Giochi senza frontiere: quando mala tempora currunt rievocare è un sollievo

Non c’è più un De Gaulle che si possa inventare un modo per permettere ai giovani di incontrarsi in diretta Tv, in Eurovisione, a sessant’anni di distanza dalla prima edizione di “Giochi senza frontiere”?

Giochi senza frontiere storia
Giochi senza frontiere storia

Magari per una edizione dei roaring twenties di questo pazzo secondo millennio, con l’ausilio delle nuove tecnologie televisive, di una sceneggiatura chetaminica e tutto il resto. Ah, certo, poi ci sarebbe il problema di individuare la nazionalità dei giudici, però dai, vuoi mettere? “Giochi senza frontiere 2.0”, mica male, eh?

Direte: ingenuità; di questi tempi, poi; immagini poetiche prodotte dalla mente in stato flow… l’effetto madaleine scatenato da qualcosa, forse il sapore di un dolce gustato da adolescenti davanti allo schermo rigorosamente in bianco e nero di una tv; e poi, il gioco? Eppure.

Eppure fu proprio un evento televisivo legato al gioco che permise di spingere il concetto di frontiera un po’ più in là, nell’orizzonte condiviso degli eventi di noi europei. Il gioco. Che unisce e non separa. Che permette di superare e abbattere frontiere e barriere fisiche e mentali. È accaduto.

Sessant’anni fa. Allora furono Charles De Gaulle e Konrad Adenauer a individuare nell’elemento ludico la via breve per rafforzare i rapporti di amicizia fra Francia e Germania, dopo i tragici avvenimenti della Seconda guerra mondiale. E non è che i due statisti avessero la convinzione panglossiana di vivere nel migliore dei mondi possibili… Tuttavia ebbero un’idea semplice ma formidabile.

Presero a modello l’enorme successo di pubblico di “Intervilles”, sorta di “Campanile sera” in onda su Tf1, la prima rete statale francese, e affidarono al giornalista Léon Zitrone e al popolare presentatore Guy Lux il compito di trasporre l’idea in un format televisivo che coinvolgesse vari stati del continente.

Un modo ingegnoso per celebrare i Trattati di Roma, e, soprattutto, per far progredire il cammino appena iniziato verso l’approdo sperato: l’unità europea. La ricetta era semplice: i partecipanti delle nazioni invitate avrebbero dovuto competere in una serie di giochi che svariavano dalla tradizione ai quiz alle prove atletiche e di abilità ginnica, tutte svolte nelle condizioni più buffe e disparate.

Era il 1965 quando andò in onda la prima puntata di Giochi senza frontiere: un’èra geologica, se si pensa a come sono cambiati i contenuti e i contesti televisivi. I primi presentatori furono Enzo Tortora e Giulio Marchetti, e le prime due squadre a debuttare furono quella francese di Dax e quella tedesca di Warendorf.

Fra gli ideatore dei giochi, spiccava la figura dell’italiano Popi Perani, che in seguito fu presenza fissa del ristretto Comitato internazionale dei giochi, contribuendo ad apportare quelle novità che definirono lo schema definitivo della manifestazione a partire dall’edizione del 1970, la prima a essere vinta in finale da una compagine italiana, quella di Como: 18 concorrenti per team, di cui un terzo di sesso femminile; due arbitri ufficiali, coadiuvati da giudici di campo; nove giochi, divisi fra prove in contemporanea, gare a manche e singole; il fil rouge, che vedeva impegnata una squadra alla volta; la possibilità data a tutti i capitani di scegliere in quale gioco utilizzare il jolly a disposizione, che consentiva di raddoppiare il punteggio ottenuto; infine l’“australiana”, una prova in cui gareggiavano contemporaneamente tutte le squadre.

Uno schema che avrebbe accompagnato Giochi senza frontiere per tutta la prima serie, fino all’interruzione del 1982, quando Giochi senza frontiere si sarebbe fermato per sei anni, prima di riprendere le edizioni con una seconda serie, che sarebbe proseguita fino al 1999.

