Contest letterario di poesia e racconto breve “Poetesse e Scrittrici d’Italia”

“Dall’oralità alla scrittura, dalla preistoria ai giorni nostri non pare esserci stata variazione nel nostro interesse: le parole ‒ atte alla comunicazione con l’altro del nostro “stato” ‒ sono gli elementi che ci permettono di plasmare i mondi interiori. I fogli bianchi diventano il terreno fertile nel quale gettare semi di nero inchiostro intenti a decifrare le immagini ed i sussurri da cui siamo abitati.”dalla prefazione di “Poetesse e Scrittrici d’Italia”

Regolamento Contest “Poetesse e Scrittrici d’Italia”

Contest Poetesse e Scrittrici d'Italia
Contest Poetesse e Scrittrici d’Italia

1. Il Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “Poetesse e Scrittrici d’Italia” è promosso da Oubliette Magazine, dalle autrici dell’antologia e dalla casa editrice Tomarchio Editore. La partecipazione al contest letterario è riservata ai maggiori di 16 anni.

La partecipazione al Contest è gratuita.

Tema libero.

 

2. Articolato in due sezioni:

A. Poesia (limite 100 versi)

B. Racconto breve (limite 1000 parole)

 

3. Per la sezione A si partecipa inserendo la propria poesia sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con poesie edite ed inedite.

Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.

Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.

 

Per la sezione B si partecipa inserendo il proprio racconto sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con racconti editi ed inediti.

Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.

Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.

 

Ogni concorrente può partecipare ad entrambe le sezioni con una sola opera.

 

4. Premio:

N° 1 copia della prima edizione dell’antologia “Poetesse e Scrittrici d’Italia” con le opere di Beatrice Benet, Carina Spurio, Daniela Balestra, Francesca Santucci, Gabriella Mantovani, Giovanna Fracassi, Manuela Orrù, Maricà, Marina Minet, Teresa Stringa, Teresa Viola e Tiziana Topa.

Saranno premiati i primi due classificati per entrambe le sezioni.

 

5. La scadenza per l’invio delle opere, come commento sotto questo stesso bando, è fissata per il 30 marzo 2025 a mezzanotte.

 

6. Il giudizio della giuria è insindacabile ed inappellabile. La giuria è composta da:

Alessia Mocci (Editor in chief)

Beatrice Benet (Scrittrice)

Teresa Stringa (Poetessa e scrittrice)

Tiziana Topa (Scrittrice e collaboratrice Oubliette)

Giovanna Fracassi (Poetessa e scrittrice)

Daniela Balestra (Poetessa e scrittrice)

Maricà – Maria Carmela Dettori (Poetessa e scrittrice)

 

7. Il contest non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy.

 

8. Si esortano i concorrenti per un invio sollecito senza attendere gli ultimi giorni utili, onde facilitare le operazioni di coordinamento. La collaborazione in tal senso sarà sentitamente apprezzata.

 

9. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione per e-mail: oubliettemagazine@hotmail.it indicando nell’oggetto “Info Contest” (NON si partecipa via e-mail ma direttamente sotto il bando), in alternativa all’email si può comunicare attraverso la pagina fan di Facebook.

 

10. È possibile seguire l’andamento del Contest ricevendo via e-mail tutte le notifiche con le nuove partecipanti al Contest Letterario; troverete nella sezione dei commenti la possibilità di farlo facilmente mettendo la spunta in “Avvertimi via e-mail in caso di risposte al mio commento”.

 

11. La partecipazione al Contest implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016). Il mancato rispetto delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso.

 

Buona partecipazione!

 

47 pensieri su “Contest letterario di poesia e racconto breve “Poetesse e Scrittrici d’Italia”

  1. CUT – UP

    Nella bolla s’accalla,
    ostinata arsella,
    in si bemolle – gialla –
    s’affolla sulla lilla cala
    una corolla di cannella.
    Nell’ampolla dal fondo di corallo
    aggalla l’inflessa polla d’acquarello;
    illepido, lungo la sopravvia,
    recando sottobraccio
    l’abballo di brindello,
    si lasciò alle spalle
    il breve impiglio,
    sintetico rovello.
    Brullo salì sul colle
    – verdegiallo –
    il molle disegno
    d’un ispido abetello,
    assiduo prillo, mirrato amello.

    sez. a accetto il regolamento

    1. Thea, ho preso in mano il dizionario per vedere se tutte le parole strambe che usi ci sono. Ci sono. Detto questo, resto convinto che il rapporto tra le tue poesie e quelle tradionali è uguale a quello tra un quadro realista e uno astratto.

    2. Si tratta di un “jeux de mots” in versi :)
      A volte la poesia svela il suo tratto giocoso, il suo carattere brioso. E le parole si vestono di colore, sorprendendo il lettore con originali calembours
      Ti ringrazio Marco per la squisita analisi del testo

  2. MIA PRIVATA NOTTE

    Mi lecco le labbra guardandoti, mentre aspetto che, come sempre, il destino si compia.
    E infatti eccoli, ora, i tuoi pensieri, i tuoi ricordi, dentro di me…
    …Quando tremando ti eri nascosto tra gli alti papaveri pallidi, conficcati nel campo di tuo padre come denti nel collo, mentre intorno correvano i diavoli venuti da oltre i monti e c’erano urla e belati, pianti e muggiti, polvere e pale d’elicottero sulla testa…
    …E ancora, nella madrassa, le nerbate del maestro sulla tua schiena, quando non ricordavi le Parole del Libro, il bruciore sulla pelle e il dolore nelle ossa, e quello della vergogna nel tuo cuore.
    E mentre di te mi nutro, di me ti faccio dono, figlio d’uomo. Dei miei pensieri, desideri, ricordi…

    … ricordi amari, perché così era la tua faticosa vita immortale: amara come il sangue notturno.
    Perché chi si incontra, quando il sole finalmente si nasconde?
    Pochi e quei pochi: assassini, ubriaconi, drogati, papponi. Prostitute e i loro clienti. Amanti vogliosi, poi soddisfatti e svuotati. O insoddisfatti e rancorosi… Amaro era il loro sangue, amaro e scarso. Te lo facevi bastare.
    Poi anche là, a Kabul, arrivarono i diavoli con le loro bombe. Altri diavoli, venuti da oltre il grande mare lontano. Colpirono l’aeroporto, fecero a pezzi uno dei tanti edifici sorti al suo interno. E le macerie bloccarono il passaggio verso il tuo rifugio, il sotterraneo dimenticato da tutti dove nelle ore di luce ti adagiavi sulla nuda roccia, aspettando…

    … Che gli aerei rullassero sulle piste, di notte. Che vomitassero gente. Poche persone in quelle ore, ma che venivano da lontano, cariche di novità. Mi bastavano per sopravvivere e per godere un po’, dopo secoli di sangue sempre uguale, sangue di pastori e contadini. Di anime chiuse, montanare.
    Le stelle stavano sfocando, ormai, quando arrivarono le bombe. E già albeggiava, mentre cercavo a mani nude di spostare le macerie, ma nulla. Debole come una femmina umana, stavo diventando, no, di più. Poi, mentre il maledetto sfrigolava sulla mia pelle, solo pochi minuti prima liscia seta senza macchia, ecco la salvezza.
    Una donna, sola.
    Avvolta nel burqa, sapeva di latte acido e stallatico, di aglio e sudore.
    Una donna forte, una contadina. Con mani due volte le mie, con mani quasi d’uomo spostava le pietre e piangeva e piangendo chiamava: Ashraf! Ashraf!
    Il suo sposo? O chi?
    Dopo pochi attimi, non importò più.
    Perché silenziosa scivolai alle sue spalle, alzai una pietra.
    Non pesante, ma aguzza.
    Colpii.
    La polizia si scervellò per alcuni giorni cercando di capire perché qualcuno avesse ucciso una poveraccia, unicamente per rubarle il vestito.
    Fu solo per la calda oscurità di quella veste pregna di odori, che sopravvissi…

    … E anch’io lo feci, quel freddo autunno del 2001. Allah me lo concesse, nella sua infinita misericordia, perché diventassi un suo soldato.
    E finalmente, dopo più di vent’anni, ero pronto. Vestivo il bianco dei martiri e pregavo prima di immolarmi, qui, nel silenzio azzurro della moschea di Hazrat Alì, nel cuore di Mazar i Sharif, quando ti vidi.
    Era un incedere nero e ammaliante, il tuo, sopra il blu delle maioliche intarsiate e i tappeti decorati, anticipo di paradiso.
    Troppo tardi ricordai che alle donne era vietato l’accesso, nella moschea dei miscredenti…

    …che tentarono di fermarmi, all’ingresso. Due guardie inutili, bastarono il mio sguardo e la mia voce a sedurli, e mentre varcavo la soglia riandavo con la mente a Kabul, la Kabul che da tre mesi avevo lasciato alle spalle.
    Perché la gente cominciava a farsi domande per me scomode, su certe morti strane, su cadaveri pallidi come la luna con due segni sul collo.
    E a te pensavo, Ashraf, che da anni cercavo. E, finalmente, eccoti, laggiù nella penombra. Nel silenzio ancora vuoto della moschea, il tuo cuore rimbombava al ritmo dei miei passi…

    … che si fermarono, a un niente da me. Come erano immensi i tuoi occhi, o incarnata gula, che mi fissavano neri come la stoffa attorno. E come forti quelle fredde e pallide mani, quando le mie tremanti strinsero e lentamente guidarono al tuo petto, mentre labbra morbide e bollenti mi appoggiavi al collo.
    Poi furono aguzzi carboni ardenti, i denti tuoi…

    …Avesti un brivido, quando li affondai nella tua debole carne umana, poi sentii le tue mani sul mio seno allargarsi e stringere, stringere e allargarsi, al ritmo del mio suggere, mentre il tuo latte d’uomo colava sui miei piedi nudi.
    E ora sei mio e in questi brevi tuoi ultimi istanti anche io sono tua, mentre il tuo viso si fa bianco come la veste che indossi e si ferma il rivolo di sangue che dal collo ti scende alla clavicola destra.
    Ti guardo per l’ultima volta, Ashraf, poi lascio che il tuo corpo inerte scivoli ai miei piedi e esco da quel luogo. Alla porta, le due guardie stanno tremando nell’attesa di me, le accontento, mi fanno pena.
    Un piccolo morso sulle labbra di entrambe, un minuscolo frammento di me in loro e godono come mai con le loro donne, mentre ordino: “Dimentica!”
    Arrivo nella piazza mentre il muezzin cantilena la preghiera del mezzodì e sto male, al pensiero di ciò che farò tra poco,
    ma devo.
    Stavi fumando appoggiato al muro, quell’alba a Kabul di vent’anni fa, Ashraf.
    Eri bello, caldo e giovane in te correva il sangue.
    Ti presi alle spalle, arrovesciai il tuo collo contro la mia bocca, era morbida la tua giovane carne sotto i miei denti, prima che
    l’esplosione ci separasse, prima che le macerie ti seppellissero.
    Da vent’anni ti cercavo, mio diletto, per concludere ciò che quella notte era tra noi iniziato.
    E dopo tutte quelle lune, con quell’accenno del tuo sapore perennemente in me, come potevo contenermi, poco fa, nella moschea?
    Così, troppa anima ti presi e troppa te ne donai, perché la tua morte faccia morire la mia brama di te, la tua di me.
    Se non agisco ora, quando spunterà la luna ti chiamerei e tu da me verresti, non vivo, non morto. Ci ameremmo, mi daresti un figlio.
    Un figlio, una stirpe, mia.
    No, non qui.
    Non così lontano da casa.
    Ho umane lacrime agli occhi mentre ricordo i miei giochi di un tempo lontano.
    … I tuffi nei laghi di Titano. Guardare Saturno seduta sugli anelli. Farsi stirare le membra dal buco nero galattico, cavalcare una cometa…
    Scaccio quei pensieri inutili, perché la folla variopinta sta ormai affollando la moschea per la jumi’a, quando muovo i fili sottili ma tenaci che legano la mia anima alla tua, il tuo corpo ancora caldo al mio.
    Lontano, il tuo braccio destro si alza, la mano preme il detonatore.
    Insieme al boato si alza in cielo un volo tubante di piccioni.
    Quando il frullio delle loro ali scompare e rimane silenzio, rovina polverosa e azzurre macerie, mi incammino. Così, quando lo sconcerto farà posto alle grida, ai lamenti e all’ ululare delle sirene io, chiusa nel burqa, mia privata notte, sarò là.
    China sui corpi da te, mio Ashraf, dilaniati: perché mai l’anima è tanto succulenta, lo so, come quando la vita d’improvviso si schianta.

    Note:

    Il padre di Ashraf coltiva papaveri da oppio, i diavoli venuti da oltre i monti sono i sovietici, quelli da oltre il mare gli americani, che nel novembre 2001 bombardano l’aeroporto di Kabul

    La moschea di Azrat Alì, sciita per cui di miscredenti per i talebani, fu distrutta da un attentato nel 2022.
    Curiosamente, adiacente ad essa esisteva una piccionaia simile a un minareto.

