“La scatola di cuoio” di Gianni Spinelli: cadere preda dei piaceri terreni o tendere verso l’alto?
La curiosità – si dice – è donna. Ma a volte si declina anche al maschile. Ne sa qualcosa Antonio Forini, morbosamente affascinato da una misteriosa scatola di cuoio.

E questo oggetto costituisce il punto di svolta dell’intreccio de La scatola di cuoio (Fazi Editore, 2019, pp. 213), brillante romanzo di Gianni Spinelli, giornalista professionista, già vicecaporedattore de «La Gazzetta del Mezzogiorno».
Difatti Spinelli ci conduce al Sud, a San Clemente, paesino della Basilicata dimenticato da Dio e avulso dai mutamenti sociali in corso nel lasso di tempo che va dal 1959 al 1970, decennio in cui si dipana l’azione.
Il 12 dicembre 1969 avviene la strage di piazza Fontana a Milano; il 7 e l’8 giugno 1970 si svolgono le prime elezioni regionali anche in Basilicata ma San Clemente resta sospesa in una sorta di limbo e galleggia – isola ancorata alla tradizione – nel mare della modernità, in ben altre faccende affaccendata.
Il 5 febbraio 1959 don Pantaleo, Provinciale dell’ordine dei Cappuccini, viene ritrovato morto, riverso su una scatola di cuoio. Mentre le forze dell’ordine si attivano per chiarire le cause del decesso, il notaio dà lettura del testamento: tutte le cospicue sostanze del defunto finiscono nelle mani di donna Marta Fontiuzzi, non più giovane moglie di un nipote del Provinciale.
Qualche anno dopo ella rimane vedova e, non avendo figli, comincia a passare in rassegna i congiunti alla ricerca di un degno erede. A tale scopo prende con sé la nipote Lucia e ne fa una sorta di dama di compagnia.
La ragazza non regge l’impatto con la casa in cui aleggia lo spettro di don Pantaleo e fugge. È la volta della sorella, Enrica, la quale sembra adattarsi fin troppo bene alla vita con la zia. Quando quest’ultima scopre le frequentazioni notturne della nipote con un giovane, Enrica – schiacciata dal peso della vergogna – lascia spontaneamente la casona.
Alla ragazza subentra la cugina Margherita, affascinata dalla biblioteca del Provinciale. Anch’ella però finisce con l’averne abbastanza della zia e preferisce sposare Antonio Forini, pur non amandolo né stimandolo. Alla povera donna Marta non resta che mettere alla prova Carmela e Laura; proprio quando la situazione sembra volgere al meglio, la zia viene a mancare.
Si scatena allora una lotta fratricida per l’eredità. I fratelli e le nipoti di Marta sono stati estromessi e il patrimonio passa a tale Sebastiano Fontiuzzi, parente romano di cui tutti ignoravano l’esistenza. La contesa è sempre più feroce; la morte di Sebastiano sembra preludere alla fortuna dei parenti sanclementinesi.
Ma dalla misteriosa scatola di cuoio di don Pantaleo viene un colpo di scena e un destino beffardo cambia le carte in tavola proprio quando i giochi sembrano chiusi.
Don Pantaleo è un moderno frate Cipolla, se possibile più vizioso dell’antenato medievale. Egli è infatti dedito ai peccati di gola, di lussuria e di avidità. È un fantasma agli occhi dei concittadini; tutti sanno della sua esistenza ma nessuno lo ha mai visto passeggiare per le vie del paese. Nessuno lo ha mai visto ad eccezione dei pochi eletti ammessi alle sontuose cene che il “sant’uomo” offre ogni sabato sera.
Sono pasti luculliani che si protraggono fino a notte fonda e che rappresentano lo status symbol di un’oligarchia la quale attinge dalla partecipazione a questi eventi il riconoscimento della propria superiorità sociale. Il mistero che aleggia intorno alla figura di don Pantaleo alimenta la fantasia dei sanclementinesi. Si favoleggia di “donne pittate” che frequenterebbero di notte la canonica per soddisfare le voglie dell’uomo di chiesa; femmine di malaffare ma anche mogli insospettabili che concederebbero le proprie grazie al Provinciale in cambio di laute ricompense.
Si dice anche che don Pantaleo sia titolare di un patrimonio da Mille e una notte accumulato per fas et nefas, con mezzi leciti e illeciti grazie alla sua connivenza con i notabili del posto. Si vocifera anche che proprio quelle cene fastose siano la sede di “affari, complotti e decisioni importanti”.
“Aveva professato i voti di castità, povertà e obbedienza, ma la voce del popolo, che non sapeva ma sapeva, era unanime: «Un malfattore con il saio, che non si vede ma che c’è»”.
