotta collettiva.”
Risponde questo cane sciolto, sciolto, ma soprattutto cane (nato nel 1958).
Occhio a scegliere bene il movimento, perché dovrai convivere e lottare con gli altri individui facenti parte del medesimo armento.
Sono ignorante di dio dall’età di 14 anni e, come tale, lessi a 17 la Bibbia. Non so se so, ma vado avanti lo stesso. Frequentai nel ’91 il movimento di CL di Carpi, ma solo per il solito kam’a. Con loro mi recai una sera a Bologna, dove giocammo, prima di andare in pizzeria alla muffa (eravamo una trentina di anime perse).
Chi non conosce quel terribile gioco? La maggior parte dell’umanità. Eppure, il ragazzo ciellino che lo propose, una sera, a Bologna, sbraitava:
“Sì, lo so, è un gioco stupido stupido… ma è bello!”
Si gioca in piazza. La muffa è composta da tre ragazzi che si tengono per mano. Tutti gli altri (non meno di una ventina) si dispongono a coppie e aspettano che la muffa venga a catturarli. E ovviamente cercano in tutti modi di evitarla. Ma, prima o poi, alcuni vengono toccati e appena questo accade anch’essi diventano parte della muffa, che è ad ogni giro più grande, potente e difficile da evitare e simile ad un laser di fotoni ciellini! Il gioco finisce quando l’ultima coppia indipendente viene associata alla comunità di organismi che compongono la muffa. Una mezza imbeccata per capire il messaggio. Quando si è in gruppo, non esistono altre associazioni umane, né coniugi, né fidanzati, né amici, ma si è soltanto parte del Movimento. Uno slogan ciellino di quegli anni era: Che il Movimento sia la tua ragazza!
Ricordo che, seduti al ristorante, mi scappò una bestemmia che parve a tutti molto olezzante. Dissi che anche il Cristianesimo era un’ideologia, per cui una certa Nadia, capa della pattuglia quella sera, mi aggredì, cercando di farmi entrare nella zucca una banalità: No! È un’esperienza! – Il che è vero, come lo è andare in una latrina e svuotare le viscere. Ma lei intendeva che era soltanto un’esperienza. Appunto, come recarsi in quel luogo che a Reggio chiamiamo licit, dove quasi nulla è vietato. In un movimento serio queste cose non capitano. Oppure sì?
La parte del capitolo di competenza di Domenico, termina con un pensiero molto attuale: “E Zuckerberg e compagni diventano gli editori dell’opera completa della nostra vita.” È verissimo, anche se non mi pare che Zucky sia circondato da compagni, bensì da subordinati. È grazie a lui che ho pubblicato finora, a gratis, senza compensi ma nemmeno spese, ed è soltanto lui che ci ha lucrato. Ma l’avrebbe fatto anche se avessi postato immagini di me mentre m’ingolfo di lasagne. Ed è sempre grazie a isso che sono stato contattato dalla direttrice della rivista on line che sta pubblicando questo mio articoletto. Grazie Zucky, per avere fatto i cazzi tuoi con i nostri! Più preciso: di esserti fatto coi cazzi nostri! Grazie a te voliamo come tanti easy rider! Sei miliardi di centauri su-Zucky! Il settimo, invece, che fine sta facendo laggiù, dove assai batte il sole?!
Il dioscuro Paolo dice: “un testo interattivo, di fronte al quale il lettore partecipa al processo di creazione di senso avviato dall’autore seguendo un itinerario che si forma all’interno e all’esterno del testo; un testo, infine, pubblicato in rete, messo in condivisione e comunicazione con altri testi.” Insomma, hanno scoperto un rivo strozzato che gorgogliava già dai tempi di Jorge, solo che ora è telematico.
E continua: “possiamo dire che le piattaforme si occupano non soltanto di riflettere una cultura, una tradizione, quanto di produrre la cultura in cui viviamo, di fissare una nuova tradizione e di fissare una nuova pedagogia globalizzata.”
Nel paragrafo successivo, Paolo racconta la mia storia senza manco interpellarmi, per cui (…o missis…)
E poi di altri soggetti di mia conoscenza (… omissis…)
Qualcuno sogna di uscire dall’orbita di Google, “oppure siamo giunti a uno stadio di irreversibilità in cui soltanto una rivoluzione politica globale possa cambiare le cose.” Lo stavo pensando anche io, mentre ti stavo leggendo, caro Paolo. Bisognerebbe ridurre al minimo la proprietà privata, e ridistribuire le ricchezze, partendo da quel Sud del mondo che tu citi. Il Che sarebbe d’accordo. Io invece non ne sarei credo capace, e tu? Potrebbe occuparsene una dittatura. L’alternativa è o un buco nero googooliano o uno rosso marxista-leninista.