    Goula o ghoula è uno spirito della tradizione medio orientale che si nutre di sangue e/o anime a seconda delle tradizioni.

    sez. b, accetto il regolamento

  3. Luna

    Appari nel buio
    illuminando la mia anima.
    Mi piaci con i crateri
    che sono i miei dubbi
    i miei non so
    a volte un accento soltanto
    altre volte piena da lumeggiare
    l’ombra del mio segreto
    e so che sei stella
    dei miei desideri
    qui dove si è spento
    il giorno stanco.
    Quando non ci sei
    sei nell’altra faccia della medaglia
    abbracciando i miei sogni.
    Non hai lacrime da regalare
    ma diamanti da osservare
    e ubriaca hai schegge
    da dipingere sul mare
    e l’oro tra i capelli dei pianeti
    tuoi fratelli che oscillano
    nel futuro a illudere i miei destini.
    Una luna da corteggiare
    lungo fiumi di silenzi
    accostati al mio cuore.
    Chiara

    Sez a. Accetto il regolamento

  4. SEZIONE A
    ACCETTO IL REGOLAMENTO

    LA LIBERTA’ VIOLA…TA (dedicata a Ahou Daryaie)

    Anima irrequieta di questa terra cruenta e antica
    dove una donna diventa nemica,
    soffochi ogni giorno respirando sotto quel velo
    dietro lacrime roventi celate da un vestito nero.
    Lo sguardo profana pensieri,
    scardina regole imposte per decenni
    violenta la tua anima fatta di ostinati silenzi,
    un lutto avvolge il tuo sorriso apotropaico,
    sfidi impavida catene e divieti,
    mentre incroci dignitosa le tue braccia inermi.
    Un corpo seminudo in intimo viola
    la voglia di libertà che ti droga,
    inizia allora la tua battaglia,
    contro la polizia morale che senza esitazione si scaglia
    inferocita come dovesse abbattere una grande muraglia.
    Ma tu orgogliosamente sventoli la tua ribellione testarda,
    davanti ad una comunità che atterrita guarda,
    dentro un urlo muto di dolore
    perché essere donna è un onore,
    non un’ombra nera che vaga nelle strade di Teheran
    ma una rivoluzione.
    Un diritto di essere,
    di crescere senza alcuna repressione
    in un posto dove non esistono i diritti
    ma ogni forma di abnegazione,
    siano le tue ali di libertà a volteggiare
    sopra ogni persecutore.
    È Apartheid di genere,
    che nessuno vuol difendere
    che nessuno vuol comprendere.
    In intimo viola mostri senza paura
    questo coraggio fuori misura,
    lunghi capelli neri sciolti lasciano dietro
    una scia di cimiteri di mancati desideri.
    Rispetto scivola come una piuma
    fuori da un candido corpo,
    cammini avanti e indietro
    come un cadavere senza alcun conforto.
    Celano invece amore quei passi intensi,
    su quella strada grigia alla ricerca di consensi
    lì dove pulsa ogni battito del tuo cuore si grida al disonore,
    parole che là son sinonimo di terrore.
    Queste uccidono come verità devastanti,
    mettono a nudo quello Stato e quegli uomini aberranti
    che con pretese esasperanti e dichiarazioni fuorvianti
    sperano di comandarti.
    Sono nani eppur appaiono giganti,
    filo spinato la tua disperazione mentre cerchi di rialzarti
    in un giardino di rose tu sei un pozzo di diamanti.
    E i tuoi passi sono arpeggi di emozioni che abbracciano speranze,
    cieli aperti a nuove usanze, orizzonti vergini in un istante
    dentro un brivido di fuoco disarmante,
    davanti a una fragilità che tace
    e ad una giustizia sommaria e fallace.
    La tua malattia mentale
    è diventata un caso internazionale
    lotta dura contro un regime ancestrale
    perché il tuo gesto ha trasformato un corpo
    nella protesta più potente
    un’arma di pace e libertà tra la tua gente.

  5. Son forse poeta?
    Ho parole
    che mi gridano
    ovunque:
    nella mente,
    sulle mani,
    dentro al cuore.
    Il foglio bianco
    è la mia eco,
    voce ai miei pensieri.
    Son forse poeta?

    © Daniela Giorgini – Sezione A – Accetto il regolamento

  6. Solitario

    Solevo giacere al sole
    la stella del giorno in vuote isole
    senza valigie con il solito vinciglio,
    senza meta in speranza di un giaciglio.

    Solitario delirio
    la follia di un abbecedario
    a leggere la lettera sul solario
    romano nei ticchettii del martirio.

    Sempre solo e borioso
    la consolata fortuna vantava
    senza fretta assecondava
    l’audace pensiero curioso.

    Solingo dinanzi alla luna
    l’astro della notte in aperta duna
    con il sudario dalla sabbia di quarzo,
    propiziai al supplizio delle idi di marzo.

    © Jonny Souto – Sezione A – Accetto il regolamento

  7. Autore sconosciuto

    Ignoto è il Destino. Ogni dì
    si dipana inedito giorno e pare
    identico a quello appena trascorso;
    invero qualcosa di nuovo appare:
    Sconosciuto autore dell’esistenza
    scrive e riscrive un paragrafo nuovo,
    e noi siamo i lettori del racconto
    scritto come un vestito su misura.
    E non resta che sfogliare le pagine
    inchiostrate e capire la sua trama.
    Sezione A Alessio Romanini Accetto il regolamento

  8. ESPRESSIONE OSSIMORICA (Drabble)

    Passeggio distratto nel parco, lungo il sentiero calpestato all’ombra di verdi chiome di pini, sovrastati da un fulgente ceruleo cielo. “L’aria che respiro è così grave!” Esclamo sbalordito dentro i miei pensieri. “Eppure l’aria è così rarefatta… Da dove deriva questa pesantezza elettromagnetica?” Rimugino sui miei quarantanove anni vissuti sopra questa zolla; e con il pensiero ripercorro il mio vissuto dagli anni ’80 ad oggi che vivo nel 2025, capisco di vivere dentro un grande forno a microonde che alimenta subdoli congegni elettronici che causano l’allontanamento dei sentimenti anziché avvicinare l’umana gente. Esclamo: “Si stava meglio quando si stava peggio!”

    Sezione B Alessio Romanini Accetto il regolamento

  9. Sez A

    L’ECO DI UN VORREI:

    E poi dimmi
    in quale angolo del cuore
    hai deciso di custodirmi.
    In quale spazio del cielo
    brilla la mia stella—
    se ancora arde.
    Se mai questo sentimento
    ha sfiorato la tua anima,
    se mai la tua mano
    ha tremato nel cercare la mia,
    dimmi:
    come sopporti l’assenza
    che scava nel petto,
    la mancanza che graffia i sensi,
    il pensiero che travolge
    e non trova riparo?
    Perché sei nel battito muto di una canzone,
    nelle notti che si torcono d’inquietudine,
    nelle preghiere sussurrate
    a un Dio distratto.
    Sei nel respiro di un vorrei
    sussurrato,
    agognato,
    e poi lasciato svanire
    come nebbia all’alba.

    Antonella Chiego

    Accetto il regolamento

  10. GIRO GIROTONDO

    Giro, girotondo,
    Maryam dallo sguardo profondo,
    corriamo in cerchio, corriamo forte,
    cantiamo al tramonto
    filastrocche alla morte.

    Giro, girotondo,
    Samir dagli occhi belli,
    Yasmin che stringe i suoi fratelli,
    quanto, vi ha odiato il mondo?

    Girotondo, girotondo di tutte le rose,
    sono un compagno, un compagno vicino
    e vi avrei detto un miliardo di cose,
    un miliardo di cose, quand ‘ero bambino.

    Girotondo, girotondo del vento,
    girotondo del mio cuore spento,
    com’è triste, com’è triste la guerra,
    tutti i miei figli sono giù per terra.

    Antonio Blunda
    Dichiaro di accettare il regolamento

  11. Brillava la tua stella
    Mi ritorni spesso in sogno,
    Ti notai,
    nel mare calmo della notte
    lì, dove brillava la tua stella,
    riflesso splendente, così lucente
    la tua divisa, il tuo essere fiero.

    I miei occhi stropicciai incredulo
    non mi parea vero, m’apparisti davanti,
    intravedevo nel buio i canuti baffetti
    il tuo sorriso, come sempre luminoso:
    Ciao mio capitano! come stai? gli mormorai

    Negli attimi a scorrere innanzi
    ripassavo i bei momenti nei cassetti della memoria
    nell’ondeggio della nave sul cheto mare, e
    nel mio accostarti la tua vegliarda mano
    strusciando mi colse:
    Ciao mio capitano! come stai? gli ripetetti

    La sua serafica calma mi prese, poi
    poi un bisbiglio mi giunse, eri felice
    la sua tranquillità per me un toccasana
    nel vederlo così austero al mio fianco

    La nave ferma all’ormeggio
    rimestava alla fonda i bei ricordi
    in cabina la sua compagna riposava
    ed io, io ero lì immobile a osservare,
    avrei voluto dirgli tanto, parlargli sottovoce
    ma le parole in quel momento mancarono
    restai bloccato fissandolo nell’oscurità.

    La sua presenza, la brezza, la luna
    tutto sembrava un sogno, un irreale sogno,
    gli occhi miei diffusero copiose lacrime:
    Ciao, ciao mio capitano! gli sussurrai.

    Il brillio della sua stella accompagnerà
    il viaggio nel mare della vita
    porterò con me le maree emozionali
    e tesserò la tela sui tetti della felicità
    pensandolo felice sulla via dell’eternità.

    sez. a accetto il regolamento

  12. Per emozionarti ancora

    Per te invento filigrana
    per intrecciare versi ardenti
    sulle tue palpebre evanescenti,
    nel buio della nostra stanza.

    Per te do vita
    alle mie parole maldestre
    diventando ciò che desideri
    incarnando i nostri sogni
    farciti di stelle cadenti.

    Per te stringo tra le mani il tempo
    per fermare
    la tua bellezza fragile,
    giglio delle profondità
    della mia anima.

    Per te disegno i nostri profili
    con il gessetto dei nostri ricordi,
    per ricordarci chi siamo, io e te,
    in un connubio di vento, acqua e fuoco.

    Per te archivio ogni dettaglio
    ogni immagine, colore, assenza,
    presenza momentanea, tra le mie idee
    creandone di nuove solo
    per emozionarti ancora.

    Per te raccolgo desideri e sogni
    di una vita tracciata a matita
    su un biglietto del treno
    andata e ritorno.

    Per te ascolto il Silenzio
    che in sere come queste
    vorrebbe ammantarmi
    ed avvolgere il mio cuore stanco,
    al tuo.

    Rita Coda Deiana
    SEZIONE A
    ACCETTO IL REGOLAMENTO

  13. “Lettera di una madre che ha ceduto il passo alla paura di affrontare la realtà”.

    Esistono storie di vita legate a leggende avvolte da un alone di mistero. Le leggende che ci accompagnano nel nostro percorso di vita, verso qualcosa che cerchiamo in continuazione ma che non troveremo mai. Sono storie di vita offuscate dalla nebbia e tramandate verbalmente, dove la realtà si amalgama con la fantasia. Proprio come la storia che mi accingo a raccontarvi: la storia di Maribegna. Era Maggio e il paese sembrava sotto un incantesimo. La nebbia ricopriva ogni cosa, l’aria fredda e pungente, nonostante la primavera inoltrata, si faceva sentire da chiunque si trovasse fuori sprovvisto di indumenti adatti, o si avventurasse tra le alture che circondavano il paese. Una tardiva primavera che il paese di Sadali avesse mai incontrato sul suo cammino era proprio giunta quell’anno: il 1885. Il 20 maggio di quell’anno, il paese venne svegliato dal vagito della nuova arrivata nella famiglia dei Pilia. Un parto abbastanza travagliato, che diede alla luce la piccola Maribegna, secondogenita dei coniugi Pilia, dopo il primo figlio maschio Antonio e Vitalia. Il padre Francesco, nacque a Sadali nel 1854, era un grande lavoratore e negli anni riuscì a crearsi una solida posizione economica, grazie anche all’eredità che gli lasciarono i genitori benestanti. Fu proprietario di grandi appezzamenti di terreno e allevatore di bestiame. Si sposò con Venanzia a Sadali, quando entrambi avevano 24 anni. Andarono a vivere, in quella che poi divenne la casa padronale, che per quei tempi, era una delle abitazioni più vistose del paese. Intorno alla casa, quasi ad impreziosirla, era presente un meraviglioso giardino, con una vite di pregiata uva antica che si inerpicava lungo le pareti della casa di pietra di scisto e calcare, con alberi di ulivo, mandorlo e ciliegio che in primavera, donavano una fioritura spettacolare, per non parlare del profumo che effondevano intorno alla casa. L’abitazione sorgeva nel vicinato “Carradori”, così chiamato per il fiume omonimo, proveniente dal territorio di Seui, che fluiva accanto all’ingresso dell’edificio e che poi andava a riversarsi in “Sa Ucca Manna”, un inghiottitoio naturale che raccoglieva le acque che scorrevano nel paese di Sadali. Non poco distante dall’abitazione e da “Sa Ucca Manna” erano presenti: “Sa Domu de is Pippas” dove si lavorava il legno delle radici (radica) dell’erica arborea, per la realizzazione delle pipe, e la “Gualchiera”, struttura, all’interno della quale vi erano delle antiche macchine mosse dalla corrente d’acqua, che servivano a sodare i tessuti di lana o le pelli locali. Edifici che, il fiume “Carradori” spazzò via nei primi anni del 1900, a causa di un’alluvione. L’Acqua era ed è prima di tutto vita e prosperità, rigenerazione e creazione e nel paese di Sadali l’armonia della sua vegetazione e il rigoglio dei boschi testimoniano, ancora oggi, appieno la presenza di questo elemento naturale così preponderante.
    E’ in questo scenario incredibile, dove Natura e Uomo si incontrano, uno scenario quasi mitologico e fantastico, che crescerà la piccola Maribegna. Era una bambina con dei lunghi capelli corvini ondulati, che la madre Venanzia con pazienza, le raccoglieva in due lunghe trecce che andavano poi ad ornare la sua nuca. Amava la vita a contatto con la natura, socievole con tutti. Sempre pronta ad aiutare la madre nelle faccende domestiche, nei lavori per impiantare gli orti, presenti in tutto il territorio di Sadali, orti che anche le umili famiglie realizzavano con fazzoletti di terra, chiamati: “Fittas de Lardu”, perché rappresentavano il sostentamento delle famiglie locali. Maribegna, grazie all’insegnamento della madre, imparò anche a realizzare capi pregiati di lana con il telaio di famiglia. E’ in età scolastica che scoprì la passione per la lettura, e ogni volta che le era possibile, trascorreva il suo tempo a leggere in giardino. Fu così, in un giorno estivo, mentre era intenta a leggere che il suo sguardo incrociò quello di una ragazza coetanea non del posto. La ragazza, “sa strangia”, così veniva denominata dagli abitanti di Sadali, sorridendo e attraversando il ponticello, adiacente alla casa di Maribegna, presentandosi con gentilezza, le disse di chiamarsi Anna, ma che tutti la chiamavano Prenda, per la sua gentilezza e altruismo verso tutte le persone che incontrava. Un soprannome che le diede la nonna materna e che Anna, si trascinò per tutta la vita. Tra le due ragazze, nacque subito una forte e sincera amicizia, unite dalla stessa passione, la lettura. Prenda, che era di origine ogliastrina, ma che viveva nella città di Cagliari, ogni estate si recava nel paese di Sadali, come ospite, a casa di amici della sua famiglia. L’aria pulita di montagna, le venne consigliata dai medici, dopo che riuscì a riprendersi da un serio versamento pleurico. Così, ogni stagione estiva, le due amiche si ritrovavano a Sadali, per trascorrere insieme, intere serate a leggere e a scrivere poesie, e ad ammirare i meravigliosi tramonti del paese, che in estate si tingevano di colori pastello indescrivibili per tanta bellezza.
    Il 17 aprile 1903 morì Venanzia, madre di Maribegna, che allora, doveva ancora compiere 18 anni. Il legame tra le due amiche si rafforzò ancora di più e ogni estate, si tramutava in giornate indimenticabili. Nel 1907, il padre di Marianna, decise di far effettuare dei lavori di ristrutturazione e ampliamento della casa di famiglia. Commissionò il lavoro ad un muratore, proveniente da Sassari, che tutti chiamavano: “Su Maistru ‘e Muru”. Era un giovane uomo sposato a Sadali e senza figli. Quell’estate le due amiche non si incontrarono, perché Prenda fu ricoverata nuovamente. Così Maribegna, ormai 22enne, riprese a trascorrere le sue giornate nel giardino di casa. Ogni giorno incrociava lo sguardo del muratore intento alla ristrutturazione della casa, e tra i due sbocciò l’amore. Un amore segreto, poiché il muratore era sposato. Una relazione che durò quanto il nascere di un arcobaleno dopo la pioggia. Quando Maribegna si rese conto di aspettare un figlio da quest’uomo, cadde nella più profonda disperazione. A quei tempi, non era plausibile o giustificabile dalla società una ragazza madre. Così, forse per paura dello scandalo che ne sarebbe scaturito e che avrebbe coinvolto tutta la famiglia, con un padre allora sindaco, il 23 ottobre 1907, Maribegna si recò in cantina e si tolse la vita ingerendo un prodotto liquido, altamente velenoso, che allora si utilizzava per disinfettare le abitazioni. Preoccupati per la sua assenza, i familiari e i vicini la cercarono per diverse ore, per poi essere ritrovata priva di vita dal fratello Antonio e dalla sorella Vitalia. Questa triste storia, sconvolse tutto il paese per la dinamica dei fatti, e in particolare la cara amica Prenda, che appena riuscì a stare meglio, andò a far visita alla famiglia della sfortunata amica. Visitò la sua stanza, con quella finestra che si affacciava sul giardino, dove le sembrò di avvertire, ancora, la presenza della cara amica. Sull’antica scrivania, un libro, quel libro di poesie che le aveva prestato e che avrebbero dovuto leggere insieme. Prenda trovò una lettera custodita tra le pagine, e quando la lesse, si sentì mancare per la forte fitta al cuore, che le tolse il respiro e per un istante pensò di morire anche lei, per tanto dolore. La lettera che Maribegna scrisse al figlio mai nato.

