Seveso, città-simbolo di un disastro ambientale: a distanza di anni dal drammatico evento la diossina fa ancora paura?
“… voi che vivete tranquilli nella vostra coscienza di uomini giusti, che sfruttate la vita per i vostri sporchi giochetti allora, allora ammazzateci tutti!” − Antonello Venditti, cantautore

La ‘fabbrica dei veleni’, così si può definire lo stabilimento ICMESA, in quanto, solo a evocarne il nome, è sinonimo di uno dei più gravi disastri ambientali avvenuto in Italia.
Dell’ICMESA, oggi, non rimane molto: solo un muro sbrecciato; ma il danno impresso è rimasto nella memoria collettiva dei suoi abitanti; e, per non dimenticare, nel sito dove si trovava lo stabilimento è nato un centro sportivo e uno spazio verde adibito a parco. Iniziativa apprezzabile questa.
Ma, sebbene siano trascorsi tanti anni dalla catastrofe, la paura della diossina non è ancora stata debellata.
Ma, per capire come è avvenuto un evento di così tragica portata, è utile ricordare l’attività svolta dall’ICMESA. Era un’industria chimica che si occupava della produzione di prodotti farmaceutici nella zona della bassa Brianza. Acquistata poi dal gruppo La Roche nei primi anni Sessanta.
Testimonianze a livello locale parlano di controversie fra gli abitanti della zona e i proprietari della fabbrica, non senza un motivo valido, e denunciato più volte: scarichi nel torrente Certesa, esalazioni che avevano intossicato il bestiame, anche se in quale misura non si poté quantificare. Comunque, questi ‘episodi sgradevoli’, solo per usare un eufemismo, nulla avranno a che fare con quello che accadde in un sabato infuocato di piena estate.
Era il 10 luglio del 1976 quando il sistema di controllo di un reattore chimico dell’ICMESA, destinato alla produzione di triclorofenolo, un componente di diversi diserbanti, andò in avaria. La temperatura aumentò oltre i limiti previsti, provocando una reazione che portò alla formazione di diossina Tcdd, sostanza fra le più pericolose e tossiche che, spinta dal vento, investì la cittadina di Seveso, disperdendo circa 400 Kg di prodotti di reazione e reattivi, e contaminando oltre 1800 ettari di terreno.

L’esplosione del reattore venne ‘fortunatamente’ evitata grazie all’apertura delle valvole di sicurezza, ma l’alta temperatura aveva causato una modifica della reazione che comportò un’ampia formazione di diossina, in quantità non definita, ma che formò una nube tossica, la quale si disperse in tutta la zona.
Le prime avvisaglie del malessere avvertito dalla popolazione furono un odore acre e pungente, oltre a un’infiammazione agli occhi, di cui la gente inizialmente non comprese l’origine.
Sì, perché gli abitanti del luogo, ignari protagonisti del disastro che li aveva colpiti, non erano a conoscenza dell’accaduto, e per sette giorni rimasero all’oscuro dell’episodio.
E trascorsi 5 giorni i sindaci di Meda e Seveso presero i primi provvedimenti per tutelare la salute della loro gente.
Quindi, il danno della fuoriuscita della diossina fu gravissimo e quasi di sicuro irreparabile, ma il fatto oltremodo grave fu che l’allarme non fu dato nell’immediatezza del fatto ma alcuni giorni dopo: l’intervento di bonifica risultò ovviamente più ostico. Nel frattempo i primi deleteri risultati dell’evento cominciavano a essere evidenti: i casi di cloracne furono centinaia, come centinaia, furono coloro che, allontanati dalle loro case, che furono distrutte, alloggiarono in hotel della zona.
La cloracne è una forma di dermatosi provocata dall’esposizione al cloro che crea lesioni e cisti sebacee.
Ma non furono solo le persone a subire i danni di un disastro ambientale di così vasta portata: anche animali di piccola taglia e molte piante pagarono uno scotto alto: perirono, vittime innocenti dell’imperizia dell’uomo.
Necessariamente, ebbe inizio l’intervento di decontaminazione della zona anche se in tempi piuttosto tardivi.
Furono 3 le zone in cui venne suddiviso il territorio che circondava l’ICMESA, in base alla quantità di diossina presente nel terreno; anche se quantificare la portata divenne un’impresa poco fattibile. La più inquinata risultò essere la zona A, le cui persone furono fatte evacuare.

