Kaidan: le storie da brivido giapponesi, Godzilla ed altri mostri

Sono trascorsi settant’anni da quando il primo Bakemono appare su grande schermo nelle vesti di Gojira (Godzilla, per noi occidentali). Siamo a Nagoya, il 27 ottobre 1954, e la première del regista Honda Ishiro è destinata a diventare un momento cardine sia del cinema sia della tradizione popolare nipponica. E di quella tradizione, il Bakemono è una delle figure più terrifiche, legata a tutto quanto è crepuscolare e orrorifico.

Kaidan storie giapponesi Godzilla
Kaidan storie giapponesi Godzilla

Si chiamano kaidan, racconti orali (dan) dal carattere misterioso (kai). Sono le storie del brivido giapponesi, tradizione remota ma sempre attuale nel “Paese degli otto milioni di Kami” (le divinità che circondano ogni cosa e aspetto della vita quotidiana), dove raccontare storie paurose è sempre stato uno dei passatempi preferiti delle famiglie nipponiche, soprattutto durante le lunghe e afose serate estive, quando ciascuno portava con sé una candela e, a ogni storia narrata, una candela veniva spenta. Le tenebre scendevano inesorabili, fino a che la narrazione dell’ultima storia si svolgeva nel buio più totale.

Presenze partecipi che, al pari degli esseri umani e degli animali, popolano la terra con la loro potenza ed energia spirituale, nelle kaidan i Kami sono i protagonisti di innumerevoli leggende nelle quali appaiono sia in veste benefica sia come entità malefiche, distinguibili, in quest’ultimo caso, in quattro generi di riferimento, a cui seguono infiniti sottogeneri. Cominciando dagli Yokai (come i Kappa e i Tengu), mostri dalle svariatissime specie con i quali si è costretti a convivere, spesso solo semplici burloni, ma a volte anche scomodi e dispettosi vicini. Ispiratori di innumerevoli fumetti e giocattoli, gli Yokai sono i padri putativi dei pokemon, gli iconici mostriciattoli dall’aspetto bizzarro.

Le kaidan continuano con i Bakemono (come i Kitsune e i Tanuke), esseri che hanno mutato il loro stato di natura, diventando i soggetti privilegiati di numerose trasposizioni cinematografiche (Gojira, è il Bakemono più famoso). E poi nelle kaidan troviamo gli Oni, forse i più popolari nel pantheon nipponico e i più simili al concetto occidentale di demone, alti tre metri, fortissimi e spesso raffigurati con un solo occhio: sono i servi di Enma, il Signore degli Inferi.

Infine gli Yurei, presenze che, non riuscendo a proseguire il cammino nel ciclo di reincarnazione a causa di legami terreni ancora irrisolti, si aggirano per la terra cercando un contatto con i vivi.

Siamo in Giappone, dove i Kami aleggiano nella vita quotidiana di un Paese permeato da un polifonico sentimento religioso, dove la genesi animistica e l’incontro del pantheon shintoista con il buddismo nei secoli VI e VII d.C, si fondono con le antiche leggende autoctone di carattere magico-sciamanico, raccontate nei testi più antichi, come il “Kojiki”.

In questo immaginario iconologico e iconografico avvolto da un senso di profonda suggestione, si innesta la moderna epopea cinematografica del “Kaiju Eiga” (letteralmente Strane bestie). Nato nel dopoguerra all’indomani dell’olocausto nucleare di Hiroshima e Nagasaki, il “Kaiju Eiga” evoca su grande schermo le angosce conseguenti allo shock atomico, proiettando su oscure potenze distruttrici dall’aspetto mostruoso la sindrome d’assedio degli abitanti dell’Arcipelago, un Paese che, dopo la sconfitta bellica, è ancora fatalmente segnato sul piano psicologico dalle cicatrici dei bombardamenti atomici del 1945 e dall’occupazione delle forze armate americane conclusasi solo nel 1952.

Un allievo del famoso regista Akira Kurosawa (artefice della trasposizione cinematografica di Rashomon ‒ la celebre opera di Akutagawa Ryunosuke, scrittore e poeta dall’animo tormentato morto suicida a 35 anni ‒ oltre che di capolavori come “Schichinin no Samurai”, ovvero “I sette samurai” e, insieme a Yasujiro Ozu, uno dei massimi esponenti della cinematografia nipponica), Ishirō Honda, è il principale autore dei film nipponici dell’orrore. Honda libera le ossessioni degli “hibakusha” ‒ i sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasakipresentando al pubblico “Gojira” (capostipite del genere “Kaiju Eiga”, e che in occidente impariamo a conoscere col nome di Godzilla), ideato dal genio visionario di un suo collaboratore, Eiji Tsuburaya, impareggiabile creatore di effetti speciali (senza dimenticare la maestria del compositore Ifukube Akira, autore della leggendaria soundtrack).

