Contest letterario di poesia e racconto breve “Versi e Racconti di Lombardia”

“La poesia e la prosa trascinano la mente in un mondo che esula da qualunque faccenda della banale quotidianità, chi scrive cammina sollevato da terra, il suo sentire è piena percezione di qualcosa di superiore e nobile, i pensieri costituiscono momenti di completa pienezza e la conclusione di un racconto, di una poesia, dona serenità e soddisfazione completa a ciò che si può ben definire felicità e totale appagamento!” ‒ dalla prefazione di Teresa Stringa

Contest Versi e Racconti di Lombardia
Contest Versi e Racconti di Lombardia

Regolamento Contest Versi e Racconti di Lombardia

1.Il Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “Versi e Racconti di Lombardia” è promosso da Oubliette Magazine, dagli autori e dalle autrici dell’antologia e dalla casa editrice Tomarchio Editore. La partecipazione al contest letterario è riservata ai maggiori di 16 anni.

La partecipazione al Contest è gratuita.

Tema libero.

 

2. Articolato in due sezioni:

A. Poesia (limite 100 versi)

B. Racconto breve (limite 1000 parole)

 

3. Per la sezione A si partecipa inserendo la propria poesia sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con poesie edite ed inedite.

Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.

Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.

 

Per la sezione B si partecipa inserendo il proprio racconto sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con racconti editi ed inediti.

Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.

Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.

 

Ogni concorrente può partecipare ad entrambe le sezioni con una sola opera.

 

4. Premio:

N° 1 copia del libro “Versi e Racconti di Lombardia” con le raccolte di Francesca Santucci, Gian Carlo Storti, Giuseppe Terranova, Marcello Sgarbi, Marco Leonardi, Maurizio Fierro, Miriam Ballerini, Oswaldo Codiga, Paolo Chioda, Roberta Sgrò e Teresa Stringa, edito nel 2024 dalla casa editrice Tomarchio Editore. In copertina “Villa storica del cremasco” dipinto di Ugo Stringa; in quarta un’illustrazione di Simona Trunzo.

Saranno premiati i primi due classificati per entrambe le sezioni.

 

5. La scadenza per l’invio delle opere, come commento sotto questo stesso bando, è fissata per il 7 gennaio 2025 a mezzanotte.

 

6. Il giudizio della giuria è insindacabile ed inappellabile. La giuria è composta da:

Alessia Mocci (Editor in chief)

Franco Carta (Poeta e scrittore)

Carolina Colombi (Scrittrice e collaboratrice Oubliette)

Simona Trunzo (Autrice illustratrice e collaboratrice Oubliette)

Teresa Stringa (Poetessa e scrittrice)

Miriam Ballerini (Scrittrice e collaboratrice Oubliette)

Rosario Tomarchio (Poeta ed editore)

 

7. Il contest non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy.

 

8. Si esortano i concorrenti per un invio sollecito senza attendere gli ultimi giorni utili, onde facilitare le operazioni di coordinamento. La collaborazione in tal senso sarà sentitamente apprezzata.

 

9. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione per e-mail: oubliettemagazine@hotmail.it indicando nell’oggetto “Info Contest” (NON si partecipa via e-mail ma direttamente sotto il bando), in alternativa all’email si può comunicare attraverso la pagina di Facebook.

 

10. È possibile seguire l’andamento del Contest ricevendo via e-mail tutte le notifiche con le nuove partecipanti al Contest Letterario; troverete nella sezione dei commenti la possibilità di farlo facilmente mettendo la spunta in “Avvertimi via e-mail in caso di risposte al mio commento”.

 

11. La partecipazione al Contest implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016). Il mancato rispetto delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso.

 

Buona partecipazione!

31 pensieri su “Contest letterario di poesia e racconto breve “Versi e Racconti di Lombardia”

  1. IL GLICINE DA VINCI
    (L’anello del tronco)

    Dalla colonna sale
    il niello di velluto,
    ruotano libellule
    sopra il mento glauco
    del fossile binario,
    l’ornitio rinvolge a Ponente
    l’imbrunato nubilo.
    Mi sorprende la fiumara
    di glicini e l’aurora di violino
    sui Navigli,
    i cespi di springeri
    ordinati sui carretti,
    la cenerognola schiribilla
    in un volto di ametista.
    I giardinieri tagliano
    rami e ginestre,
    gambi di craspedia,
    i colletti di schizanthus
    e dal planisfero rampollano
    barchette di carta e girandole,
    si ridesta l’ombra stagna.
    S’appoggia, èlice giuntura,
    allo smasso di puntelli,
    finata si svergola
    la forma conica del lucernaio.