Quand’ero piccolo e non potevo stare alzato fino alle dieci e mezzo per poter assistere ai servizi giornalistici della RAI, in occasione delle partite di coppe del Milan, mi chiedevo, mentre mi rigiravo nel letto, com’era possibile che in nessuna biblioteca del mondo, non solo nella mia casalinga, mancasse un volume in cui fosse scritto il risultato della partita. Neanche adesso c’è. Ma basta un cellulare, tenuto nascosto sotto le coperte, e il teenager di oggi viene informato su what is just happened all over the world.
“Ogni potere, per realizzare e implementare il suo progetto di dominio, ha bisogno di controllare ma soprattutto di omogeneizzare le culture.” Quel che fece il CCCP, poi CSI (e non alludo a Giovanni Lindo). Ora i lituani imparano dapprima il lituano, poi il russo. E così gli estoni, i lettoni, i kirghisi and so on. Era anche il sogno dell’unico maestro che ho frequentato da ignorante ogni domenica, Padre Aldo Bergamaschi (che nelle sue omelie citava tanto Alessandro, quanto Karl, tanto San Paolo quanto Antonio). Egli affermava che solo una lingua comune come l’esperanto avrebbe unito le genti. Egli, autore che raccomando a voi eventuali ignoranti, fu fatto fuori dal Vescovo quella settimana che precedette l’arrivo a Reggio Emilia del sig. Karol Józef, di cui Aldo era stato, negli anni, decisamente critico. Egli diceva, nel giorno dedicato alle Missioni, che non raccomandava di dare o di non dare l’offerta, ma avvertiva che quei soldi sarebbero serviti per creare colà quel che era costì. R.I.P., Aldino mio.
Non vincerà l’esperanto, ma sarà una lotta senza tregua fra il cinese e l’inglese (favoritissimo). In ogni caso, prima, durante e dopo tale contesa, trionferà indisturbato l’ASCII o un suo derivato.
Prima di lasciarvi, cari e casuali compagni (di viaggio), vi ammonisco di porre a mente il pericolo più grave che deriva dalla informatizzazione della cultura, che non ho colto nella vostra squisita silloge.
Jack London consegnava a mano o per posta i suoi romanzi, che l’editore affidava a un correttore di bozze e questo tran tran era in uso fino a pochi anni fa.
Ora quell’umile operaio ha fatto carriera ed è diventato editor, che è la sorella affarista di It, il cui lavoro è enormemente agevolato dal testo che l’autore gli ha inviato in un formato elettronico.
Esistono anche casi, che non paiono assurdi, ma quasi accettabili. Un autore invia il suo file, che viene analizzato da un editor, il quale lo accetta oppure lo rifiuta. Nel primo caso, l’autore è invitato a procedere a un crowfunding, in altre parole a cercare acquirenti, in genere tra parenti, amici e contatti social. Raggiunta una certa quota di pre-acquisti, si procede all’editing, per cui l’opera prenotata comincia a essere perfezionata. Al termine di un periodo che può protrarsi per circa un anno, il libro viene stampato, inviato agli acquirenti e distribuito nelle librerie. Tutto questo limita al massimo il rischio d’impresa della casa editrice. Poi ci sono le case editrice a pagamento, e questa è ancora un’altra storia, che al momento tralascio di esaminare.
È mia opinione che l’editor muti a tutti o quasi tutti i livelli, ogni opera nuova che viene ora pubblicata. Non ne ho certezza, ma pongo la questione a chi è in grado di rispondere.
Caro Daniele, certamente sai che, quando Stephen (l’Altro, quello ricco e famoso) consegnò The stand, strepitoso romanzo che anticipò nel 1978, anno della sua pubblicazione, la pandemia di oltre quarant’anni dopo, esso consisteva di oltre 900 pagine. All’editore non piacque tanta immensità e ordinò al non ancora celebre autore di ridurlo a circa 600.
Non sapendo nulla di tutto ciò, lo lessi qualche mese fa, per poi scoprire quel lontano e prescritto crimine. Anni dopo, resosi più autorevole dai soldi che aveva procurato a chi lo stava producendo, Stephen riuscì a pubblicare la versione originale, quella che un giorno leggeranno i miei figli, avendola io acquistata successivamente. Ignoro se mi sobbarcherò di nuovo la fatica per una simile impresa, avendo tanti altri libri da ingurgitare.
Ogni lettura, anche questa, è un sacrificio che è volto a ricreare quel divino che, secondo Mircea, talvolta convive miracolosamente con l’umano.
Come l’ammasso di cellulosa che ho tra le mani e che ho terminato di manducare, bibere ac reagere in sei giorni. Oggi riposerò, imitando un mio stimato e ineffabile Collega.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
AA. VV., Letteratura e altre rivoluzioni – scritti per Raul Mordenti, Bordeaux Edizioni, 2020