Il 27 ottobre 1954, in occasione della prima uscita del film (costato la sbalorditiva cifra di sessanta milioni di Yen), è grande lo stupore suscitato nel pubblico dal furore distruttivo e dalla potenza del raggio atomico soffiato da quell’enorme tirannosauro.

Il 1954, oltretutto, fu un anno in cui una volta di più l’ombra dell’annientamento atomico si estese sul Giappone a causa delle conseguenze inaspettate di un test americano noto come “Castle Bravo”, condotto all’inizio dell’anno nell’atollo di Bikini. Qualcosa infatti andò storto, provocando un fallout radioattivo molto più potente del previsto che raggiunse una barca da pesca giapponese (la Daigo Fukuryū Maru), causando malattie e morte tra l’equipaggio e riaccendendo la paura collettiva dell’esposizione alle radiazioni.

L’incidente, che ebbe un profondo impatto sulle coscienze dei giapponesi, servì senz’altro da ispirazione diretta per Godzilla: una creatura riportata in vita dall’interferenza dell’umanità con la natura, nato dalle radiazioni nucleari, metafora trasparente di quelle ansie e di quel terrore. Nel film, le autorità giapponesi scoprono che non sono state né le ipotetiche mine sottomarine piazzate da governi nemici né eruzioni vulcaniche sotterranee a far esplodere e affondare numerose navi pescherecce al largo delle coste, bensì un misterioso rettile alto cinquanta metri risvegliatosi nei pressi dell’isola di Odo e identificato da una spedizione composta dal paleontologo Yamane Kyohei (Shimura Takashi), da sua figlia Emiko (Kochi Momoko) e dal giovane ufficiale Ogata (Takarada Akira).

Misteriosamente sopravvissuto all’èra giurassica nelle profondità dell’oceano (con la tecnica suitmation, un attore indossa una pesante tuta di gomma imbottita rinforzata da una tela metallica e, con la testa mossa da un meccanismo telecomandato, abbatte modellini di palazzi in scala 1/25), Godzilla è rivestito di una corazza ruvida modellata sulle cicatrici cheloidi osservate sui sopravvissuti ai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, ed è in grado di emettere un “respiro” radioattivo capace di incenerire edifici e ostacoli, chiaro simbolo della forza distruttiva delle armi atomiche. Risvegliato dalle radiazioni atomiche e geneticamente modificato in un mostro colossale, l’indispettito Goijra emerge dagli abissi marini e decide di fare quattro passi per le vie di Tokio. È un po’ maldestro, d’accordo, combina qualche guaio, certo, ma non biasimatelo: con quel corpaccione, vorrei vedere voi al suo posto… Cannoni, carri armati, aerei da combattimento… nulla pare in grado di arrestare la sua avanzata, anzi, tutti quei fastidiosi inconvenienti non fanno altro che aumentarne l’irritazione. Per farla breve, alla fine, solo un dispositivo disintegratore (la potente bomba Oxygen Destroyer), sembra riuscire a fermarlo… Non per sempre, però, come dimostreranno i successivi remake e reboot.

Dirigendo una delle più riuscite pellicole di denuncia antinucleare dei suoi tempi (come dichiarò lo stesso Honda in un’intervista, parlando del lavoro fatto sulla sceneggiatura con Takeo Murata: “L’intenzione, non solo dello sceneggiatore, ma anche dell’intero staff produttivo, era di focalizzarsi su come la gente reagirebbe se un Godzilla apparisse davvero. Cosa farebbero i politici? Cosa gli scienziati? Come gestirebbero la situazione i militari? Dati questi presupposti, era inevitabile che il film sarebbe sembrato quasi come un documentario“), Honda inaugura il genere horror-fantasy, uno dei filoni maggiormente sfruttati dalla cinematografia nipponica. Tuttavia, pensare che la storia dell’origine del kaiju esaurisca il suo valore simbolico è riduttivo. Godzilla è anche una minaccia sotterranea, che ha da sempre accompagnato l’umanità, che è emersa portando con sé il terrore e la distruzione.