    Thea Matera

    SEZ. A
    Accetto il regolamento

  2. “Astolfo sulla luna”
    (Orlando Furioso di Ludovico Ariosto)

    O graziosa luna, è la sciocchezza
    e la ricerca affannosa e l’amore
    che portano a smarrire il senno sopra
    la crosta. Tutto quanto viene perso
    sulla terra, arriva sul tuo volto
    fulgente, o luna: beni materiali
    e morali: il tempo perso, lagrime,
    ozio, sogni, sospiri d’amor, senno…
    E come Astolfo, ho raggiunto i crateri
    per riprendere l’ampolla gassosa
    del senno che ho perduto: sono molte
    cose che affliggono l’umanità
    ed è facile sperdere saviezza.

    Alessio Romanini
    Sezione A
    Accetto il regolamento

  3. AFFERRA IL GIORNO

    Era l’8 gennaio 1985. Alessio aveva nove anni e da poco erano finite le feste di Natale ed era ricominciata la scuola dopo che la “Befana” si era portata via tutte le feste nel grande sacco di iuta che portava sulla curva schiena.
    La Tramontana soffiava gelida dietro le vette delle Apuane. Un freddo vento veemente gemeva e mugghiava dalle imposte. Gli alberi spogli dalle loro viridi foglie tremavano al passaggio della Tramontana, mentre i poveri augelli non riuscivano più a trovare cibo e riparo delle fronde.
    Il lago di Massaciuccoli, che costeggia il comune di Massarosa fino ad arrivare a Torre del Lago nel comune di Viareggio, dove il grande compositore Giacomo Puccini, trovò ispirazione per le sue più grandi composizioni liriche; in quell’anno, il respiro gelido ghiacciò interamente la sua diafana superficie. Era cosa ben rara che accadesse ciò, visto la temperatura mite e la vicinanza al mare; ma il 1985 le fauci del verno erano così spalancate che gettarono sulla “Versilia” un’ondata di gelo che non si era mai vista prima.
    Quando il mattino dell’otto gennaio, Alessio dischiuse le piccole palpebre per recarsi a scuola, un sussulto ghermì il suo cuoricino di meraviglia: “La neve!”
    I nonni e le prozie che vivevano con la sua famiglia erano tutti agitati e preoccupati per questa improvvisa gelata. I campi erano ricoperti di soffice neve, bianca come zucchero di vaniglia che ricordava il pandoro. Uno strato gelido ricopriva il marrone suolo. La candida neve aveva nascosto tutto quanto. Come un bianco manto aveva ricoperto ogni colore.
    1
    Era tutto così niveo! Non era possibile camminare con le auto per andare a scuola. Ben presto giunse notizia che le scuole a causa della straordinaria nevicata sarebbero rimaste chiuse per qualche giorno. I tubi dell’acqua congelati erano saltati. Le strade ghiacciate avevano causato incidenti. Un caos terribile!
    Ma Alessio, con suo fratello ed i cugini erano gli unici felici, come tutti i bambini della “Versilia”. Con guanti, sciarpa, e giubbetto imbottito; i fanciulli si ritrovarono nell’aia a fare a pallate di neve ed un bel pupazzo, con un arancione nasone fatto con una bellissima carota. Poi all’uomo di ghiaccio, come fosse un pagliaccio, viene aggiunto un cappello di lana con il pom-pom di colore blu rosso ed una sciarpa sul freddo collo dello stesso colore. Alessio con suo fratello e i cugini erano veramente felici!
    La sera il cielo piombo portò una nuova perturbazione. Alessio rimase a lungo ad appannare il vetro con il caldo fiato per guardare fuori dalla finestra quel bianco infiocchettare. Non aveva mai visto cadere la neve dal cielo. Gli sembrava di sognare… ma quel sogno era reale. Stava nevicando proprio in quel preciso momento che il suo cuore palpitava sopra il davanzale di marmo di casa sua. Sembrava una magia! I suoi genitori e gli anziani parenti erano preoccupati per il protrarsi della gelata; lui non capiva questa agitazione. Era così bella la neve! Avrebbe voluto che durasse per tutto l’inverno.
    La perturbazione durò fino al 15 gennaio. L’incessante Tramontana, portò i bianchi fiocchi anche sulle spiagge di Viareggio. La grigia sabbia sparì sotto uno strato di dieci centimetri di neve.
    2
    Non si era mai visto da quelle parti il mare nevoso. Che suggestione! Che spettacolo! Spirava il ventaccio tra gli scheletrici alberi, che si opponevano con forza a questa tempesta.
    Il seguente mattino, si destò in fretta il piccolo Alessio, perché voleva toccare ancora il soffice manto ghiacciato. La sensazione era meravigliosa. La neve così fredda e madida, ghiacciò le piccole mani causando secche rughe su l’ingenua pelle. Ma era bello sentire quella sensazione sconosciuta che prima di allora lui non aveva mai provato.
    Dopo il quindici gennaio la perturbazione mutò il suo volto. Un forte vento di Libeccio, che proveniva dal più mite mare, portò la pioggia che cancellò ogni traccia di quel candore.
    Ed oggi che Alessio ha i capelli del color della candida neve, e le rughe solcano la vetusta pelle; può narrare ai figli adulti quell’antico racconto. Metafora di vita che scorre muta come un rivo nel cuore, e dentro i suoi flutti porta ricordi e il dolore del ritorno. Parlare dei momenti felici e di ciò che non può più tornare; ma quanto si possa amare questo straordinario dono che è la vita, apprezzando ogni suo semplice momento. Conservando negli atri del cuore tutta la bellezza di ciò che rende i momenti gioiosi. E se la vita fugge, noi non dobbiamo lasciarla andare… Cogliamo quel momento fugace!(Carpe Diem!) “Affidati il meno possibile al domani!” (Cit.)