Insieme a don Pantaleo donna Marta Fontiuzzi, coniugata Barberini, è il pilastro portante dell’impianto narrativo. Donna Marta, novanta chili di austerità, capelli neri raccolti a tuppo e fermati da tanti spilloni, abito largo e lungo fino a terra e scialle che copre le spalle e il seno imponente, tanta peluria sul viso, è tutt’altro che attraente. Ma ella supplisce alla mancata avvenenza fisica con un ingegno machiavellico e un’astuzia da Messalina che le permettono di dirigere l’andamento della casona e degli affari di don Pantaleo.
“Don Pantaleo, abituato a dominare donne belle e pittate, negli affari si faceva dominare da una donna che più brutta non si poteva”.
Grazie alla sua sottile scaltrezza e con una paziente tattica da ragno che imprigiona la preda nella sua tela, ella si ritrova titolare dello smisurato patrimonio del Provinciale. Il culto della “roba” è ciò che dirige le azioni di donna Marta, come accade al verghiano Mazzarò. E come per Mazzarò, anche della Fontiuzzi si potrebbe dire: “Di chi è la casona?”. La risposta sarebbe: “Di donna Marta”. “Di chi le case in paese e a Roma?”. “Di donna Marta”. “Di chi i terreni, i soldi e l’oro?”. E la risposta sarebbe sempre: “Di donna Marta”.
Ma Marta, che non ha figli, si trova ad essere circuita dai parenti ingolositi dal ghiotto malloppo. Se è vero che è proprio lei a mettere alla prova le nipoti al fine di scegliere la più degna di ereditare le sue sostanze, è altrettanto vero che ella è sola. Disperatamente sola perché arcigna, dura, ruvida. Le ragazze, pur indottrinate dai genitori, non reggono la convivenza con la zia che si ritrova abbandonata dal suo stesso sangue. E allora, ancora una volta, agisce d’astuzia e si burla della propria famiglia. La quale non ci sta. Non ci sta a veder sfumare l’impero di donna Marta. Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames? dice Virgilio.
E la fame di ricchezza mette a soqquadro i rapporti tra i Fontiuzzi. Alla morte della parente si scatena una lotta senza quartiere per l’eredità, una contesa fatta di litigi e colpi bassi, di cavilli e carte bollate e di uomini di legge.

Il clan Fontiuzzi si spacca: da una parte Mario e le figlie, dall’altra Ferdinando e la sua Margherita. L’unico ad essere soddisfatto, anzi euforico, della volontà testamentaria di donna Marta è Antonio Forini, marito di Margherita, un uomo goffo e sempliciotto, un tipo che “fra centomila lire e un portachiavi di metallo, sceglie il portachiavi, senza pensarci due volte”.
Secondo le disposizioni della cara estinta Antonio ha diritto a scegliere un oggetto qualsiasi tra quelli a lei appartenuti. E non ha dubbi: la scelta cade sulla misteriosa scatola di cuoio nei confronti della quale egli nutre una profonda e viscerale curiosità dal giorno di Natale del 1968.
In quella occasione donna Marta gli aveva detto: “In quella scatola c’è un aggeggio… Si accende e appaiono cose strane”. Da allora l’idea della scatola di don Pantaleo si insinua come un tarlo nella mente di Antonio e prosegue il suo lavorio fino alla dipartita di Marta.
L’ambìto oggetto diventa per l’uomo un fidato compagno, un amico con cui trascorre momenti lieti che gli permettono di dimenticare il grigiore della propria vita.
“La scatola, la creatura, per Antonio era un’isola sconosciuta da scoprire, meglio, molto meglio della casona, dei terreni e dei soldi”.
La penna sagace salace mordace di Spinelli castigat ridendo mores; quell’ironia che ci fa sorridere lascia un retrogusto amaro. La prosa brillante dell’autore dà corpo ad una satira degli umani appetiti: gola, avidità, cupidigia e sesso sono i dèmoni contro cui si scagliano gli strali di Spinelli.
Una patina favolistica aleggia in tutto il romanzo e fa da contrappunto a una sottotraccia gialla. Spinelli sa dosare bene luci e ombre; alla cupezza di certe scene – quali la biblioteca o gli interni della casona – si contrappone la luminosità di quelle che ci portano per le vie di San Clemente o di quelle che ci fanno sorridere e gioire.
La scrittura di Spinelli si lascia leggere amabilmente ma la sua apparente leggerezza non deve ingannare: il tono semiserio ci ammonisce a non cadere preda dei piaceri terreni ma a tendere verso l’alto, in un continuo esercizio di ascetismo e in un effort di elevazione spirituale. Perché i beni materiali passano ma i veri Valori non passano mai.
Written by Tiziana Topa