Ma torniamo a quel fatidico 1965. Dopo la prima edizione, fu proprio De Gaulle a insistere affinché ai francesi e ai tedeschi della prima sfida si aggiungessero italiani e belgi, con arbitri di nazionalità svizzera. Due anni dopo alla compagnia si unirono Svizzera e Gran Bretagna, si decise di far partecipare contemporaneamente tutte le squadre concorrenti, e ogni nazione avrebbe ospitato una puntata e, a rotazione annua, la finale. Et voilà, era nato Giochi senza frontiere, destinato a occupare un posto privilegiato nell’archivio visivo di un’epoca, autentica epopea di sfide itineranti a tema e in costume, ospitata nelle più suggestive piazze europee, da Chartres a Parigi, da Caserta a Berlino, da Bellinzona a Bruges, senza dimenticare le arene romane di Nimes e Verona.

Una produzione elaborata con fantasia e originalità, con particolare attenzione agli usi e costumi dei paesi ospitanti. Un appuntamento televisivo imperdibile, che plasmò l’immaginario di una generazione e che per la prima volta permise alle reti televisive di collaborare per la trasmissione in contemporanea del programma, lanciando di fatto l’Eurovisione su larga scala. Sotto l’egida dell’EUR, l’Unione Europea di Radio e Tv, produttori, registi, ideatori dei giochi e tecnici televisivi ebbero l’occasione di collaborare e accrescere professionalità e competenze.

Quando, in una delle tante piazze europee, i due arbitri svizzeri Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi urlavano il fatidico “trois, deux, un…” dando il via al gioco di turno, davanti ai teleschermi, migliaia di ragazzi europei condividevano la medesima trepidazione per le sorti delle città che rappresentavano i loro paesi. Quella che aleggiava era un’atmosfera che non separava ma conteneva, all’interno di uno spirito ludico che rafforzava i sentimenti di fraternità.

“La squadra del Belgio gioca il jolly!” Era una delle frasi storiche che si poteva sentire dai vari conduttori che si alternarono alla conduzione della trasmissione nel corso degli anni: abbiamo detto di Enzo Tortora e Giulio Marchetti, poi Rosanna Vaudetti, Claudio Lippi, Ettore Andenna e Milly Carlucci, solo per citare i più noti.

La trasmissione ebbe ai tempi un successo clamoroso, e l’appuntamento estivo del mercoledì sera su Tsi, presentato da Mascia Cantoni ed Ezio Guidi, rigorosamente a colori per chi aveva la fortuna di possedere un apparecchio predisposto, divenne un evento imperdibile, replicata il giorno dopo sul secondo canale Rai. E proprio giocando ci si rese conto dell’assurdità dell’idea di frontiera, di quanto questa fosse perniciosa per la vita umana e soprattutto per la crescita dei giovani; il gioco unisce, è simbolo (synballein), la frontiera è diabolica, (diaballein: separare); il gioco è una attività universale ma a essere universale è anche la diffusione dei giochi nei continenti. Perché poi un’educazione ludica è sempre un buon antidoto contro la retorica delle frontiere, contro i nazionalismi e i localismi che continuano a proporre separazioni artificiali tra i popoli e le genti, trasformandole in separazioni sostanziali.

Un’idea ingenua? Forse.

Quando “mala tempora currunt”, c’è sempre la tentazione di convocare nella memoria certi ricordi, credendo che una parte di noi sia rimasta in quel luogo di tempo, vivendoci ancora, in qualche modo, mentre quello se n’è volato via.

Però, chissà. Forse un ponte fra il mondo di ieri che credevamo di capire, e quello di oggi che fatichiamo a comprendere è ancora possibile. Magari a qualcuno può ancora venire in mente di giocare un insperato jolly e riscoprire il gioco, inventarsi un “Giochi senza frontiere 2.0” e con esso il valore della fratellanza, il rispetto delle culture e tradizioni altre e, perché no, della speranza? Un conflitto non violento tra uguali perché diversi. Proprio come accadde nel 1965, quando una trasmissione televisiva in Eurovisione ci abituò a pensare, molto prima di Schengen, che il gioco non ha frontiere. Anche se non c’è più De Gaulle.