    Alessio Romanini
    Sezione B
    Accetto il regolamento

    3

    1. Anche a Legnano, nel gennaio 85,grande nevicata(io di anni ne avevo 30). Ma tu abiti ancora da quelle parti? Perché io e mia moglie abbiamo una casa a San Vincenzo (LI), mi piacerebbe venirti a trovare.

  4. LA GUERRA
    .
    Tra il sambuco e il serpente
    quegli scoscesi passi di colline
    soffocate allora di foglie gialle
    e croci improvvisate.
    .
    Nessun ricordo del tuo mare,
    una foto di lei sgualcita nella sacca,
    e un timido, giovane bacio sulla guancia.
    .
    Un sogno in rosso che dipinge le pietre,
    un attimo per averla negli occhi
    mentre il cuore è una lacrima
    e avevi solamente diciotto anni.

    Abner Rossi
    accetto il regolamento, sez- a

  5. UN GIRO IN MOTO

    “Te lo regalo se vieni a prenderlo”. Alcuni minuscoli spostamenti del mouse, fecero giungere Lisa, dal suo profilo alla pagina che la stuzzicava.
    Trovò offerte di ogni sorta.
    C’era addirittura gente, che regalava libri. Lei non l’avrebbe mai fatto.
    Privarsi di un libro, sarebbe stato come donare un pezzo di cuore.
    “Causa doppione, regalo nuovissimo volume: “La lama dei sogni di Robert Jordan” insieme ad un giro in moto.”
    Ecco! Questo tipo posso anche capirlo.”
    Il libro era di suo interesse, il giro in moto, meno.
    La sua mente razionale, pensò – Ok, vorrà dire che il prezzo del libro sarà il giro in moto.
    Fosse stata Marta, la sorella, avrebbe sicuramente pensato al contrario.
    Si mise in coda con un ok. Nel giro di mezz’ora fu contattata da “Damon. “Ti aspetto Venerdì 17 Giugno ore 17 a Piazza indipendenza. Mi troverai lungo il fiume seduto sulla panchina, dietro al monumento ai caduti”
    Certo, Lisa avrebbe avuto meno dubbi, se il profilo del tipo fosse stato corredato da nome, cognome e relative informazioni.
    Insomma, a pensarci bene, quello si poteva definire un incontro al buio.
    Alla data stabilita, munita di coraggio si recò all’appuntamento.
    L’uomo stava seduto con lo sguardo rivolto verso il fiume.
    In giro, non c’era nessun altro. Lisa lo raggiunse.
    Lui alzò la mano in segno di saluto.
    Lei, alla visione di quel volto, rimase di sasso. Forse era un sosia?
    – È uno scherzo? – Chiese.
    Quando, l’uomo si presentò, capì invece che era proprio lui, in carne ed ossa. Vabbè, per essere precisi molto più in ossa.
    Il suo regista preferito, anche se lui non ne era a conoscenza. Le confessò che il paese di Calcinaia era luogo adatto all’ambientazione del suo film noire: “UN GIRO IN MOTO.”
    Poi sentenziò: – Un ottimo film, per divenire tale, ha bisogno di sperimentazioni reali sul territorio, altrimenti rimane “na ciofeca!” –
    Per fortuna l’amico scrittore: Paolo Dati dopo aver letto la sceneggiatura, ha ben compreso, che questo luogo avrebbe fatto al caso mio. – Concluse DARIO ARGENTO alzandosi e prendendo sottobraccio Lisa per condurla davanti alla Kawasaki, che non attendeva altro che poter sfrecciare sulle strade della bella campagna Toscana.
    Accetto il regolamento, sez. b