Mentre le zone meno inquinate risultarono essere la B e la R, dove fu vietato assolutamente le coltivazioni o l’allevamento del bestiame. Il quale fu abbattuto in gran numero.
A questo punto il processo di bonifica, necessario e doveroso, purtroppo fu lento e piuttosto difficoltoso. Si trattava di rimuovere il terreno della zona A (fino a mezzo metro circa di profondità) e racchiudere il materiale contaminato in luogo sicuro, affinché non fosse nocivo, più di quanto fosse già stato.
Ma, la costruzione di due vasche in cui doveva essere raccolto il materiale contaminato furono costruite soltanto nel 1981. E, ancora oggi sono monitorate per evitare il pericolo di un’ulteriore contaminazione.
La zona A, la più esposta, fu ricoperta di nuovo terreno, e simbolicamente vi furono piantati alberi, un complesso di vegetazione a cui fu dato il nome di Bosco delle Querce. A dimostrazione che la natura può avere la meglio sulla contaminazione.
A tutta questa serie di gravi problematiche se ne aggiunse un’altra: il progetto per la costruzione di un’autostrada, il cui piano prevedeva che il tracciato passasse proprio dal Bosco delle Querce.
Dunque, l’area verde sarebbe stata cancellata e al suo posto sarebbe sorta un’autostrada. Ma, secondo il progetto iniziale si sarebbe potuto verificare un nuovo disastro, perché il materiale contaminato del 1976 sarebbe ‘risorto’ per lasciare il passo ai nuovi lavori.
Infatti, i carotaggi effettuati per verificare la quantità di diossina contenuta nel terreno dove sarebbe dovuta passare la Pedemontana diedero risultati sconcertanti, anche se non inattesi: il terreno conteneva diossina superiore ai limiti consentiti.
Complici gli ambientalisti, che si sono battuti affinché il progetto non venisse attuato, l’idea pare sia stata modificata, anche perché la società avrebbe dovuto provvedere alla bonifica. Quindi, per adesso, il proposito sembra di non facile realizzazione, a causa di debiti della società interessata.
Ma il fantasma della diossina sarà sempre pronto a risorgere dalle sue stesse ceneri, e la paura non abbandonerà mai gli abitanti di Seveso e delle zone limitrofe, se la questione non sarà chiusa definitivamente.
Che dire poi dell’effetto deleterio che la fuoriuscita di diossina poteva avere sulle donne in gravidanza, e soprattutto sul feto che portavano in grembo?

Non si poteva sapere con certezza l’effetto che la diossina avrebbe potuto avere sul futuro nascituro, ma le probabilità di alterazioni neonatali conseguenti alla residenza nella zona A delle future madri era uno spettro da non sottovalutare.
Il governo Andreotti, all’epoca in carica, autorizzò le donne che ne avessero fatto richiesta ad avvalersi dell’aborto terapeutico, onde evitare di mettere al mondo creature deformi. Che piaccia o non piaccia questo tipo di scelta era una decisione strettamente privata, che spettava soprattutto alle donne. E alcune di loro ebbero il coraggio di scegliere di non dare vita ai loro feti. Comunque, la questione fu molto discussa e suscitò dibattiti, in una zona ad alta concentrazione cattolica.
Che dire infine della questione economica, o meglio, del risarcimento per il sopruso subito dalla comunità? La Regione Lombardia e lo Stato italiano ricevettero denaro destinato alla bonifica e alla sperimentazione. E così la popolazione, che in prima persona aveva subito un danno irreparabile e non quantificabile, fu risarcita, probabilmente con un pugno di denaro.
Written by Carolina Colombi
Interessante l’articolo! Complimenti.