Donne contro il Femminicidio #57: le parole che cambiano il mondo con Silvana Sonno
Le parole cambiano il mondo. Attraversano spazio e tempo, sedimentandosi e divenendo cemento sterile o campo arato e fertile.
Per dare loro il massimo della potenza espressiva e comunicativa, ho scelto di contattare, per una serie di interviste, varie Donne che si sono distinte nella lotta contro la discriminazione e la violenza di genere e nella promozione della parità fra i sessi.
Ho chiesto loro, semplicemente, di commentare poche parole, che qui seguono, nel modo in cui, liberamente, ritenevano opportuno farlo. Non sono intervenuta chiedendo ulteriori specificazioni né offrendo un canovaccio.
Alcune hanno scritto molto, raccontando e raccontandosi; altre sono state sintetiche e precise; altre hanno cavalcato la pagina con piglio narrativo, creando un discorso senza soluzione di continuità.
Non tutte hanno espresso opinioni univoche, contribuendo, così, in modo personale alla “ricerca sul campo”, ma tutti si sono dimostrati concordi nell’esigenza di un’educazione sentimentale e di una presa di coscienza in merito a un fenomeno orribile contro le donne, che necessita di un impegno collettivo.
Oggi è il turno, per Donne contro il Femminicidio, di Silvana Sonno, residente a Perugia, ha insegnato per molti anni Italiano e Storia e dove si è formata come Counsellor in Gestalt psicosociale. È Presidente della Rete delle donne AntiViolenza onlus – nata per prevenire e contrastare la violenza maschile sulle donne – per la quale si occupa di formazione e politiche di genere. Ha scritto numerose opere di narrativa, poesia e saggistica. Ricordiamone alcune: Le madri della patria. Donne e Risorgimento; 2013 Le parole per dirsi; Tre donne nella Rivoluzione dedicato a Marina Cvetaeva, Anna Achmàtova, Aleksandra Kollontaj; L’amore delle donne come l’Araba Fenice, la sua ultima silloge poetica.
Per consolidata abitudine, quando devo scrivere definizioni, devo cioè costruire lo steccato dentro cui imprigionare forme viventi quali le parole, voglio assicurarmi di rendere loro piena giustizia e di non costringere troppo la loro storia fino a farla diventare esangue, come le graziose fanciulle dei secoli scorsi, a cui il bustino armato di stecche e lacci attribuiva quella evanescente grazia “definita” dagli estimatori “femminile”. Ma non divaghiamo.
Femmina
Partiamo dall’etimologia. La parola deriva da una radice indoeuropea largamente attestata (DHE in sanscrito che diviene THE in greco, FE in latino), presente in un verbo che significa allattare, nutrire, ma anche generare essere feconda/o, e da cui si formano in greco le parole mammella, femmina/femminile (θηλη ,θηλύς), e – udite, udite – felicità; dal latino felix. Divino appagamento della nutrizione. La storia di questa parola ci/mi parla di potenza e accoglienza e dono, la sua radice si amplia in molteplici altri termini legati in profondità al generare e accudire, conservare, salvare… rendere felici. Una poderosa famiglia semantica. “Femmina” è una parola rotonda, che ti riempie la bocca e scivola tra le labbra con la morbidezza delle due m e il fruscio rassicurante di quella sillaba iniziale, che proprio degli inizi della nostra vita ci parla. Che dire d’altro? Io femmina, e voi?
L’aggettivo “femminile” è stato per me più che uno scoglio nella mia esperienza evolutiva. Non ho mai capito bene cosa volesse dire, quando da adolescente mi veniva sbattuto in faccia come un atto di accusa per la mia inadeguatezza, che io verificavo ogni volta una ragazza “più femminile” di me riceveva il premio di sguardi maschili ambiti, e sapeva sempre come abbigliarsi per tutte le occasioni: le feste, le passeggiate, persino la scuola, dove il suo passaggio lasciava come una scia odorosa, mentre il mio veniva risucchiato dall’insignificanza. Un festival della frustrazione da cui sono uscita un po’ rinunciando alla competizione, un po’ costruendomi altri parametri, man mano che la crescita mi permetteva una migliore autonomia dal pensiero e dal discorso altrui. Ma la sovrabbondanza ambigua della parola l’ho ritrovata quando ho cominciato a scrivere e ancor più a pubblicare, quando cioè mi sono sentita addosso quell’aggettivo nella sua pienezza originaria, ma non come la lode che da ragazzina cercavo, ma come un sentimento non tanto sottile di spregio. Nel discorso letterario l’aggettivo femminile spunta spesso come riduttivo, e molte autrici cercano circonlocuzioni per evitarlo, come se esso comportasse uno svilimento della categoria. Ciononostante devo proprio alla scrittura la mia definitiva emancipazione (liberazione) dalla ricerca di una collocazione soddisfacente dentro un mondo dove la parola “maschile” è sempre vincente, a prescindere, e non va mai a contaminarsi con quella lingua del disprezzo ben nota alle donne, dove viene usata, appunto, soltanto quando occorre criticare una di noi, che pare essersi allontanata dai modelli stereotipati della femminilità. Una donna maschile: un obbrobrio!!! Ma il fatto che le donne che scrivono sentono l’urgenza di conferire alla scrittura il significato del proprio esistere; quasi sempre lo strumento linguistico riesce a diventare un elemento fondamentale nel sostenere il loro processo di emancipazione (liberazione), mettendo in discussione lo statuto sociale della produzione maschile, tramandato da una millenaria tradizione. Oggi io assumo l’aggettivo “femminile” ogni qual volta sento il bisogno di ribadire la mia differenza di sesso/genere e la specificità del mio discorso, contro narrazioni fintamente neutre e universalizzanti, in nome invece del concreto legame della sorellanza, all’interno di una genealogia che situa il femminile dentro una differente economia dello sguardo.