    Sadali, 23 ottobre 1907

    Il forte vento della notte ha strappato via i petali dei fiori del giardino dei miei ricordi. Divampano accartocciandosi sfiniti in angoscia, come fiammelle su un fuoco che arde. Danzano sfiorando la mia mente che distingue ciò che mi ferisce da quello che mi diletta, per poi sparire nella solitudine di un’anima persa. Amato figlio, che in grembo cresci, avevo promesso a me stessa, di farti leggere i diari della mia vita che poi sarebbe diventata anche la tua. Pagine che rivelano segreti custodendone infiniti. Sulla scrivania giacciono pagine impregnate di lacrime e sogni. Tutti quei sogni, che tanto avrei voluto donarti, figlio caro. Avverto il loro fluire dalla rigida forma così severamente immobili in vuoti spazi sbiaditi dal tempo. Le pagine…Tranquille stanno nel loro composto silenzio d’inviolata pace. Pagine invulnerabili che ci appartengono perché prigioniere del fiume dei ricordi del mio passato e del tuo avvenire. Ho sentito su di me, le vecchie, dolci lacrime consolatrici, i sogni affidati agli oceani sconosciuti dove s’affollano gli echi delle auspicate risate insieme a te. Tutt’attorno ruggisce la doppia coscienza che ha soffiato via l’ultimo mio sorriso per te, mio dolce angelo. Ti scrivo, per sentirti più vicino, ora che le mie forze si stanno indebolendo e con me, anche le tue. Con il pensiero ho viaggiato in lungo e in largo, per accorciare questo senso di disagio, immediatamente dissipato dal calore della tua presenza nel mio grembo di madre. E’ in me la pienezza che è così manifesta nella dura esperienza della vita che a volte ho manifestato con toni alti e con eco sottile e acuto. Pensieri che trasudano di un’esistenza vulnerabile piena di segni, stordita da quel dolore indagatore dell’amore per te, che mi porto dentro. Perdonami figlio caro, ho pensato di aver perso la mia identità, ho cercato un nuovo significato, una nuova vita. I miei cari, mi hanno lasciata là seduta, ben lontani dall’immaginazione che sarebbero passate solo poche ore prima di ricevere mie notizie. Forse era quello l’ultimo sorriso, sguardo che desideravo lasciar loro, prima di lasciarmi andare e porre fine alla nostra vita. Una partenza, la mia, che ha segnato la fine del mio dolore e l’inizio del nostro viaggio per le stupende immaginabili diversioni della vita che inalano un sentore di fiumi, colline e aroma di erbe aromatiche, dove il tempo e lo spazio non esistono.
    Figlio mio…Ti scrivo, per sentirti più vicino, ora che ti sento così distante.
    Rita Coda Deiana
    SEZIONE B
    ACCETTO IL REGOLAMENTO

  14. amo il silenzio del tuo sguardo che buca i miei occhi impacciati
    sento le nostre promesse clandestine camminare nei deserti del mondo
    tu cuore di donna che mi insegni il senso di mettersi alla prova ogni giorno
    romba il tuono della tua poesia bagnato dalle lacrime impazzite di dolore
    cresce l’amore nella gratuità di una goccia che stilla silenzi
    tu che mi dai i tuoi baci che rompono il mio buio
    occhi negli occhi e la mia paura si scioglie in un abbraccio
    combatterò per te i miei piccoli inferni sulla terra
    io intrepido cavaliere che curerò le mie ferite nel silenzio del tuo sacrificio
    noi che stringiamo le nostre anime nel firmamento delle notti d’estate
    Dio che ci segni il destino di buche da superare insieme
    nel tuo si vince la mia vita
    amore mio

    accetto il regolamento sez. a

  15. Alex rollò l’ ennesima sigaretta di quella gelida mattinata d’ inverno poi con un soffio di voce dipinse la sua bestemmia sulle nubi ” Ehi cielo guardami… un grumo di ossa tenute insieme dallo sputo dei santi… ecco chi sono….” New Jork era bellissima; la neve l’ aveva ricoperta tutta e le cime dei grattacieli sembravano le prospicenze del paradiso…..lui era lassù, lui e suoi 47 anni intabarrati in un giaccone troppo grande per contenere una vita. Era stanco dei perché, quei maledetti pugni spaccati nelle lunghissime notti d’ ospedale, tra le flebo che non scendono e gli urli della sua Grace….Grace, il suo volto, il suo corpo i loro abbracci, i loro sì…..e poi il cancro gelido stillicidio di una cicuta bevuta troppo giovani…. .. tossì i suoi ultimi secondi di lacrime…. per un attimo Dio sembrò dipingergli un sorriso….. poi più nulla. Nessuno sentì il tonfo…..nessuno… solo il silenzio. Lo trovarono con gli occhi riversi all’ insù, come una preghiera giunta al cielo, aperti come la vita che avevano corso da giovani con Grace. I paramedici lo avvolsero in un sudario e lo deposero con dolcezza nell’ ambulanza parcheggiata tra due ali di folla silenziosa. Lo portarono all’ ospedale di Manhattan dove il tempo si era fermato al momento in cui la sua Grace se n’ era andata; li misero insieme come due novelli Romeo e Giulietta, pure gli infermieri più anziani piangevano a dirotto. Le famiglie arrivarono trafelate, impallidite e svuotate: era finita, li avevano persi per la seconda volta, una volta era stata la loro arroganza, la seconda volta il destino. Entrarono muti nella camera dove i loro ragazzi riposavano e le mamme si abbracciarono in un abbraccio che non ebbe fine. I padri no, dritti nella loro austera nullità dietro le mogli, guardarono la scena da lontano. Le famiglie uscirono ed ecco Jeannie una delle pazienti più anziane dell’ ospedale andò loro incontro e abbracciò le mamme. Un libretto scivolò dalle sue mani incartapecorite a quelle di Lilly, la mamma single di Alex, e la sua voce roca ruppe la morte di quei secondi interminabili: “I vostri ragazzi hanno vissuto. La gioia, la dolcezza, l’ amore la malattia erano come il tutto che scandisce i giorni io c’ ero”. Allora aprirono il libro e riconobbero la calligrafia di Grace e le prime lettere “Cara mamma, caro papà……………. Si dice che il mondo ti casca addosso, si dice tanto per dire invece è vero; un botto dentro al petto, un colpo, un vuoto e appresso scivolasti a terra fiera, dolcissima Josephine mamma senza più domani………..Ti ritrovarono svenuta con gli occhi riversi verso il cielo che urlavano quelle lettere che si ripetevano senza fine: “Cara mamma, caro papà”; il mio bocciolo colorato che ora riposava per sempre…. Gli infermieri aiutarono a rialzare le tue povere ossa e l’ appoggiarono delicatamente su una sedia, tu che stringevi i pugni in un anelito di preghiera: “O Signore dammi un’ altra possibilità, ridammi il mio fiore!!”. Girasti la pagina e la vita di Grace accarezzò le tue guance: Ti ricordi dei nostri sorrisi, delle nostre assurde litigate, delle lacrime di quel giorno quando sbattei la porta per sempre per il buio dei vostri no…..corsi, corsi e corsi su migliaia di marciapiedi fin quando il mantello della notte vestì il mio corpo di sudore e le mie ginocchia di silenzio. Mi rialzai ed ero sola, iNew Jork era bellissima avvolta in un regno di ombre, mi avvicinai e scorsi quegli occhi, tristi di mille solitudini le cui lacrime sembravano fiumi senza fine……”Mi fai accendere?” Chiesi distrattamente, lui si avvicinò e mi diede l’ accendino poi mi chiese: “Che ci fa una ragazza sola a quest’ ora di notte?” Rimanemmo in silenzio per lunghissimi interminabili secondi, poi gli risposi “Sono scappata volevo vivere…..” Ti capisco, mi rispose, io non sono mai diventato uomo……” Ci accogliemmo quella notte in una strada senza nome da quel momento in poi fummo solo noi ALEX e GRACE nelle vite consumate di cicche e di parole………” I giorni si sono fatti anni, vissuti nei migliaia di tramonti che New Jork ci donava, abbracciati di un sentimento nuovo che nasceva….l’ amore….. C’è solo la strada su cui puoi contare, la strada è l’ unica salvezza, pensò Jacqueline dopo l’ ennesima notte insonne passata da sola; Rob se n’ era andato e quell ‘ appartamento era diventato troppo grande e pieno di fantasmi……. New Jork non s’ era mai più riaccesa dal momento che il suo bocciolo aveva richiuso le ali e le lettere che vestivano quel libro avevano spremuto il suo sudore in notti e notti di silenzio…….. Uscì di casa un giorno di primavera con il peso d’ uno zaino di vita e gli occhi di quel dolce passato nel cuore….. Corse per giorni e giorni e giorni sotto un cielo di uomini poi sdraiò le sue ossa stanche nell’ angolo di un condominio senza nome. Per lunghissimi istanti fermò il suo sguardo al cielo e guardò la luna e forse per la prima volta sembrò felice…….. Tirò fuori quel libro e l’ amore dei ragazzi colorò quella notte: ” I nostri baci come fragorose speranze dei nostri giorni felici in quella soffitta disordinata, intrecciati come stelle incandescenti d’ amore…….ci raccontammo in migliaia di attimi fotografati di preghiere e le nostre notti si bagnarono di sorrisi”, ALEX e GRACE urlarono da quel libro la loro vita breve ma immensa, cicca consunta d’ una notte d’ estate……………. Jacqueline si svegliò era l’ aurora, aveva gli occhi gonfi di stupore, si stiracchiò e vide gli ultimi tiratardi tornare a casa. Era sola ed il sole piano piano accarezzò la fronte consumata dalle troppe lacrime che aveva versato in quei giorni….. La vista dei ragazzi in quella camera mortuaria l’ aveva d’ un botto invecchiata di anni, pensava sorseggiando il primo nero caffè dell’ ennesimo giorno d’ inutile vita………Quel libro si stava lentamente piegando, consunto di lacrime e caffè, fu in quel momento che il buio entrò con le prime parole e la tosse di GRACE……….. I colpi di tosse bucarono la solennità delle notti ed il suo fragile corpo vibrò davanti al terremoto del destino. GRACE era malata, ma la sua anima lottava come un vecchio pugile dinanzi al tramonto. “I giorni e le notti tra gli abbracci stretti di ALEX ed i pugni al destino”, così accolse quelle parole Jacqueline stretta nel suo cuore di mamma con il suo tormento senza risposta: “Perchè al mio bocciolo?” . Camminò per chilometri e chilometri ed alla fine arrivò al loro palazzo; appena entrò vide un omone di colore che gli si fece appresso dicendogli: “Dove va signora?” Jacqueline con un velo di tristezza gli rispose “Voglio vedere la soffitta ci abitava mia figlia” Allora l’ omone si ricordò di ALEX e GRACE e si commosse “Me li ricordo bene, erano una bellissima coppia sempre insieme fino alla fine di lei…..poi non ho saputo più niente” Aprì la soffitta ed una fitta avvolse il cuore di Jacqueline, c’ era un tavolo con due ritratti dei due ragazzi ed un letto ancora sfatto simbolo che la vita li aveva consumati oltre le parole, i sorrisi e le lacrime……Maledetto libro pensò per un attimo, ma l’ attrazione verso la vita dei ragazzi fu più profonda della tristezza e lo riaprì così GRACE parlò tra i pallidi occhi di sua madre: “Quanti medici mamma quanti ne ho dovuti passare senza di te, avrei voluto la stretta della tua mano ma c’ era ALEX il mio uno il mio tutto che riusciva sempre a farmi sorridere anche quando sarei voluta impazzire di lacrime….. In quei mesi ci siamo avvolti di parole come se fossero scudi alla sofferenza lui abbracciava le mie notti assopendo il mio dolore è stato lui a convincermi di scrivere queste parole……………..Mi ha detto “Devono sapere chi sei, che donna sei diventata e che mi hai insegnato a vivere…….” Richiuse il libro tra le lacrime e prese un ritratto quello di sua figlia e ALEX che sorridevano nel parco e richiuse dietro di se la porta…………………Basta! Basta se ne andò in preda ad una crisi di pianto, il dolore le stava trapanando le ossa……………………Si fermò sul marciapiede e lentamente si calmò: “Quanta sofferenza non è giusto, povera figlia mia”…..E s’ avviò con il sorriso di sua figlia stampato nel cuore…. La neve cadeva sugli alberi e New Jork era bellissima nel suo silenzio irreale; Jacqueline vide il paesaggio dalla sua finestra del suo appartamento all’ Upper East Side e d’ improvviso la tradì una lacrima “Quanto vuoto senza i tuoi sorrisi piccola mia……” E riaprì quel libro unto di anni e di caffè e gli sembrò che il rumore delle emozioni dei ragazzi potesse irrompere vestito di lunghissimi baci e di perdute insonnie. GRACE era un grumo di ossa con occhi gonfi di troppi silenzi e troppe cicute seminate per la casa ed ALEX l’ accompagnava cingendo i suoi fianchi con la forza folle dei suoi sorrisi. Tutti sapevano di GRACE, ma nessuno si azzardava a compatirla di fronte alla sua dignità ed ai suoi bellissimi occhi. Quel sabato che cadde per l’ ultima volta era sola……..ALEX era uscito quella mattina, finalmente il sole lo baciava dopo giorni e giorni di forzata claustrofobia “Quanto sei bella New Jork, quanto sei bello sole” E GRACE cadde sfinita da quel maledetto cancro……ALEX bussò bussò e urlò disperato quando entrarono sfondando il portone la trovarono svenuta senza più una lacrima da versare….. Arrivò l’ ambulanza e volarono verso l’ ospedale, l’ ultimo viaggio delle loro bellissime anime………Arrivarono e trasferirono il suo corpo esanime alle emergenze, ALEX la seguiva tenendogli la sua povera mano e d’ improvviso i suoi sorrisi sparirono “Quanto sei bella amore mio, Dio Dio mio perchè me la devi portare via?” Ed il silenzio gli rigò il suo pallido volto e le notti sfinirono la sua fragrante giovinezza; la sua vita era quella camera, quanto avrebbe voluto abbracciare sua mamma ma era solo, con la sua GRACE…………………… Quante notti e quanti giorni su quella sedia tenendo la mano della sua GRACE……quel corpo disteso che urlava vita da tutti i suoi pori “Quanto sei bella bocciolo mio”pensò ALEX guardandola negli occhi, non vide entrare Jeannie la più anziana delle pazienti dell’ ospedale in punta di piedi, gli si accostò e gli disse “So chi sei, qui tutti sanno di te e GRACE” stupefatto ALEX avrebbe voluto rispondergli ma la forza gli venne meno e d’ improvviso scoppiò a piangere sulla sua spalla. Jeannie lo accompagnò un momento fuori da quella stanza si presero un caffè e ALEX gli raccontò del giorno in cui per la prima volta rimase solo quando sua madre se ne andò e del giorno quando conobbe GRACE il suo tutto. Per un momento il ricordo delle folli risate con lei gli diedero forza e quella notte pregò, pregò e pregò che la sua GRACE rinvenisse un’ altra volta. Ma il cancro fini di straziare proprio quella notte il suo povero corpo. L’ infermiere svegliò ALEX ancora trasognante e lo schiaffeggiò facendolo svegliare “La sua GRACE l’ abbiamo dovuta intubare purtroppo non ce la farà…..” ALEX corse disperato per il corridoio ed alla fine si fermò chino verso il muro, sferrò un pugno per sentire di essere ancora vivo….. Troppe settimane aveva passato gonfio di vana speranza e stanchezza, incontrò nel corridoio Jeannie e in un secondo d’ immenso silenzio s’ abbracciarono…. Jeannie gli disse “Caro mio so che il dolore ti distrugge le ossa ma gli devi dire addio lo devi al tuo tutto se vuoi io ci sarò accanto a te ma glielo devi…..” Tornò in quella stanza per l’ ultima volta con Jeannie, lui sembrava finalmente trovare un po di pace si asciugò le lacrime e gli regalò la promessa d’ amore che gli aveva fatto quel giorno che s’ erano uniti……strinse forte forte la sua mano…..il suo cuore batteva fortissimo…..”grazie vita mia per aver illuminato i miei giorni” detto ciò si alzò e uscì …….d’ improvviso sentì i suoi 47 anni un peso insopportabile; Jeannie lo vide uscire dall’ ospedale solo, rassegnato senza più niente……… GRACE era volata via come un dolcissimo angelo e di ALEX nessuno aveva più saputo niente. Solo il cielo un giorno lo vide su quel tetto di New Jork sotto la neve, bellissima anima con gli occhi spenti che si rollava l’ ultima sigaretta