 

Written by Maurizio Fierro

 

Un pensiero su “Giochi senza frontiere: quando mala tempora currunt rievocare è un sollievo

  1. Poesia russa “Slovo”
    Canto del popolo russo che combatte e risorge
    Contro gli ucraini invasori della “Madre Patria”

    <>
    Derzhat’ Slovo Con fede mantenere la promessa.
    La notte a Krasnojarsk era fredda e senza luci. Anche il carbone era finito. Sagrin attendeva notizie dal comando supremo o da quello che ne era rimasto dopo l’abbandono di Mosca alle forze del “Patto Ucraino”. Intorno a lui, scaldandosi con una gamella di thè nero e forte corretto da qualche goccia di vodka, i reduci sopravvissuti del reggimento Preobanschanski, per l’ennesima volta ritornavano col pensiero all’inizio della così detta “Operazione Speciale” in Ucraina. Erano partiti fieri e motivati. Sicuri di dover difendere la popolazione russa che ai tempi di Stalin era stata tradita e ceduta all’Ucraina. Non che gli ucraini non fossero Piccoli Russi secondo la tradizione, ma come avevano imparato a scuola, si erano nei tempi passati alleati ai mongoli di Gengis Khan contro la Rus’ di Mosca Vladimir e Riazan.
    Erano gli stessi ucraini che si erano alleati con i “Cavalieri Teutonici” e la “Federazione lituano -polacca” contro Mosca.
    Erano gli stessi che alleatisi con l’atamano cosacco Khelmnicki avevano messo a fuoco la Galizia, la Podolia e la Bielorussia. Traditori nell’anima, gli ucraini si erano alleati con i turchi e gli svedesi contro lo Zar. E infine, e qualcuno ancora vivente ricordava i reggimenti di SS ucraine al servizio dei nazisti.
    Così partimmo per quello che consideravamo una giusta punizione da somministrare ai Kievani.
    Mala sorte ci incolse. I nostri generali si mostrarono degli incapaci e non si accorsero della trappola che ci avevano teso gli americani e la Nato.
    Armi, munizioni, mezzi blindati, aerei, erano stati per anni riforniti all’Ucraina. Nascosti attendevano di colpirci, Migliaia di soldati furono addestrati all’estero pronti ad entrare in Ucraina per attaccarci,
    Basta ricordare decise Sagrin.
    Meglio organizzarsi per l’ultima resistenza.