Nel 1957, con “The Mysterians”, sempre diretto da Ishirō Honda, facciamo la conoscenza di Moguera, un kaiju simile a una talpa inviato da un popolo alieno con l’intento di colonizzare il nostro pianeta, e che in seguito diventerà uno dei più agguerriti avversari di Godzilla (Godzilla vs Space Godzilla, 1994), e, da quel momento, non si contano le pellicole Kaiju. Da Angurius a Rodan, da Gorath a Dogora, è un proliferare di creature distruttrici, spesso in lotta fra di loro, oppure coalizzate, come in “Gli Eredi di King Kong”, girato ancora da Honda nel 1968, film nel quale, dopo essere stati catturati e confinati su un’isola, i nostri simpatici mostri fuggono decidendo di visitare alcune delle più rinomate capitali del pianeta, così, giusto per seminare un po’ il panico. E allora chi si reca a New York, chi a Pechino, chi a Londra, chi a Parigi… insomma, che ci pensassero bene prima di esiliarli un’altra volta…

Di contaminazione radioattiva tratta anche un’altra pellicola di Honda, “Matango”, film del 1963 liberamente tratto dal racconto “La voce della notte”, del maestro del brivido William Hope Hodgson (scrittore inglese che ispirò, fra gli altri, H.P. Lovecraft, e che fu l’ideatore del personaggio di Carmacki, un laconico indagatore dell’occulto che, affiancando la polizia, si aggira per case infestate riuscendo sempre a risolvere casi intricati).

È trascorso ormai un decennio dalla comparsa di “Gojira”, e il contesto sociale del Giappone è sensibilmente cambiato. Siamo in pieno boom economico, e il capitalismo di matrice occidentale è protagonista sulla scena economico-politica del paese del Sol Levante. E anche Ishirō Honda ne prende atto. A differenza del fanta-tirannosauro proveniente dagli abissi della cattiva coscienza occidentale, in Matango l’orrore è già metabolizzato, presentandosi sotto forma di metastasi del sistema. I funghi ingeriti dai sette componenti dell’equipaggio di una barca naufragata in una misteriosa isola che, nell’ultimo scorcio del film, trasformano gli stessi protagonisti in mostri, simboleggiano una società già mutata essa stessa in mostro. E lo sguardo di Honda, pervaso da un irredimibile pessimismo, non lascia spazio ad alcun finale consolatorio.

In quegli stessi anni, un bambino cresce affascinato dalle kaidan di Yokai e Bakemono che gli vengono raccontate in famiglia e, appena può, corre al cinema per ammirare, rapito, i film di Ishirō Honda. A quel bambino piace disegnare e, prova e riprova, disegno dopo disegno migliora e affina il suo stile. Seguendo le orme del suo idolo, Osamu Tezuka, (a quei tempi il più famoso disegnatore insieme a Akira Toriyama, il creatore di Majin Bu) l’ormai ex bambino riesce a diventare un mangaka, e non uno qualunque, ma il migliore autore nipponico di manga, legittimo erede dei due pionieri dell’animazione nipponica, i vignettisti Oten Shimokawa e Jun’ichi Kouchi che, all’inizio del Novecento, crearono le prime rudimentali tecniche d’animazione. Il suo nome è Go Nagai.

Nel 1972, diciotto anni dopo Gojira, un altro mostro esce dall’acqua. È un Majin, un grande robot pilotato da un essere umano. Si chiama Mazinga Z, e a disegnarlo è stato proprio Go Nagai. Mazinga inaugura un’ulteriore epopea: quella dei Mecha, i super robot alti venti metri, armati di raggi fotonici, pugni rotanti e ali affilate, epigoni di Gakutensoku, una sorta di gigantesco robot in metallo ideato e costruito nel 1928 dallo scienziato Makoto Nishimura, plastica rappresentazione di un’altra ossessione nipponica: liberare l’essere umano dalla fatica.

Dopo Mazinga sarà la volta di Gurendaiza, ovvero Goldrake. In seguito arriveranno Jeeg Robot, Daitarn 3 e, insieme a loro, tanti altri robottoni protagonisti degli animēshon, i film e le serie di animazione che accompagneranno generazioni di bambini.

Ma torniamo al festeggiato, Godzilla.

A distanza di settant’anni, un po’ mostro un po’ eroe, il nostro non ha mai smesso le vesti di icona pop. Lo immaginiamo celato nelle profondità marine, pronto a riaffiorare durante il crepuscolo, dove tutto appare indistinto e la vista viene facilmente ingannata. Così, giusto per fare due passi e capire se gli umani sono cambiati. O se occorre ancora soffiare uno dei suoi mitici raggi atomici per indurci a preservare il già fragile equilibrio tra umanità e natura.

 

Written by Maurizio Fierro

 

Bibliografia

Marta Berzieri, La paura in Giappone, Caravaggio editore

 

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