    accetto il regolamento sez. b

  16. CANTAVI PER UN FIORE
    Mi sei capitato in un momento particolare della vita, un momento in cui avevo voglia e desiderio di iniziare una bellissima storia, un momento in cui avevo bisogno di sentire accanto a me un uomo speciale. Volevo risentire il mio cuore battere; periodo migliore non poteva esserci.
    Avevo spianato la strada verso te, togliendo i miei rovi spinosi. Speravo che tu la trovassi, per incontrarci sempre nel mezzo.
    È sempre un destino incontrarsi in un dato momento, nelle reciproche affinità protese in avanti. Speravo in un viaggio lontano, verso l’altrove. Avevo ritrovato con te la chimica alchimia del mio profondo e da quel centro si sprigionava un’allegra onda di cielo; viaggiava in un blu indaco e nel suo colore deciso.
    Credo che amare veramente si possa una volta soltanto, con quella intensità che ti prende ogni fibra fino a lasciarti inerme e sorda a tutto il resto. Non conta nulla la forza che hai se lanciata nel vuoto, ti ritorna un eco. Io ti sentivo in me come sangue che mi dissetava le vene. Fare l’amore con te era un’esperienza che mi sconvolgeva l’anima. Tu facevi vibrare tutte le corde remote che avevo dentro, mi facevi sentire così bella, amata, unica.
    Averti tra le braccia era come nascere sulla sponda di un fiume, tra i colori e le meraviglie del creato. Il sapore della tua bocca era il miglior nettare che avessi mai assaggiato. L’armonia del tuo corpo era la musica più sublime, l’ardore del tuo desiderio era l’immortalità. Ti amavo, ti amavo. Non c’era contraddizione tra il senso delle cose e le sfumature, esse viaggiavano d’uno stesso ritmo.
    A volte ci si sorprende poiché il mondo, visto con gli occhi di chi ami, ci sembra più bello. Il mondo era bello se ne leggevo i segni nei tuoi occhi e sulla tua pelle. Il mondo era dolce se stringerti era la risposta al freddo delle notti e luci lontane. Il mondo era vario se ai miei colori aggiungevo i tuoi e nella mescolanza poi ritrovavo mille nuove prospettive. E quando mi chiedevi: «Cosa sarà domani?»
    «Sarà un frutto…» rispondevo.
    Che nascerà da un fiore, che nascerà dal legno, che nascerà dalla terra e dal sole, che nascerà dall’acqua, da un respiro di vita instillata dall’alto.
    Quando arrivava l’alba, cercandomi dentro, cercandomi fuori, in qualsiasi punto d’affetto che ci stringeva insieme, eri già lì ad aspettarmi, ero lì a guardarti. Ora non riesco a seguire lo scorrere dei ricordi che si agitano sotto la superficie della pelle come timidi aghi.
    Lui scriveva versi immortali per me, li leggevamo la sera abbracciati, esanimi d’emozioni ambrate che si spandevano come inchiostro in brividi caldi, riempiti dai nostri silenzi; la notte non finiva mai. Ho creduto solo nel sublime, mentre le tue nuove scelte nascevano senza di me. Cosa c’è di più doloroso del tradimento di un cuore? Ora solo le vetrate gotiche mi osservano con sguardi identici ai tuoi, mi perdo nei loro riflessi per ore, pallida, sempre pallida.
    La sera schiude i miei sigilli e le tonalità vespertine accompagnano i miei ritorni e la notte ancora… non finisce mai!

    sez. B – Giuliana Guzzon – accetto il regolamento

  17. PENSANDO A TE

    I Ed io parlo d’amore
    sulle sementi sbocciate
    col limitare dei sospiri
    su un ciglio palpitante
    in una nicchia d’ombra.

    II I fiori non hanno colore
    tra le pagine d’un libro
    ma sorridono a maggio
    lungo le strade
    seminando bagliori.

    III Questa è una notte insonne
    che mi consuma lentamente
    come il buio
    fra la morte e il sogno.

    IV Oltre i cancelli del finito
    c’è tutto ciò che resta
    la voce di chi
    non ha più voce.

    V Voglio pensare a te
    indelebile e leggero
    come un bacio
    che non si perde.

    sez. A – Giuliana Guzzon – accetto il regolamento

  18. Punto Zero

    Fu stranissimo.
    Avevo appena guardato l’orologio
    e mentre lo osservavo erano scattate le 13:32,
    poi spostai lo sguardo per due secondi
    in direzione della scrivania
    e dopo di nuovo verso l’orologio che stavolta segnava le 13:33.
    Come era possibile che nell’arco di due secondi
    fosse trascorso un minuto?
    Mi ero forse addormentato in quel frangente?
    Ripresi a battere al computer
    per terminare la poesia che stavo scrivendo.
    Ma quel dettaglio si era frapposto
    fra me e i versi,
    non riuscivo a smettere di pensarci.
    Cos’era successo?
    Un difetto dell’orologio?
    Avevo una strana paura apparentemente immotivata.
    “D’altronde di cose fuori dal normale
    ne avvengono tutti i giorni” pensai.
    Mi addormentai con la faccia sulla scrivania,
    stanco di rimuginare.
    Quando il sonno fu rotto da un rumore
    per qualche secondo non ricordai quello che era accaduto,
    almeno fino al momento in cui mi chiesi che ore fossero.
    Guardai di nuovo l’orologio, non quello digitale
    che portavo al polso
    bensì quello analogico appeso al muro
    e mi accorsi che le lancette scorrevano più veloci del normale.
    Entrai nel panico.
    L’orologio andava sempre più in fretta.
    Mi catapultai fuori dal mio studio
    e uscii di casa,
    tutto andava a una velocita pazzesca,
    le auto, la gente, i ritmi della natura.
    Ad un certo punto il sole divenne scurissimo,
    ma non per un’eclissi
    semplicemente il suo giallo trascolorò nel nero.
    Compresi che il sole era imploso.
    Era la fine della Storia.
    O meglio, ci stavamo dirigendo verso la fine della Storia.
    Questo non era un comune Buco Nero
    nei pressi del quale, stando a quanto dice la fisica,
    il tempo subisce un rallentamento.
    Questa era semplicemente
    la Fine del Mondo.
    E nessuno ci aveva mai detto come sarebbe accaduto.
    L’Hole Sun aveva una forza determinante.
    Di tutto quello che avvenne all’umanità
    dall’implosione del sole in poi,
    nessuno seppe mai nulla,
    nessuno tranne me.
    Per qualche motivo sconosciuto ero il solo
    a non subire gli effetti di quella Superinflazione.
    Vidi scorrere tutto il futuro nell’arco di pochi minuti.
    L’umanità non c’era più.
    A quel punto il sole divenne nuovamente giallo.
    Con mio sommo stupore
    la freccia del tempo puntò dritto verso il passato.
    Dopo la Superinflazione era il momento del Big Crunch.
    Vidi scorrere tutta la Storia del Mondo
    ma dal futuro verso l’origine di tutto,
    il momento in cui tutta l’energia era concentrata
    in un punto infinitesimale.
    Tutto ciò che era rimasto del vecchio mondo,
    eravamo io e la mia casa,
    sospesi in una sorta di bolla di realtà.
    Mi resi conto che il punto infinitesimale a energia infinita
    avesse dei pensieri che io ero in grado di percepire.

    Chiunque Io sia so solo tre cose di me:
    sono Buono, sono Onnipotente, sono Onnisciente.
    Dalla consapevolezza di queste tre cose Io mi dichiaro Dio,
    non il dio antropomorfo concepito dagli umani
    ma Dio in quanto Dio.
    V’era un dio che si faceva chiamare Supremo.
    Il suo nome era Egregora.
    Ma il vero Dio è appena nato, è sorto da un grido
    che le Tenebre hanno udito.
    Ed Io, in quanto Dio partorito dalle Tenebre
    risvegliato dal grido della sofferenza umana,
    sarò il Creatore di un nuovo universo
    dove regneranno la gioia e la pace,
    il piacere e la vita,
    l’onestà e la bellezza,
    l’intelligenza e la libertà,
    l’avventura e il mistero,
    la luce e l’ombra,
    e tutto quanto Io abbia concepito come Bene
    insieme agli Uomini Giusti
    che sono sorti con me dalle Tenebre.

    Dopo aver ascoltato questi pensieri,
    il punto infinitesimale cominciò ad espandersi e contrarsi
    con un ritmo simile a quello del cuore
    e divenne sempre più grande.
    Dopodiché mi sembrò che un velo immenso
    venisse lasciato cadere da quell’enorme Cuore.
    Tornarono le cose di sempre.
    Mi guardai intorno.
    Era una notte calma e meravigliosa.

    accetto il regolamento, sez. b

  19. VOCE ANTICA
    E’ voce antica
    questo sussurro d’ombre
    dove srotola il piano
    e si deforma
    lungo nastri di pietre
    e irsuti picchi.