    Accesa una sigaretta, tirato una boccata profonda e tossito, la recluta, un ragazzo alto e ben nutrito imbacuccato nella calda uniforme dei tiratori siberiani, gli aveva raccontato di provenire da Tobolsk. Poi aveva chiesto a Sagrin di spiegargli esattamente cosa fosse avvenuto. A sedici anni sapeva solo che il presidente Putin aveva dovuto invadere l’Ucraina per evitare che le truppe della Nato e delle nazioni d’Europa, appoggiate dai fanatici musulmani, dilagassero in Russia. Gli ucraini, i maledetti avevano tradito e si erano uniti agli invasori. Così come avevano fatto i Baltici e Polacchi, i Rumeni e gli Ungheresi. Così, gli invasori avevano preso Mosca e catturato il presidente Putin, lo avevano fucilato sulla Piazza Rossa assieme a tutto il governo.
    Ora aveva sentito che dalla nazione distrutta, sfasciata, occupata, un gruppo di militari non si era dato per vinto. Decisi a proseguire la lotta, avevano creato un nuovo esercito a difesa della Siberia.
    Sagrin confermò.<>.
    Il giovane Roman, questo il nome del ragazzo, assentì e rispose <>
    L’ufficiale si commosse. Dunque, lo spirito della Santa Madre Russia non era morto. Dette un buffetto al ragazzo e gli offrì metà dell’ultima aringa rimasta.
    Il colonnello Leonovich detto il monco a causa della bomba polacca che lui aveva preso in mano per allontanarla dai civili rifugiatisi nella cantina e che gli era scoppiata in mano, fece il giro delle guardie e mise tutti a dormire.
    Al mattino, Sagrin si accorse che Roman aveva tutta la notte dormito, abbracciando un qualcosa avvolto in una stoffa a strisce bianco blu rosse. Quel qualcosa non era il fucile che il ragazzo aveva appoggiato sulla sedia assieme al mantello.
    Quale che sia il momento, si è sempre curiosi. Curioso in quel mattino freddo e bianco di neve era Sagrin, o meglio, il tenente Sagrin, ultimo comandante del ricostruito reggimento di cosacchi siberiani,i soli sopravvissuti della divisione di uomini valorosi sacrificatisi per difendere la popolazione di Kazan sul fiume Volga, chiese cosa contenesse il pacco di Roman.
    Per tutta risposta, il ragazzo sciolse i nodi e stese il tessuto che Sagrin capì subito doveva essere un pezzo di bandiera con i colori imperiali.
    <>.Il ragazzo sorridendo orgogliosamente, estrasse dal pacco una spada cosacca chiusa nel fodero.<>.
    Attese un cenno di Sagrin e poi continuò: <> Roman si era commosso. In fondo è poco più di un ragazzino pensò il comandante. Roman continuò: <>.
    Sagrin sorrise perplesso e un pochino scettico, ma poi pensò: <>
    Sentì la radio comunicare che truppe del Patto Ucraino si avvicinavano sempre più alle loro fortificazioni.
    <> erano pensieri deprimenti. <>!gridò ai suoi soldati che stancamente raggiunsero le trincee.
    Sporchi, laceri, affamati ma ancora bene armati, si prepararono alla difesa del ponte
    che conquistato, avrebbe permesso ai militati del Patto Ucraino di irrompere nelle vaste piane della Siberia e raggiungere Vladivostok.
    Per incoraggiare i soldati russi, il tenente ordino ai due trombettieri rimasti di accompagnare il tenore Komrov che doveva a piena voce cantare “l’Addio di Slavianka”, l’inno dei padri.
    Di fronte ai russi che ora tutti all’unisono cantavano, i vendicativi ucraini, gli sprezzanti baltici, i rinati germanici, i presuntuosi americani e tutti i loro servi europei si preparavano all’assalto finale. Mescolati senza ordine, carristi, fanterie, corpi speciali, volontari pregustavano la vittoria finale.
    Dalla trincea dove aveva fatto rifugiare i suoi uomini, il tenente Sagrin vide un bagliore forte come un fulmine apparire sopra i soldati russi.
    La spada di Roman dalla lama di damascato acciaio e l’impugnatura in oro, puntata verso il cielo, sembrava circondata da globi luminosi. Sentì il ragazzo che alzata al cielo la spada urlava <>. Bah, prepariamoci a morire, siamo uno contro mille. pensò Sagrin.
    Poi una tempesta di suoni scese dal cielo, seguita dalla visione di immagini dei corpi dell’esercito, che nelle uniformi di un tempo si radunarono dietro a Roman e avanzarono seguendo la gloriosa bandiera imperiale con l’immagine di San Giorgio che ora sventolava, colpita dai raggi di sole nel cielo del mattino. I tiratori siberiani, i reggimenti di Kazan, le guardie di San Pietroburgo, i cosacchi con le spade roteanti, le truppe dell’armata rossa, i dragoni di Novgorod, i reggimenti di Chetoso e i fanti di Pietro il grande, urlarono tre volte <>. Poi tutti avanzarono seguendo Roman e la spada. La marea umana multicolore per le diverse uniformi, questo esercito dello spirito, testimone dalle glorie passate, fendé le truppe del “Patto Ucraino” come una violenta mareggiata che scombussola il bagnasciuga. Piene di terrore, le truppe del “Patto Ucraino” fuggirono abbandonando armi, carri, equipaggiamenti. Lasciarono Mosca e impauriti si rifugiarono nelle piane ucraine, e infine raggiunsero Kiev.
    Alla sera sul terreno fu pace. Solo i pochi soldati che difendevano le trincee erano rimasti. Degli eserciti che avevano messo in fuga il nemico non vi era traccia.
    Trovarono la spada di Roman infissa nella terra.
    Erano tutti stupiti e increduli. Molti si inginocchiarono, si segnarono e pregarono.
    Allora una ragazza alta esile e bionda, prese la balalaika e cantò la bylina, quel canto epico russo
    che avevano sentito ma mai capito.
    <>

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