Le métier de la critique: “12 colpi di forbice” e “Non è un paese per vecchie” a confronto
Nina aveva novant’anni e amava la vita.
Si comportava con dignità e generosità, non era ingenua ma neppure cinica.

Vestiva con cura, passeggiava con le amiche, si inginocchiava davanti al Crocefisso e alzava la testa, come una bambina ancora desiderosa di imparare, durante le gite.
Amava ed era amata dall’unico figlio, dalla nuora e dal nipote.
Si circondava di fotografie di Raffaele, l’amore della sua vita, il marito che la aveva lasciata ma la aspettava, sorridendo, in Paradiso.
Nina aveva novant’anni e amava la vita.
È morta in un lago di sangue scuro, profanata da 12 colpi di forbice, l’ultimo del quale assestato alla gola, perché accogliesse in modo macabro l’arnese che ne aveva deturpato le carni.
Nina aveva novant’anni e amava la vita.
Ha aperto la porta al suo assassino, perché lo conosceva, ed è per il suo gruzzolo che è stata uccisa, perché ha tentato di difendersi ed opporsi all’abuso.
Nina aveva novant’anni e amava la vita.
La pelle incuneata sotto le sue unghie, nel tentativo disperato di sfuggire alla morte, ha consegnato la prova regina durante le indagini che hanno portato all’arresto e alla condanna del suo assassino.
Nel suo romanzo-inchiesta, intitolato “12 colpi di forbice”, Carolina Colombi, nuora della vittima del delitto di Borgoratti, noto alla cronaca nera italiana del 2013, racconta il drammatico epilogo della vita della suocera, Giovanna Mori, affrontando, così, tematiche di grande rilevanza sociale.
Non solo di un giallo, si tratta, quanto piuttosto della testimonianza diretta di un familiare che si trova a scontare l’infinita pena di una perdita ingiusta, violenta, blasfema.
L’autrice considera tale delitto un femminicidio, ribadendo il concetto più volte nel testo, sia nella parte narrativa che in quella didascalica.

Proponendoci di definire il termine, ricordiamo le parole dell’antropologa e deputata messicana Marcela Lagarde che così si esprime: “La forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa“.
Tuttavia, oltre e forse più della diversità di genere, quale motivo fondante dell’atto criminale, in questo caso, vi è la differenza generazionale. L’atteggiamento della società contemporanea, basata sulla famiglia mononucleare, sull’individualismo e sul valore portante attribuito alla produttività, svilisce e ghettizza la vecchiaia, soprattutto quella delle donne, destinate, dopo i sessanta, a incarnare stereotipi o maschere di se stesse nella giostra mediatica.
Chiarificatore, in questo contesto, è il saggio “Non è un paese per vecchie”, scritto da Loredana Lipperini ed edito nel 2010 da Feltrinelli, nel quale si analizza la condizione e la identificazione, sul territorio italiano, di coloro che, per ragioni anagrafiche, più che depositarie della saggezza e della memoria collettiva, sono testimoni di quanto, oggi, fa più paura, ossia la perdita della giovinezza, da mantenere a tutti i costi.
Nina aveva novant’anni e amava la vita.
Anche la sua esistenza, un giorno, sarebbe finita. Ma nessuno aveva il diritto di rubarle il tempo concesso, annegando i suoi progetti nel sangue, perché donna e fisicamente indifesa.
Grazie al Pubblico Ministero, che ha impugnato la prima sentenza che sanciva una reclusione a trent’anni, oggi l’assassino è stato condannato in appello all’ergastolo, il massimo della pena prevista nell’ordinamento italiano.
Written by Emma Fenu
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