    E’ voce antica
    quella che grida al cuore
    d’ere perdute
    di radianti misteri
    sopra labbra arrosate
    e incaute ciglia.

    – Fragili architetture,
    stupori persi ai cancelli,
    in sfaceli d’azzurro
    queruli sensi –

    Sullo schermo del cielo
    tremulo volo
    di un’ondivaga nube
    che svapora l’ultima fede
    nel subissarsi in pioggia.

    Sezione A Daniela Ferraro ” Accetto le regole del concorso”

  20. TANTA PAZIENZA

    Splende il sole,
    è un giorno con tanto splendore
    che fa ballare il cuore.
    L’estate è qui,
    posso abbracciarla,
    ma dentro di me c’è tanto freddo,
    mi sento un ferito pinguello.
    Sento freddo, mi sento male,
    poi mi assale un caldo bestiale.
    Gli anni sono troppi,
    m’invadono tanti malori,
    non so cosa fare,
    ma penso che avere pazienza
    è un dono speciale.
    Tanta pazienza e sopportare,
    questo è il modo
    di vivere e amare.
    A qualunque età
    Dio col Suo Amore,
    ci aiuterà!

    sez. a accetto il regolamento

  21. La promessa
    Rosa chiese a bruciapelo al capofamiglia se poteva avere piacere a maritare sua figlia Annunziata con Luigino. L’interpellato si mostrò alquanto perplesso ed esclamò: “Chi e’ questo giovane? ”Giuse’ ma sì che lo conoscete! E’ uno dei figli del mugnaio! È quello che ha il posto al Comune, lavora al cimitero! Il buon Giuseppe fece volutamente una smorfia di contrarietà, non voleva mostrarsi troppo interessato, ma il pensiero di sistemare la sua primogenita con uno stipendiato fisso lo stava già facendo gioire. Dopo queste poche battute, l’argomento fidanzamento fu opportunamente tralasciato e si pensò ad anticipare la cena. Fu apparecchiata la tavola con pane casereccio, formaggio, salame, senza dimenticare il solito buon bicchiere di vino! Al momento del commiato, Giuseppe si rivolse alla donna in visita con queste parole: ” Statevi bene signora Rosa! Grazie per l’ambasciata, ne sono onorato! Portate al giovanotto i miei saluti e riferitegli che ci devo riflettere. Rosa ringraziò a sua volta e prontamente replicò: “Grazie assai per la cena e perdonate il fastidio arrecato! Mentre Rosa si avviava, Annunziata, incitata dalla madre, accompagnò l’anziana donna sottobraccio per le ripide scale e continuò ancora ad affiancarla per un buon tratto di strada. Giunte in un vicolo solitario, Rosa estrasse dalla tasca del suo grembiule di raso la foto dello spasimante. Fu cosi che Annunziata conobbe la prima immagine dell’uomo su cui avrebbe appoggiato i suoi ingenui sogni. A seguire, tutte le notti, lei sognava quel ragazzo bello e forte, col sorriso ampio stampato in faccia. Pochi mesi dopo ci fu lo sposalizio. A tutti all’inizio sembrò che Annunziata avesse avuto la fortuna di incrociare il buon partito! Ma era solo apparenza perché la sposina, fin da subito, dovette fare i conti con un uomo controverso! Lei ben presto capì di avere a che fare con una persona difficile che si trascinava dentro un abisso. Con l’andare degli anni, il carattere del marito si guastò ancor di più: passava le serate in trattoria con brutta gente a imprecare, a fare danni, a ubriacarsi: tutto quello che lui sapeva offrirle erano disprezzo e violenza! Poi c’erano i debiti di gioco, la miseria!
    La vita di Annunziata agonizzava dentro giorni bui, tutti uguali e senza scampo! Solo la sera, all’ora del vespro, lei era solita affacciarsi al balcone di casa dove provava un poco di ristoro. Si soffermava ad ammirare il sole che d’estate pareva una caramella all’arancia scartata sul filo del tramonto. Il suo sguardo sognante amava soffermarsi sulla valle sottostante che si stendeva placida a terra, docile come un lenzuolo verde. A quell’ora ogni giorno in cuor suo sentiva uno strano languore, come una chiamata alle armi in difesa della propria esistenza! Una sera, dopo aver assistito all’ennesimo spettacolare tramonto, lei si rese conto di essere viva, di non voler continuare con quella vita da topo. La mattina seguente, mentre lui era a lavoro, raccolse un po’ di essenziale biancheria, prese il rosario, i pochi soldi trafugati dalle buste regalo di nozze, il libretto delle preghiere, la foto dei suoi genitori e nient’altro. In fretta e furia indossò un vestito a fiori che teneva nascosto: era un abito urlante nelle tinte che i benpensanti avrebbero definito da sfacciata! Lo aveva acquistato pochi giorni prima al mercatino dell’usato: le era servito per sognare un poco davanti allo specchio durante le ore della più grama tristezza. Con decisione lo infilò! Certo non aveva le scarpe adatte, quelle belle… quelle col tacco e la pelle camosciata come una carezza! Dovette ricorrere alle vecchie scarpe da lavoro, tozze e sgraziatamente chiodate! Così acconciata si diresse verso la piazza. Alle otto in punto salì sulla corriera del luogo, la più sgangherata e secolare al mondo! Da quel giorno di lei non si seppe più nulla! Solo un uomo del posto, un tipo po’ suonato, continuò per anni a dire in giro di aver visto Annunziata fiorire quella mattina. Pareva tale e quale a una pianta rampicante!
    Sez B
    Accetto il regolamento

  22. Nella testa, nel ventre

    Hai insinuato le mani nel mio cranio,
    spostato le vene come fili elettrici,
    divorato la mia logica con denti d’acciaio.

    Non sei l’amore che credevo,
    ma il tormento che non volevo,
    un ago che cuce a doppio filo
    la tua immagine e la mia volontà.

    Ti porto nella testa,
    come una scheggia pericolosa
    che minaccia i miei organi vitali.
    E come la morte che sfido ogni giorno,
    diventi paura che solletica il mio ego
    e nel sangue si fa miele .

    Ti porto nel ventre,
    bevendo fino in fondo il tuo veleno
    sciacquando la gola col tuo nome.
    Lo sputo, lo ribevo
    prima che il suo fuoco si spenga sulla lingua.

    Nella testa, nel ventre,
    amore che non sei amore,
    morte che mi guarda dal confine del sonno,
    veleno che sa di miele.

    Aria che non sa più farmi respirare.

    ©Angela Maria Malatacca
    (Sezione A – accetto il regolamento)

  23. OMBRA

    Stanotte
    ho tradito la mia ombra silenziosa
    ed ho seguito la tua
    solenne
    conforme a quella dei miei sogni
    ondeggiante
    come un cavallo ubriaco

    Ho litigato con le lucciole
    gelose compagne mie
    e la luna, oh…quella luna
    restava inutilmente a corteggiarmi

    Io seguivo la tua ombra
    sognante quieta
    scevra dell’onta di quest’epoca
    risonante di un romantico sorriso
    ma ho temuto quando è scomparsa all’alba
    ed io quasi gridavo
    spasmodico mi agitavo
    e mi svegliavo
    abbracciato ad un’altra donna

    sez. a accetto il regolamento

  24. E noi dispiegheremo i nostri versi

    Se tutto è stato scritto e tutto è stato detto
    non parliamo più, non scriviamo più;
    Ma se siamo i nuovi profeti
    Inviati per ricordare agli uomini
    Che il mondo appartiene a Dio;
    E se il mondo annega
    Nel fango del pozzo d’inchiostro
    E scribi e farisei
    Ruggiscono nelle vanità:
    Allora trasmetteremo i nostri sogni
    comunicando ancora le nostre visioni.
    E contro i loro arsenali
    Noi dispiegheremo i nostri versi.

    Sezione A- Accetto il Regolamento

  25. La storia dei tre elefantini

    In un paese dell’India, nella giungla, vivevano tre elefantini che si chiamavano Tanèmi, Kangèpi e Shiva. Questi elefantini giocavano sempre insieme: a nascondino; al gioco degli indovinelli; oppure a girotondo, legandosi l’uno con l’altro con le loro lunghe proboscidi.
    Un giorno accadde che Shiva, il più piccolino dei tre, perdendo l’equilibrio, sprofondò in una buca del terreno, ferendosi la zampa anteriore destra con la lama affilata di una sciabola che certi ladruncoli avevano nascosto in quella buca insieme ad altri oggetti di valore, bottino di un furto consumato ai danni del potente Rajà Betankur.

    Il povero elefantino, dal gran dolore che gli causava la profonda ferita , con un barrito acuto e prolungato fece tremare la terra al punto che, si narra, gli abitanti del vicino villaggio di Laicòn si riversarono fuori dalle capanne pensando che si trattasse di un imminente terremoto.

    I due elefantini, superati i primi attimi di sgomento e paura, pensarono di recarsi a casa del medico degli animali, il Dr Shailèsh, un famoso veterinario che aveva la sua casa proprio ai bordi della giungla. Così, dopo aver costruito alla meglio un riparo per il povero Shiva, galopparono sino alla casa del medico, alla cui porta, con la proboscide, strofinarono con energia la loro trepidante inquietudine.

    Il Dr Shailèsh fu svelto a capire e, predisposta la sua borsa, venne caricato sul groppone di Kangèpi e condotto di gran carriera sul luogo dell’infortunio.

    Quando vi giunsero era già notte fonda: la luna piena rischiarava la piccola radura ove Shiva, adagiato su un morbido tappeto di fronde, gemeva sottovoce, ormai semisvenuto a causa della grande quantità di sangue sgorgato dalla incisiva ferita.

    Abilmente il Dr Shailèsh lavò la ferita con acqua sterile, la disinfettò e, dopo avere applicato un unguento coagulante, la coprì con larghe foglie di banano, di modo che la benda che di seguito vi avvolse strettamente attorno, non causasse dolore in occasione dello sbendamento.

    Finita l’operazione, il buon veterinario, cercando tutt’attorno gli attrezzi da riporre nella sua borsa, fu attratto da un luccichio tra il fogliame. Tanèmi, che aveva intuito dove era rivolta l’attenzione del buon Shailèsh, spazzò con la proboscide tutta l’area circostante, mettendo così a nudo una profonda buca dove, insieme ad una sciabola intrisa del sangue di Shiva, essi rinvennero i preziosi gioielli di rubini e zaffìri rubati al Rajà, per il cui rinvenimento egli aveva promesso un premio di trentamila ghinee d’oro.

    Riposta in una sacca la refurtiva il medico si fece condurre a Palazzo Reale e, svegliato il Rajà in persona, gli narrò fedelmente i fatti, dando tutto il merito del ritrovamento ai suoi amici elefanti. Non di meno, il suo altruismo, gli fruttò il premio in danaro mentre il Rajà ordinò che i tre elefantini venissero ospitati vita natural durante, nelle stalle reali e senza incarichi di fatica. Shiva, trasportato a Palazzo Reale la notte medesima su una enorme lettiga trainata da sei paia di cavalli bianchi, si rimise in poche settimane, tornando più forte e più allegro di prima. Ed i tre amici vissero felici e contenti per il resto dei loro giorni.

    Sezione B – Accetto il Regolamento

  26. E così fu, ma nessuno se ne accorse
    Mi sono spezzata all’alba,
    quando il sole tesseva oro sulle pareti,
    ma nessuno ha visto le crepe,
    né il silenzio che mi attraversava il petto.
    Mi sono spezzata camminando per strada,
    mentre il vento spettinava il dolore,
    mentre il mio passo restava sicuro,
    mentre la mia voce diceva “sto bene”.
    Mi sono spezzata senza far rumore,
    tra i piatti da lavare,
    tra le lenzuola tirate,
    tra le risate offerte come fiori d’inverno.
    Mi sono spezzata nelle notti vuote,
    quando il buio si sedeva accanto a me,
    sussurrandomi tutte le parole
    che non ho mai osato pronunciare.
    Mi sono spezzata e nessuno ha visto,
    perché sapevo ricompormi,
    perché ho nascosto le ferite sotto la pelle,
    tra le pieghe del cuore, tra le ciglia abbassate.
    Mi sono spezzata stringendo i denti,
    con il sorriso saldo sulle labbra,
    mentre offrivo forza a chi mi chiedeva aiuto,
    mentre tenevo insieme i sogni degli altri.
    Mi sono spezzata, mille volte,
    ma nessuno mi ha vista cadere.
    Eppure, eccomi ancora qui.
    Non infranta. Non vinta.
    Solo più vera.
    E nel mio silenzio, nel mio fuoco,
    io esisto ancora.
    sez A accetto il regolamento