Femminismo
Il Femminismo l’ho incontrato nei primi anni ‘70 a Torino, dove mi ero trasferita da Perugia dopo la laurea, in cerca di lavoro, ma ancor più per seguire quell’onda di rinnovamento che vedeva insieme le lotte studentesche e operaie. Torino: la Fiat, i cortei, il primo maggio a piazza San Carlo, assemblee interminabili per decidere come cambiare il mondo, l’entusiasmo del sentirsi al posto giusto al momento giusto. Ma…. cosa bella e mortal passa e non dura; potrei citare Petrarca per sdrammatizzare, anche se quello che mi è successo in quegli anni di grandi cambiamenti, ha significato per me rivedere tutte le mie concezioni di vita, i valori consolidati da un’educazione tutto sommato tradizionale, e anche il senso della lotta politica e dello stare tra “compagni”, che avevo cominciato a sentire lontano dai miei bisogni profondi e dal mio desiderio di “autenticità”. Già, autenticità è la parola (ritrovata nei bei testi di Rivolta femminile) che mi spinse a abbracciare il movimento delle donne che, all’inizio in modo carsico, poi come un getto esplosivo simile al potente flusso dell’acqua che esce dal crollo di una diga, dilagò portando il nuovo protagonismo delle donne sulla scena pubblica e a ragionare di rivoluzione nel privato. Da allora il femminismo è stata la mia casa intellettuale, emozionale, relazionale, il luogo in cui ho costruito – insieme a altre – la lente per veder capire e giudicare gli eventi del mondo e di me nel mondo. Il femminismo si radica nel riconoscimento di fratture e squilibri non addomesticabili e è per questo che la sua forza di cambiamento non è venuta meno, nonostante i tentativi di reprimere e/o annettere le sue parole d’ordine al conformismo della politica maschile. Scrive in un bel saggio Laura Zamboni: Il femminismo rivendica il diritto alla libertà e all’autodeterminazione di soggettività in movimento a partire dal proprio sé, dalla propria storia e dal proprio corpo. È innanzitutto sul corpo delle donne che il femminismo non permette che siano altri a legiferare, non consente un immediato superamento delle contraddizioni, non ha un progetto finale, ma è costantemente alla ricerca di relazioni alternative, lontane dalla violenza della cultura maschile e all’interno di un nuovo rigore linguistico e simbolico, che consenta alle donne di finalmente narrarsi in un racconto loro proprio. In molti racconti loro propri. Oggi, infatti, occorre parlare di Femminismi, per estendere lo slancio della sorellanza fino ai confini del mondo, come la società globale ci consente e ci chiede. E questo sta succedendo con movimenti internazionali come Non una di meno, a cui si affiancano il femminismo radicale della differenza, il femminismo intersezionale, il transfemminismo, lo xenofemminismo, l’ecofemminismo…che non sono etichette ma racchiudono parole/pensieri/pratiche da condividere e su cui confrontarsi. Noi donne siamo tante e non siamo mai state immobili; conosciamo le buone pratiche di resilienza e resistenza e di lotta, con buona pace delle vulgate patriarcali e dei loro mistificanti racconti “per signorine”.