  27. LA STAZIONE DEL CUORE
    Mio padre morì una domenica mattina, da solo. Il suo cuore si fermò nell’anonimo silenzio di una clinica, senza nessuno accanto ad accogliere l’ultimo, lento battito. Ma anche in quel momento, ne sono certa, non si sentì mai davvero solo.
    La sua vita era stata una lunga strada percorsa con ostinazione e sacrificio, fatta di fatica ma anche di amore.
    Fin da piccolissimo aveva conosciuto il peso del lavoro e il valore della resistenza; era diventato ferroviere molto giovane e da allora aveva trascorso gli anni sulle macchine a vapore respirando il calore della caldaia e con il sudore che gli rigava il viso mescolato alla polvere di carbone.
    Poi era arrivata lei, mia madre, una donna minuta e timida, ma forte come i giganti di ferro che lui domava ogni giorno. Il loro amore era sempre stato pudico, discreto, un po’ antico. Si erano scelti senza esitazioni e senza calcoli, contravvenendo all’usanza dell’epoca che voleva che i genitori scegliessero il coniuge adatto al proprio figlio.
    Si erano amati come ci si ama quando non si ha niente, ma si ha tutto. La loro era una casa nella quale c’era vita, anche quando la vita, in quell’immediato dopoguerra, non regalava nulla a nessuno.
    Sei figli venuti al mondo, uno dopo l’altro, senza mai un lamento, senza mai un rimpianto. Ricordo la complicità spontanea nei loro gesti quotidiani, la suddivisione dei compiti senza che nulla fosse detto.
    Le difficoltà non li avevano mai piegati. C’erano stati inverni lunghi e conti che non tornavano mai; serate in cui il sonno era un lusso perché c’era sempre qualcosa da sistemare, da riparare, da riciclare, o perché i pensieri erano troppi. Ma non c’era mai stata miseria in casa, perché la dignità era la prima cosa da portare in tavola, ogni giorno. “Il pane guadagnato con fatica è il più buono,” diceva, e noi sapevamo cosa voleva dire.
    Le sue mani, così grandi e callose, erano pulite ogni sera con cura e sempre pronte ad accarezzarci con una dolcezza che contrastava con la loro durezza e con il suo carattere severo.
    Amava parlarci del suo lavoro: diceva sempre che i treni hanno un’anima, che ogni viaggio ha il proprio ritmo, la propria voce. Lo raccontava come fossero i versi di una poesia: il battito cadenzato delle ruote, il fischio che rompeva la notte, il respiro possente della locomotiva. Il treno era parte di lui, un compagno di vita che lo portava lontano, ma che ogni sera lo riportava a casa.
    Così, con mille sacrifici, studiammo tutti. Ci spinse ognuno sulla propria strada con la certezza che l’amore di casa ci avrebbe sempre accolti, se fosse stato necessario.
    Ma quando mia madre se ne andò, qualcosa in lui si incrinò. Fu come se il motore della sua esistenza si fosse spento, come se ad una delle sue locomotive fosse mancato il carbone.
    Per la prima volta lo vidi smarrito e incerto. Le sue mani, quelle mani forti che avevano tenuto in piedi la famiglia, iniziarono a tremare. La sua mente si perse nei meandri del passato, e il presente divenne un intruso sconosciuto.
    Non ricordava più molto della vita dei figli, ma ricordava con precisione i dettagli di un viaggio fatto quarant’anni prima, il nome di un vecchio collega e il sapore del caffè bevuto in una stazione di provincia.
    Ogni giorno sedevo accanto a lui e gli raccontavo storie. Leggevo poesie, gli parlavo di noi e della vita che avevamo vissuto insieme. E a volte succedeva un piccolo miracolo: un lampo di lucidità nei suoi occhi, un sorriso che riconoscevo o una parola detta sottovoce che mi faceva credere che, almeno per un solo istante, fosse tornato indietro.
    Poi il velo calava di nuovo, e restavo sola con un padre che c’era e non c’era più. Ed ero diventata la madre di mio padre.
    La sera prima della sua morte, sentii che il distacco era vicino. C’era una pace nuova in lui, una quiete che non avevo mai visto. Mi prese la mano con forza, come se volesse dirmi qualcosa, ma non trovava le parole per esprimersi. Poi la lasciò andare e mi carezzò solo i capelli che allora portavo lunghi.
    La domenica mattina il suo cuore si fermò.
    Piangemmo, ognuno in modo diverso. Il dolore era insopportabile, ma sapevamo che il suo viaggio era compiuto, che era tornato da lei, da quell’amore che era stato la stazione più sicura della sua vita.
    Ci aveva lasciato il suo testamento, ma non in una lettera, non in un foglio firmato. Era inciso nelle nostre mani, che sapevano lavorare senza paura. Nelle nostre spalle, che non si piegavano davanti alla fatica. Nei nostri cuori, che conoscevano il valore di restare uniti.
    Eravamo sei, stretti come le dita di una stessa mano. E in quell’abbraccio, nel legame indissolubile che lui e mia madre avevano costruito con la loro vita, mio padre continuava a vivere.
    ©Angela Maria Malatacca
    Sezione B – accetto il regolamento

  28. OMBRA SENZA SOLE

    Dovevi proprio andartene così? E adesso? Ora che i miei pensieri rimbalzano tra le pareti, ora che avverto come un senso di vertigine per il vuoto, cosa faccio? Da dove comincio? Non si fa così. Non è stato corretto da parte tua, in nessun modo. Anzi, avresti potuto trovare migliaia di parole, gesti, avresti dovuto.
    Me lo dovevi.
    Com’è potuto succedere? Mi viene da pensare ai suicidi, a quelli che decidono per un atto estremo, senza ritorno. Ecco. Hai suicidato il nostro amore. Era il nostro e io non mi sono accorta che era malato. Non si dice così anche per i suicidi? Era normale, sembrava stare bene.
    Sembrava stare bene.
    Ah, lo so dove mi vuoi portare! A pensare che è colpa mia, vuoi che sia la sola a provare dolore per questo lutto. Hai riempito solo una valigia, le tue camicie penzolano stirate nell’armadio. Il tuo odore è ovunque, vorrei urlare, ma non ci sei.
    Ora entro nell’armadio e urlo.
    Mi guardo allo specchio e non vedo più nulla, è vuoto. Ho cambiato forma così tante volte per te che ho dimenticato com’ero. Ho dimenticato pezzi di me, nascosto sogni, dolori e desideri, per non sbagliare.
    Ora vedo solo un’ombra grigia.
    Farò una doccia. Voglio lasciare scorrere l’acqua addosso, voglio lavare via quell’odore, voglio che questa crisalide si apra ma è impermeabile, è una fitta trama che blocca anche il respiro.
    Vorrei inseguirti.
    Ma non so il perché.

    di Marcella Donagemma – SEZIONE B – Accetto il regolamento

  29. In treno
    Lui se n’è andato. Assieme alle valige si è portato le colazioni insieme, le cene delle otto, i maglioni sulla sedia, i programmi del sabato sera e quelli per salvare il mondo. Mi ha lasciato straniera ad attaccare pezzi di me sul guanciale, la notte. Mentre tutti dormono, non posso più allungare il braccio per sentire il suo corpo di animale caldo accanto al mio.
    Le piantagioni di carciofi che sbucano dal finestrino del treno mi riportano l’immagine di mio padre: “Tutto è labile, confuso, folle, oggi. Che ne sarà di questo mondo ora che la nostra generazione non ci sarà più?”. Faceva il preside di un liceo, dove i pezzenti vengono cacciati in un’ unica sezione, per non mescolarsi al fiori fiore dei figli di papà. Anche lui faceva colazione alle sette, pranzava alle 13,30 tranne il giovedì, cenava alle otto di sera e organizzava immancabilmente per lui e la mamma i fine settimana. Quando c’era Roberto ero come mio padre, organizzata come un congegno a orologeria
    Fuori dal finestrino del treno spicca una cascina e un campo guarnito di pale eoliche. Mi sono distratta e il vicino, mentre siede accanto a me, mi dà una gomitata, seguita da uno scusa. Penso di avere il trucco un pò sbavato sulla faccia gonfia per i pianti e le notti insonni e non mi volto. Sto andando a vedere la mostra di Chagal. Non puoi startene un mese rintanata in casa, devi prendere aria, incontrare altra gente, rinascere. La vita continua.
    Penso che visiterò anche il caffè letterario di Roma, ma lo penso così, come una sonnambula. Quanto tempo ci vuole per sfatare un mito? E’ una domanda che giunge improvvisa come un lampo nella notte o un pugno nello stomaco.
    Sento che il mio vicino respira. I suoi respiri sono corti e non regolari. Il treno passa accanto a ruderi e pale di fichi d’india, fino a giungere a una stazione. Lì, sulla tettoia, vedo un nido, ma sono solo spine. Le sento dentro, quelle spine, conficcate nei ventricoli, dove Roberto abita ancora come un uccello crudele, dal becco appuntito. Passa la hostess col carrello bar. Prendo un caffè, pago. Il mio vicino si è allontanato. Chiedo il fruttosio e so già che, sorridendo, mi dirà: solo zucchero. Non voglio prenderlo amaro. E’ risaputo che lo zucchero è un veleno, ieri a scuola ho organizzato una giornata di educazione alimentare, nella quale la ‘lesività’ dello zucchero è stata dimostrata ampiamente. ‘Va bene lo zucchero” dico alla hostess, mentre riecheggia il mantra di mio padre: Cosa accadrà a questa società senza di NOI?
    Il vicino torna, mentre io stringo la tazza di caffè come un oggetto prezioso, scampato a un terremoto. Fuori abeti, coricati in una terra sassosa e sabbiosa. Ad un tratto il profumo del mio vicino mi avvolge come una nuvola rosa, mentre mi perdo nel nuovo, mutato paesaggio di prati interminati. Poi c’è solo il suo respiro. Prendere e dare. E nel mezzo esserci. Semplicemente. I pensieri si dipanano nella matassa verde del prato. Mi volto un tantino: lui è vestito di nero e si è messo di lato a guardare il tablet con le cuffie. Non so se cerca la privacy. E se si fosse messo di lato per avvicinare un pò più il corpo al mio sedile? mi chiedo. Tutto è una questione di prospettive, mi dico. Sento che, per la prima volta, sto dissentendo dal mio padre infallibile. Vedo la sua faccia coi baffi che mi guarda granitica e dietro la sua generazione, come in una foto di gruppo in bianco e nero che va sbiadendosi. Sento l’odore del piombo in gola. Traggo un lungo respiro e sento anche respirare il mio vicino. Sto respirando! E mi sembra la prima volta, in vita mia!
    Dal finestrino vedo colline, una casetta col tetto spiovente che emana un vago sentore di normalità, che ora mi lascia solo l’umido addosso. Sento la punta delle dita fredde. Mi chiedo se Roberto abbia mai sentito la punta delle mie dita fredde. Fuori, l’immagine di mia madre vola nel paesaggio e si confonde in esso come in una tela di Chagal, tra tarassachi, emergendo dall’agenda impegni di mio padre. Le nuvole se ne stanno sulle vette austere sormontate da alberi. Il sole sulle cime piove una luce indiretta. Giù, un piccolo esercito di arbusti e canneti e un fiumiciattolo. La luce mi cade sulle mani. Non sono brune, ma neppure pallide. Le dita sono lunghe, le vene molto marcate, sporgenti come il tragitto del fiume che sale dalle falangi. Sono belle. Non le avevo mai guardate.
    Il profumo del mio vicino mi fa pensare al mughetto. E torno bambina, quando mia madre lo prendeva dalla profumeria/merceria sotto casa. Ma perchè il mio vicino è seduto accanto a me e non accanto alla signora bionda che sbadiglia dall’altro lato del treno di fronte a un signore con gli occhiali d’oro che fissa il tablet? Per la prima volta in vita mia, non so nulla, tranne che respiro. Il sole, ora, è alto e caldo, cade sul maglione, sulla mia collana col medaglione d’argento dell’albero della vita, mentre disegna una linea di luce proprio lì, sul cuore. Il mio vicino si è riposizionato, dritto sul sedile. Il treno si ferma. Lui mi sfiora il braccio ed io sento la sua vibrazione delicata, assieme agli ultimi movimenti sussultori del treno. So che ci sarà solo quella, quando attraverserò la città, guarderò monumenti e vetrine, andrò al museo e al caffè letterario. Quando scendo, mi sembra che un tripudio di tarassachi invada i binari. Ed io vi plano come in una tela di Chagal.

    sez. b accetto il regolamento

  30. Ho pedalato,
    con i miei compagni, tutta la città.
    Abbiamo portato a spalla una gatta di quattro metri
    e un dirigibile truffa, che nascondeva una bomba…

    Non so nulla,
    e nulla ho compreso.
    Niente voglio sapere,
    e tutto vorrei sentire.

    Quante cose
    si sono messe nel mezzo!
    Separati da due vie,
    divisi…
    da un finestrino, dalla forma delle mani su di esso.

    Alzandomi dalla sedia,
    voltandoti le spalle,
    non ho più fatto in tempo a tornare indietro,
    mentre la strada mi sfuggiva dal petto,
    finendo sulle pareti.

    T’ho riconosciuto negli occhi
    e dalla pelle tremante…

    Ossements vivants !

    Jamais je n’aurais si voulu donner à boire à ces mains.
    Jamais je n’aurais si voulu manger ta bouche.
    En vérité, en vérité,
    c’est me coucher à côté de toi où j’aurais voulu tomber…

    En me levant de la chaise,
    je ne t’ai pas oublié.

    J’ai soufflé sur une fleur pour la donner au vent.
    J’ai soufflé sur ma peau pour la voir vivre.
    J’ai soufflé dans tes épaules
    pour dénouer le nœud de tes ailes…

    Ainsi,
    j’ai dénoué le nœud qui serrait le souffle de mon cœur.

    sez. a accetto il regolamento

  31. Sezione A, accetto il regolamento

    Odissea
    Ho una vocazione per i naufragi.
    Lascio che il canto della sirena mi guidi.
    Sono il capitano di una nave fantasma
    ancorato in fondo al mare tra sale e alghe.
    Un cattivo presagio.

    Ho una vocazione per i naufragi,
    salpare per l’isola di Eèa
    al solo scopo di scambiare carezze
    con la maga mitologica
    fare l’amore come se fosse poesia
    spezzare un verso qui, una carezza là.

    Ho una vocazione al danno,
    perdere la rotta,
    marinaio errante alla deriva del destino
    recitare la satira con ninfe sfrenate.

    Ho una vocazione alla rovina
    ma se la sirena chiama
    lascio tutto e parto.
    Mi butto tra le tue braccia mare.
    Morire così è un privilegio.

  32. Sezione B, accetto il regolamento
    Il vogatore

    Come un vogatore rema all’indietro e senza vedere, cerca il traguardo, lottando con le mani sui remi, vado avanti, non vedendo nulla,
    canottaggio alla ricerca delle risposte che ho desiderato così tanto dall’inizio.
    E più mi allontano dall’inizio meno vedo il mio obiettivo alle mie spalle,
    meno posso vedere le mie risposte,
    anche se già più vicino all’arrivo.
    E così, anche al buio, remo, e niente.
    E mentre vogo nel mare dopo il mio viaggio, i punti di vista si stabiliscono.
    Non dove arriverò, ma all’inizio, continuo a remare senza vedere nulla.
    Le mie mani e la mia schiena cominciano a farmi male.
    Eppure continuo fino all’arrivo, dove troverò le mie risposte.
    Perché sto cercando così tanto queste risposte?
    Perché mi vengono fatte così tante domande?
    Non è ancora arrivato il tempo per sapere.
    Vedo l’inizio e so che se provo a guardare indietro, non riuscirò a vedere nulla.
    E ora che ho remato molto, niente più ho da perdere.

    Così è la vita: remare all’indietro non sapere quali barriere ci sono poste tra quello che vediamo già dall’inizio e quell’arrivo sconosciuto.
    Remare nel mare fino all’ arrivo oppure continuare a remare verso il nulla.
    Bene, se devo fermarmi, perché iniziare?
    Remare finché non trovo un senso alle domande più difficili che vengono poste come un pesante fardello sulla mia schiena.
    Sono arrivato.
    Mi volto, le spalle. all’arrivo, ecco le medaglie tutte stese:
    niente. Le risposte erano all’inizio.

  33. INNO ALLA NOIA

    NICOLA MATTEUCCI, SEZ.A
    ACCETTO IL REGOLAMENTO

    La noia è un ragno che cuce ragnatele nel cervello,
    succhia meridiane con zampe di velluto giallo,
    e il tempo—oblò sfondato—versa sabbie di piombo:
    il domani è già ieri, fango che scivola a picco nel sonno.

    Ogni minuto un becchino che scava fossi nel polso,
    le ore mutano in larve, bozzoli di midollo prosciolto.
    Guardo il soffitto: un affresco di muffa danza il fandango,
    le crepe s’aprono a baci, lingue di smog antico.

    Fuori, un merlo impagliato canta l’inno delle pietre,
    il vento mastica foglie morte -bava di chimere infeconde.
    La luce? Una lama opaca che sbriciola i muri in polvere di gesso,
    e l’ombra, mendica oscena, s’incolla alla carne come un supplizio.

    Eccola la vita: un carillon arrugginito che gracchia
    la stessa nota, un re beota che gioca a dadi con la sua ombra.
    Le dita tamburellano sul vuoto -rituale di ossa impazzite-
    il respiro un mantice che gonfia solo buchi, voragini dipinte.

    Penso a te, donna-eco, fantasma di un dialogo mai iniziato:
    la tua voce è un’albicocca marcia nel cestino dell’estate.
    Vorrei urlare, ma la gola è un pozzo di ragni paralizzati,
    il silenzio si fa telaio, tesse sudari di monosillabi spenti.

    La finestra è un occhio cisposo che fissa l’orizzonte in muta:
    il sole, mela bacata, cade nel brodo delle nuvole rancide.
    E tutto marcisce in bellezza, come un quadro di Arcimboldo:
    gira il capo, e il mondo è un frutto vermicolato, un tripudio di scarto.

    Ah, la noia! Architetta di deserti nel sangue,
    ti scolpisci idoli di sale nelle vene, madonne di stagno.
    Vorrei correre, ma le gambe sono colonne di cenere,
    il cuore un orologio a cucù senza più uccelli né numeri.

    Passa un cane claudicante -santo storpio del nulla-
    lecca l’asfalto che brucia di febbre e oblivio.
    Lo seguo con lo sguardo, pellegrino verso nessun luogo:
    la sua zampa ferita scrive poemi nel fango, epitaffi per insetti.

    In cucina, le formiche assediano una briciola di ieri:
    esercito ordinato in guerra contro il nulla che avanza.
    Io, generale inerte, osservo la battaglia dal trono di plastica:
    vinceranno loro, divorando il passato. Io? Resto a guardare.

    La radio sussurra notizie di un mondo che non sono io:
    alluvioni, amori, astri -storie di un altro pianeta spento da deficienti.
    Cambio canale: solo statistiche, vespri di elettroni impazziti e jingle per dentifrici.

    Sul tavolo, un libro aperto si mangia le proprie pagine:
    le parole paiono formiche nere in fuga dal senso.
    Leggo una frase al contrario: “Il vuoto è pieno di noi”,
    e ridacchio, eco di un pazzo che parla a specchi incrinati.

    Scrivo il mio nome sulla polvere: subito uno starnuto lo cancella;
    lo riscrivo col sangue: la carta moschicida lo divora.
    Sono un’icona senza altare, preghiera senza labbra,
    un verbo in cerca di soggetto, aggrappato a un punto esclamativo.

    Nel bicchiere, il vino è aceto -metafora troppo facile-
    lo bevo lo stesso: la bocca è un teatro di ombre senz’ingresso.
    Gocciola sul mento, lacrima di Bacco impazzito,
    e il corpo, otto miliardi di cellule che applaudono al delirio.

  34. Storie di paese
    ***
    Ricordi
    ***
    Giuseppe Loda
    ***

    Erano i primi giorni del mese di Giugno e camminava con passo lento con sulle spalle il suo zaino, anche se in quel momento era vuoto, gli pareva più pesante del solito.
    Aveva da poco oltrepassato le montagne e il confine italiano, anche se lentamente si stava avvicinando a casa, la fame che in quegli ultimi tempi riusciva a sopportare abbastanza bene, forse a causa della strada che aveva fatto, oppure l’aria di casa che cominciava a respirare, gli aveva messo appetito. Purtroppo non vi erano botteghe lungo la strada che stava percorrendo e anche se affamato doveva proseguire il viaggio.
    Quando da lontano vide un casolare, subito allungò il passo nella speranza che vi fosse qualcuno di buon cuore che gli potesse regalare un pezzo di pane. Quando arrivò purtroppo non vide persone in quel posto. Si avvicinò ugualmente alla porta di quella casa e bussò, ma nessuno gli rispose. Deluso si stava allontanando quando, passando davanti a una vecchia rimessa la curiosità lo spinse a controllare cosa possa esserci al suo interno. Quando entrò non poteva credere ai suoi occhi, gli pareva di sognare, nella rimessa vi era un tavolo dove da una parte c’era, un cesto di pane, un salame, una coppa quasi intera e un pezzo di spek, mentre sull’altro lato un coltello, due bottiglie di vino e quattro bicchieri. Come se qualcuno avesse già preparato il pranzo per le persone che vivevano in quel cascinale.
    Dopo avere gridato ad alta voce: “ Eiiiii non c’è nessuno?” per due volte, non potendo più resistere, anche se avesse rischiato di prendere qualche sberla, si avvicinò al tavolo e cominciò a mangiare. Il pane era abbastanza duro, ma con il salame, la coppa e lo spek, accompagnato da un buon bicchiere di vino rosso, gli pareva di fare un pranzo da Re. (È proprio vero, un panino con il salame e un buon bicchiere di vino, sono un ottima combinazione, sia per uno spuntino, che per un intero pasto.)
    In nemmeno dieci minuti aveva assaggiato un po’ di tutto… Quello che c’era sul tavolo e bevuto due bicchieri di ottimo vino. Non essendo abituato da molto tempo a bere del vino gli girava un po’ la testa, in compenso però avevo recuperato molte energie. Dopo avere controllato nuovamente il cortile, non vedendo anima viva, infilò nello zaino un po’ di pane, un pezzo di salame, lo spek rimasto e l’altra bottiglia di vino ancora chiusa. Non avendo modo di ringraziare personalmente chi avesse preparato quel pranzo, poiché aveva lasciato sul tavolo quasi più nulla. Con l’ultimo pezzo di matita che aveva con se scrisse su un foglietto un bel grazie, e riprese il cammino, aveva ancora molta strada da fare per raggiungere la sua casa.
    Aveva venticinque anni, quando i soldati tedeschi lo fecero prigioniero a Verona, caricato su un carro bestiame e trasferito insieme ad altri militari nel campo di concentramento di Mauthausen. Prima di essere fatto prigioniero pesava circa settanta chilogrammi. Quando ebbe la fortuna di ritornare a casa, grazie anche al cibo che aveva trovato in quel cascinale, di chilogrammi ne pesava quaranta.
    ************
    In ricordo un giovane militare italiano che nella sua sfortuna ebbe la gioia di ritornare vivo nella sua amata terra.

    Sezione B accetto il regolamento

  35. A Lei, La Nessuna…
    Per lei farei
    Per lei direi
    Per lei così sono
    Sarai sempre lei, quella che da me riceverà.
    Neanche richiede e richiederà.
    Di conoscenza sempre alla ricerca in questa arida terra.
    Quella specie Lei.
    Civetta vorace di vita e passione che ammirerò.
    Vento sei
    Che sapiente ovunque và.
    Vento rimarrai
    Librandoti tra gl’iesposi intrecci della nostra eclissi di vita.
    Non sarai mai solo mia spinta, mi rammarico di questo
    Tu libera sei e sapiente, testimone del mio mondo e di altri mille almeno.
    Fugace pura gioia in solo attimo.
    Rammaricato, di non aver compreso, vissuto, e non dato da mercato, quel momento sarebbe rimasto il mio unico orpello, che, per mesi e mesi di anni mi lega a questo infame mondo che non ci merita.
    Solo tu lo sei, il niente che cambia ogni attimo l’intero mondo.
    -Haronne, Hesperia Crofth.
    Dichiaro di accettare il regolamento.
    -Sezione A.