Femminicidio
Per Femminicidio parto da una definizione del dizionario Treccani online, che è corretta e in linea con le definizioni degli organismi internazionali, quali ONU e Consiglio d’Europa: “Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte.” Aggiungo per completezza la definizione della Commissione Cedaw che integra la precedente: “Qualunque atto di violenza sessista che produca, o possa produrre, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata.” Dopodiché riconduciamo la parola all’essenza di cui è espressione. Femminicidio indica la tragedia mai superata delle donne violentate, uccise, umiliate, recluse, rese schiave… e non da ora, da pochi anni, ma da millenni di cultura patriarcale nelle varie società della Storia, in cui il potere/controllo degli uomini si difende e misura con l’asservimento delle donne, fino appunto alla loro eliminazione. Ma la parola ci parla anche di negazioni, di complicità, di leggi che non puniscono, di vittime che restano senza giustizia, di uomini sempre a rischio di “raptus” incontrollabili e dunque non sanzionabili, perché la patologia emotiva è sempre una via d’uscita efficace, e capita sovente che l’assassino appaia più vittima della vera vittima. Vittima della gelosia, di un amore totalizzante, della paura d’essere abbandonato, vittima della paura del giudizio altrui, vittima di una femmina arrogante e ribelle, vorace e cannibalica… che altro poteva fare lui, povero maschio messo a nudo da una virago senza vergogna? Ma torniamo adesso alla “nascita” di una parola così urticante, decisamente brutta, anche nel suono, nella forma, ma assolutamente esatta. Come è noto, questo neologismo, usato dalla messicana Marcela Lagarde, è salito alla ribalta delle cronache internazionali grazie al film del 2007 Bordertown, ambientato a Ciudad Juarez, città al confine tra Messico e Stati Uniti, in cui si racconta di più di 4.500 giovani donne scomparse e più di 650 stuprate, torturate e poi uccise ed abbandonate ai margini del deserto, il tutto nel disinteresse delle Istituzioni, con complicità tra politica e forze dell’ordine corrotte e criminalità organizzata, ed attraverso la possibilità di insabbiamento delle indagini, esacerbata dalla cultura machista dominante e da leggi che, ad esempio, non prevedevano lo stupro coniugale come reato e prevedevano la non punibilità nei confronti dello stupratore che avesse sposato la donna violata. Femminicidio continua a parlarci di queste donne e delle nostre donne, di noi, e delle donne di sempre, nonché della necessaria vigilanza a che le conquiste che pure occorre riconoscere dalle nostre parti (leggi: occidente ricco e democratico, almeno nelle dichiarazioni di principio che pure sono importanti) non vengano risucchiate da quelle ondate di misoginia ricorrente che abbiamo imparato a riconoscere e dalla sponda offerta da una politica sempre più rozza e strillona, litigiosa e inconcludente, per la quale i corpi delle donne sono un succulento oggetto sacrificale sull’altare del più becero conservatorismo. Il richiamo che vuole le donne a casa, via dal lavoro e di nuovo a lasciare agli uomini lo spazio politico, è già un po’ che circola e raccoglie consensi… E questo è già femminicidio.
Educazione sentimentale
Devo dire che l’espressione educazione sentimentale, per di più affidata alla scuola, mi crea diffidenza. Le dinamiche della relazione, dove si dispiegano le emozioni e i sentimenti più intimi, non può diventare un “contenuto” scolastico, una materia. Tanto più se la scuola che se ne fa portavoce continua a insegnare i ruoli di uomini e donne senza aver affrontato la necessaria prospettiva di genere, o – meglio – senza aver assunto il mainstreaming di genere (secondo il dettato della Convenzione di Pechino). Il che significa rivedere le scelte educative sulla base di una critica profonda a quei valori su cui il patriarcato si fonda. E dirò di più: sulla base di un lavoro su di sé soprattutto da parte delle docenti, che abbia insegnato loro a rivedere in sé stereotipi e pregiudizi sessisti e – per esempio – a adottare una lingua inclusiva anche del genere femminile, liberandosi dell’ombrello androcentrico ancora molto presente nell’insegnamento scolastico, a partire dai libri di testo. Sono stata insegnante e so di cosa parlo. Non si può non accettare il fatto che delle relazioni “liberate” dai vincoli del pregiudizio e dalla difficoltà a gestire le emozioni sono auspicabili e certo preludono a un modo migliore, in definitiva si tratta di capire chi può essere debitamente preparato per una “missione” così delicata. Non è un caso che a Torino, dove è partita la sperimentazione in alcune scuole per l’educazione sentimentale, le femministe di Non una di meno hanno protestato contro il docente segnalato, reo di voler insegnare “quegli stessi ruoli asfissianti e normativi (il ragazzo che corteggia e la brava ragazza che ha la responsabilità di mandare i giusti segnali) che sono in realtà una delle narrazioni tossiche da decostruire”. Io credo che se la scuola mettesse in cima alla lista delle sue priorità educative il rispetto delle differenze (non solo di genere ma anche per corpi non conformi/difformi) e l’accoglienza di gesti e parole che vengono da altri paesaggi: geografici e interiori, gran parte del lavoro che le spetta sarebbe fatto.
Written by Emma Fenu
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