  36. THE LAST SUPPER
    Si era ritirato in quella tenuta isolata, appena dentro al bosco verde smeraldo d’estate e irto ed appuntito di rami secchi d’inverno.
    Aveva dovuto prendersi una pausa da quel suo assurdo lavoro di alchimista, trasformatore di materie prime nobili e ricercate, in piatti fantasiosi. Faceva lo chef in un ristorante stellato, ma lo stress lo aveva abbandonato in balia della sua pignoleria eccessiva e di quel perfezionismo che l’avevano fatto ammalare.
    Un esaurimento, una crisi di nervi che si era manifestata d’un tratto, mentre preparava un secondo con lumache e crema di parmigiano. Si era avventato sul suo sous chef, brandendo un coltello, lo aveva ferito ad un polso per poi tentare di ucciderlo.
    Non aveva mai pensato di poter arrivare ad uccidere qualcuno, ma se non lo avessero fermato, lo avrebbe fatto certamente. La cosa più sconcertante fu capire che il gesto non era un colpo di matto del momento, ma che ucciderlo lo avrebbe fatto sentire bene, inebriato da quella sensazione paragonabile alla soddisfazione dei sensi che provava chi degustava i suoi piatti elaborati.
    Creare piatti fantasiosi, precisi, perfettamente impiattati e decorati, lo aveva portato a perdere la ragione, a mettere il suo lavoro su un piano più importante della vita degli altri o della propria.
    Ma in fin dei conti, la cucina non era sadica di per sé? Tagliuzzare, affettare, bruciare, scotennare, arrostire nelle fiamme purificatrici, infilzare, impalare…. Tutti gesti che lui conosceva bene. L’unica differenza era che tutte queste azioni le effettuava su qualcosa di morto, inerte, inanimato. Qualcosa a cui lui doveva creare un’anima, un significato. Questa ricerca di ridare vita a ciò che non l’aveva più, gli aveva fatto perdere la ragione, i punti di riferimento sociali, i propri stessi valori, per spingerlo in una dimensione diversa.
    Era la stagione in cui il bosco si vestiva del verde acceso come colorato dalle piogge abbondanti che si alternavano ad un sole che acquisiva altezza e calore sopra all’orizzonte. Il viale principale della villa, fino al cancello pesante e cupo in ferro battuto ma che rimandava ad un epoca austera, con il suo ghiaino grigio ed uniforme, staccava sul verde della selva. Se fosse stato un pittore avrebbe aggiunto del rosso carminio a quel paesaggio che vedeva dalla grande vetrata del soggiorno.
    Cosa si ricerca mentre si assaggia qualcosa di nuovo, di sconosciuto, qualcosa su cui non abbiamo le conoscenze adeguate per avere delle aspettative? Tutti avevano imparato a distinguere i suoi piatti, tutti ossequiosamente dicevano di amarli. Molte volte si era chiesto se ciò fosse a causa del prezzo. Chi spende qualche centinaio di euro per un risotto non può dire che non gli piace, non può dar a vedere una qualche delusione, già solo per avere la possibilità di poterselo permettere.
    Chi assaggia un piatto mai assaggiato prima deve essere sorpreso, deve appagare la voluttuosità, quel desiderio completo di profumi, sapori, morbosità, sesso.
    Così appartato, aveva iniziato a cambiare i paradigmi della sua scienza. Perché non pensare ad un avventore esso stesso piatto di portata o addirittura cibo?
    Aveva iniziato con i suoi vicini di casa, una coppia anziana, li aveva invitati a cena e dopo averli sedati con una dose massiccia di Fentanyl, dose che comunque li teneva svegli ed alternatamente coscienti. Aveva usato le loro stesse carni come piatto principale e le aveva servite una all’altro.
    L’uomo lo aveva cotto con scaglie di cioccolato fondente al settanta percento, dopo averlo insaporito con salsa alla diavola e il fondo di tartufo.
    Con la donna aveva fatto un filetto alla Wellington, avvolgendolo nel prosciutto crudo e poi nella pasta sfoglia. I due erano stati immobilizzati e gli era stato servito il piatto come pietanza contenente la parte dell’altro.
    Poi aveva continuato con una donna vegetariana che lo aiutava a tenere pulita la grande casa. Dar da mangiare se stessa ad una vegetariana, era stata una mossa ironica e cinica allo stesso tempo.
    In quella tenuta viveva rigorosamente da solo, continuava a studiare l’abbinamento dei gusti, a ricercare il profumo adatto, l’abbinamento con il vino più consono.
    Uccidere non era più un tabù, specie in quel modo, dove le persone prima di essere finite definitivamente con una potente dose di tetrodotossina, scoperta studiando il modo orientale per preparare il pesce palla. 25 mg avrebbero steso chiunque, lasciandoli coscienti, intaccando il sistema nervoso e paralizzandone pian piano tutti i muscoli, compresi quelli della respirazione.
    Morivano così, cianotici, con un ghigno sulla faccia, forse coscienti di morire mangiando se stessi.
    Non era matto, non vi era un’altra metafora più potente della vita stessa. Siamo piccole formichine che adempiono ai loro compiti, piccole ruote degli ingranaggi di una macchina molto più grande chiamata società, che decide cosa’è o cosa non è consono a se stessa, che decide guerre, meriti, gioie e dannazioni per le sue stesse rotelline, pene, umiliazioni e per i più fortunati l’Olimpo del riconoscimento. Aveva assaporato già tutto questo. Sparire in una sua dimensione intima, era la sua ricerca, facendola espiare alle rotelline dell’ingranaggio che lo aveva tritato e ridotto così. Per essere perfetti ingranaggi consumiamo noi stessi, incastrati in relazioni umane talmente invadenti da scartavetrare parte di noi per far spazio e girare meglio nel marchingegno.
    Scarlet l’aveva trovata al mercato, stava ordinando dei carciofi al banco della verdura. Era bella, godeva di quell’età in cui ad una donna si può perdonare tutto, anche la mancanza di acume e l’intelligenza.
    L’aveva vista da distante e con occhio clinico stava già scegliendo la verdura dal banco con cui l’avrebbe servita.
    Iniziò così l’avventura di una nuova mortale ricetta, scelse un mango maturo, poi del frutto della passione, un limone dalla scorza gialla e spessa da fare candito, i pomodori per il contorno da preparare con la skordalia di mandorla, il tartufo nero, la noce moscata e l’olio alle erbe.
    L’aveva abbordata parlandole della differenza tra le mamme romane e il carciofo di sant’Erasmo di Venezia, l’aveva sedotta con la sua parlantina e la sua passione nel descrivere la combinazione di elementi per una cena che solo pochi avrebbero potuto assaggiare, ed ancora meno cucinare.
    Scarlet pendeva dalle sue labbra, era bellissima incorniciata in dei capelli biondi lisci che con il loro volume la facevano brillare tra le vie bagnate del mercato. Lui vedeva in lei il piatto perfetto, la cena ideale per essere “unvergesslich” indimenticabile, come dicevano i tedeschi. Negli occhi di Scarlet si notava una forte luce intelligente ed allo stesso tempo la placidità bovina della vittima. In lui il desiderio voluttuoso del sesso era stato sostituito dal piacere per la ricercatezza della cucina perfetta, dove il piatto è costituito da materia viva e dove chi lo assaggia mangia un po’ di se stesso.
    Quella sera era arrivata alla tenuta, fasciata di un vestito rosa, increspato sui fianchi con un’unica bretellina che si legava allo scapolare sinistro e che lasciava le gambe toniche ed abbronzate di Scarlet quasi completamente alla sua vista. Le aveva servito un ottimo Don Perignon con una dose di Fentanyl per rilassarla e renderla inoffensiva. L’aveva adagiata sul divano che teneva in cucina per farle vedere tutta la preparazione studiata e voluta solo per lei.
    La cucina con le sue luci intense che delimitavano esclusivamente i piani di lavoro in acciaio, pulitissimi, era intarsiata di radiche preziose, in ordine c’era la linea di materie prime che avrebbero fatto parte degli ingredienti di quella cena, tutti gli ingredienti che avrebbero accompagnato Scarlet lentamente alla morte.
    La linea dei coltelli, fatti affilare da un artigiano giapponese tutte le settimane e capaci di sezionare carpacci finissimi quasi trasparenti. Tre taglieri di ulivo, intagliati, erano stati messi proprio di fronte a Scarlet, che stesa sul divano sbavava dall’angolo della bocca, quasi costretta ad osservare la preparazione di se stessa.
    Dagli angoli bui della cucina apparve lui, vestito da schef, in una divisa di raso di cotone nera, bordata di bianco, con gli alamari dei bottoni sul petto ricamati a mano. Aveva scelto il nero perché comunque lui rappresentava la parte creativa ma anche l’undertaker, il becchino, che avrebbe accompagnato Scarlet nei suoi ultimi istanti.
    Lo aveva anteceduto solamente la primavera di Vivaldi che scorreva dall’impianto di filodiffusione. Scarlet quasi non batteva ciglio, immobile fissava la
    Luce bianca asettica illuminare i taglieri di ulivo e lo
    Chef. Forse aveva fatto in tempo a capire cosa stesse succedendo, ma nessuno avrebbe potuto dirlo con precisione.
    Lui iniziò affettando con cura, lentamente, come
    Per prolungare l’agonia della ragazza, concentrato com’era la osservava solo ogni tanto, come si osserva un ingrediente.
    La musica sembrava perfetta, per la stagione, per la freschezza del piatto e per il momento, che, per come la vedeva lui, era più gioioso che triste.
    Preparò la salsa di mango, il tartufo, la
    Skordalia di mandorle, pronto a creare l’entrèe, il contorno, il dolce per poi passare ad usare la stessa assaggiatrice come piatto principale.
    Le si avvicinò piano, le sfilò il vestito rosa pesca, le accarezzò i capelli biondi e lisci, la guardò negli occhi sbavare sul bracciolo, le sfilò l’intimo elegante e la osservò cercando di capire come impiattare la sua ospite, come renderla perfetta per la cena.
    Le sue nudità avvolte dal cuoio del divano, con l’abito e la borsetta infilati come spinte e contrappoggi per tenerla dritta e farle osservare la sua arte, ne davano una scena rassegnata, la vittima che va al macello.
    Lui prese il coltello per disossare, le si avvicinò, era divertente pensare che la lama per disossare così fina è corta avrebbe allungato la vita di Scarlet il tanto che bastava per mangiare se stessa. La ragazza iniziava ad avere dei movimenti volontari, leggeri ed ancora intorpiditi dal Fentanyl. Era il momento esatto in cui le avrebbe asportato il polpaccio destro, recidendone prima il tendine di Achille per poi salire e separarlo dal muscolo plantare lungo, dal tibiale posteriore e dai flessori delle dita e dell’alluce, fino al muscolo popliteo. Le avrebbe pulito i setti muscolari con cura, fermando l’emorragia delle vene profonde e separando il tessuto connettivo che riveste le strutture anatomiche e che risulta fibroso al palato.
    Le accarezzo la pelle dolcemente studiando quale fosse l’incisione iniziale più conveniente e, proprio quando aveva alzato il coltello per iniziare il lavoro, Scarlet in un movimento rapido e neanche poco accurato gli infilò un punteruolo nell’orbita oculare, con forza, fino al manico. Lo portava sempre con sé in borsa per difendere la sua bellezza.
    Nei pochi istanti che gli rimanevano mise a fuoco la musica classica che lo circondava e vide Scarlet piegarsi ancora sbavando su di lui ed azzannarlo ad una guancia, ritraendosi sporca di sangue come un animale predatore che affonda le zanne nel pasto tanto agognato. Vide Scarlet masticare con calma e con il preciso istinto di difendersi da lui. Pensò con ironia al fatto che il Fentanyl fosse chiamato anche la droga degli zombi, il sangue caldo scorreva
    Copiosamente sul suo corpo ed in quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per la tetrodotossina, per finirla il prima possibile, per sgonfiarsi come fa il pesce palla e fuggire la vita.

    PS.: se foste curiosi potrei darvi la ricetta per la salsa al mango… ma non tutti gli ingredienti sono sicuramente morti…

    Sezione B, accetto il regolamento

  37. Mi chiamo Aisha.

    Mi chiamo Aisha nel 1948 ero una bambina araba di 8 anni, li vidi arrivare, un bel regalo fattoci dagli inglesi, loro, i sionisti, arrivarono e per noi 700.000 iniziò la Nakbà. Non ebbi più una casa ma divenni pellegrina da un campo all’altro.
    Ma in me viveva la speranza

    Mi chiamo Aisha, sono araba, vivo a Gaza, con la morte che costantemente mi gira attorno, nel 1967 ero una giovane donna di 27 anni, già vedova, con due bambine, e loro, i sionisti, erano sempre lì, sempre più numerosi, ladri della nostra terra, della nostra acqua, delle nostre vite.
    Ma in me viveva ancora la speranza

    Mi chiamo Aisha, sono e resterò per sempre araba, vivo a Jabalya, con la morte che costantemente mi gira attorno, nel 1987, ero una donna adulta di 47, già vedova, nonna, madre di una figlia già vedova anche lei, volli fare qualcosa, perché la speranza era ancora viva in me. E fu Intifada, rivolta. Loro ci sparavano e noi rispondemmo disobbedendo, con lanci di pietre e barricate.
    Ma in me viveva ancora la speranza

    Mi chiamo Aisha, sono e resterò per sempre araba, nel 2000, ero un’anziana di 60 anni, tornata a Gaza partecipavo con tutte le donne e le bambine della mia famiglia, monca di uomini, alla seconda Intifada, nulla ci faceva più paura, cosa avevamo da perdere? Nulla! Ci restava solo da difendere la nostra identità araba.
    Ma in me viveva ancora la speranza

    Mi chiamo Aisha, sono e resterò per sempre araba, nel 2014, ero una vecchia di 74 anni, per 14 anni ho resistito con la mia famiglia a tutto il peggio che i sionisti ci potevano e volevano fare: ci siamo nutrite della loro violenza quotidiana. Gaza conserva solo il mare, il resto non c’è più. E noi come fantasmi ci aggiravamo in cerca ancora della nostra identità e dignità.
    Ma in me viveva ancora la speranza

    Mi chiamo Aisha, sono e resterò per sempre araba, nel 2024, a 84 anni sono morta, a Gaza sotto il crollo di un vecchio edificio dove ci siamo rifugiate, vecchie, adulte, giovani e bambine. Donne sole, ricche di identità e dignità.
    Ma anche da morta in me vive la speranza.

    Sezione B, accetto il regolamento

  38. Partecipo alla sezione A, accettando il regolamento.

    IMMOBILE VEDETTA
    Lo sguardo disteso all’infinito
    s’allunga
    sul serpeggiar della valle.
    Resta sospeso
    dal balcone panoramico,
    immobile vedetta.
    Plana a volte
    dolcemente
    con ala silenziosa
    fino ai tetti delle case.
    Mirabile panorama del mattino
    nel mio vagar distratto.

  39. Sez. A
    Poi, allungo il giro di un pensiero
    tra le stagioni mai mature.
    Ho vestito primavere,
    spogliato autunni,
    e pettinato ciocche, bionde di grano.
    Ho tolto da vecchie asole, bottoni d’inverno,
    le dita gelide e dolenti
    sotto i guanti di pelle stanca.
    E di questo faggio che ripeto a memoria,
    mi faccio ramo e foglia…
    e di vita, cerchio,
    dilungandomi.
    *
    Accetto il regolamento
    Maria Teresa Dotti

  40. “Poesia rapper”

    Nessuno può negare
    che il Bianco sia attraente
    E il bianco di Gesù
    è il più stupefacente.

    Se furon benedette
    le genti e le nazioni,
    per l’ “eccomi” di Abramo,
    le sue giuste intenzioni,

    suggellerà del Padre
    – il Figlio Benedetto –
    la decisione eterna
    di aprirci la sua Casa.

    Lui che morì davvero:
    non risparmiò il suo sangue,
    ma poi risorse intero
    – agnello senza macchia –

    Quel giorno che rifulse
    sul monte con gli amici,
    è vero ancora oggi,
    è vero alle radici…

    L’ho visto stamattina
    quel bianco del Cimone;
    e poi la liturgia
    spiegò la mia emozione.

    E’ una fatica nera
    accogliere la croce,
    ma oggi celebriamo
    la Trasfigurazione!

    sez A. – accetto il regolamento
    MIRIAM BRUNI

  41. Sezione A Accetto il regolamento

    AMAI

    Amai il diamante
    Mai mi spaventò la durezza.
    Del suo fulgore riempii pupille
    Compresi la necessità del taglio per divenire gemma

    Anestetizzai il dolore mentre cadevano rubini.
    Dal viaggio sulla transiberiana acquistai
    la potenza e la scioltezza.

    Amai l’airone
    Mai mi spaventò l’altezza.
    Della sua eleganza riempii il corpo.

    Compresi la necessità della leggerezza.
    Buttai fardelli d’ angoscia.
    Guadagnai il volo.

    SERENELLA menichetti

  42. UNA SCARPA RACCONTA
    Ero con te, quando vi siete conosciuti.
    L’erba era così verde e tenera che mi sembrava di volare.
    Sono rimasta affascinata da quegli occhi nocciola dolcissimi.
    -Questa è la volta buona. Mi son detta-
    Perché diciamocelo, tu sei sempre stata una ragazza schizzinosa.
    Giustamente,volevi scegliere bene.
    Tempo due mesi, vi siete messi insieme.
    In seguito, te lo sei pure sposato.
    Un amore meraviglioso.
    Per stargli più vicina hai lasciato le amiche.
    Ed il tuo sport preferito.
    Volevi goderti solo lui.
    Ti sei resa conto che le amiche ti mancavano, e pure l’atletica.
    Hai comprato una tuta color fucsia, un paio di scarpe sportive,
    (delle quali ti giuro, mai sono stata gelosa)
    hai spazzolato i capelli e sei uscita.
    Al rientro invece di braccia amorevoli
    Hai trovato, occhi rabbiosi e braccia pronte a menare.
    Il tuo uomo, in un attimo ti è apparso uno sconosciuto.
    Anche io, dalla postazione scarpiera, ne sono rimasta stupita.
    Da allora, sono volati, quotidianamente schiaffi e parolacce.
    C’era sempre qualcosa che lo induceva a comportarsi così.
    Poteva essere la pasta troppo scotta,
    la carne eccessivamente salata.
    La camicia stirata male.
    Tremavamo insieme.
    Tu dalla testa ai piedi. Io dai tacchi alle punte.
    Adesso
    Devo dirti che mi sento terribilmente sola.
    Eppure sono circondata da molte, troppe sorelle.
    Una discarica di scarpette rosse.
    Involucri/Vuoti a perdere/Rifiuti.
    SOLO RIFIUTI DI DONNA!
    SERENELLA MENICHETTI

    SEZIONE B Accetto il regolamento

  43. Occhi di bambola

    Guardi con occhi di bambola
    ancora pronunci nome,

    prendi la mano
    per un saluto
    cerchi ancora contatto

    È incerto il tuo passo
    in un tempo scaduto
    che avanza lesto

    vacilla la mente
    nella nebbia che incombe

    in che mondo sono
    emozioni e ricordi ?
    Occhi di bambola
    ora fissano il vuoto
    Eppure sorridi
    nel tuo mondo incantato
    Chissà se pensi
    A quello che eri

    Chi sei?
    Chi sono?

    D’amarezza è pregna l’ anima

    Siamo niente
    In questo universo

    Partecipo sez. A
    Accetto il regolamento

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