  6. Il resto

    Tra le braccia,
    lui
    Lo osservo
    Lo chiamo
    Lo scuoto
    Eppure ha gli occhi aperti
    Nessuna risposta
    “Stai tranquillo la bua te la faccio curare io”
    Le mani piene di polvere
    sono bagnate
    Non è acqua
    Provo ancora a svegliarlo,
    nulla.
    Guardo intorno
    cerco aiuto
    Come il mio fratellino
    tante persone
    Nei visi si vedono
    solo gli occhi
    Il resto è polvere
    Il resto è sangue.

    Accetto regolamento sez A

  7. Pioggia di stelle – Sez. B – Accetto il regolamento

    Stavo per addormentarmi.
    C’era un’arpa fosforescente in fondo alla stanza.
    Me l’aveva regalata mio padre.
    Non era una vera e propria arpa
    ma solo un oggetto per l’arredamento.
    La guardai fisso per mezz’ora circa,
    catturato da qualcosa che veniva da molto lontano,
    da luoghi magici.
    Chiusi per un attimo gli occhi e li riaprii
    nel mezzo di un crocicchio.
    Un unico segnale indicava la strada alla mia destra.
    La percorsi.
    Terminava davanti a una fitta parete di alberi.
    Un bosco.
    Quando m’inoltrai all’interno del querceto,
    vidi arrivare Silvia che mi prese la mano.
    Indossava un vestito bianco con macchie nere,
    molto corto,
    il carnato delle gambe come le sfumature
    rosa del cielo all’alba.
    Ma era notte fonda.
    Il sentiero ci condusse fino ad un lago.
    Stupefatto notai un’arpa che somigliava molto
    a quella della mia stanza.
    Una donna stupenda con una folta chioma riccia
    vi suonava una musica celestiale.
    A tratti inquieta.
    Note che profondavano nei recessi della notte.
    Apogei che solo un’anima vera può sentire.
    Le dita del vento accarezzavano le foglie degli alberi,
    come fossero strumenti musicali anch’essi.
    Due melodie si incontravano.
    Contrappunti.
    Silvia non disse una parola,
    mi guardò e fece un sorriso meraviglioso
    che le schiarò il viso
    come una perla.
    Ci spogliammo ed entrammo nel lago.
    La musica sortiva leggere crespature sul pelo dell’acqua,
    come fosse un fiato, una carezza.
    Le nostre bocche si unirono.
    Silvia aveva il profumo dei fiori più rari.
    Improvvisamente avvertimmo un suono d’acqua,
    una sorta di “plop”,
    e attraverso l’acqua scura del lago
    vedemmo qualcosa di luminoso scendere
    fino a toccare il fondo.
    Subito dopo cadde un altro
    di quegli strani oggetti luminosi.
    Il vento accarezzò per un attimo i capelli di Silvia,
    che sembrava sgomenta.
    La sfiorò come volesse far scaturire musica
    anche da quella creatura
    della quale mi ero innamorato.
    Caddero ancora altri oggetti luminosi.
    Impiegammo un po’ di tempo a capire cosa fossero.
    Alzammo gli occhi al cielo
    e una pioggia di stelle discese su di noi.
    Erano stelle piccolissime,
    quanto il palmo di una mano.
    Sorridemmo.
    “Questo non mi era mai capitato” disse Silvia
    guardandosi intorno.
    “Figuriamoci a me” risposi.
    “Prendiamone una in mano!”.
    Dopo aver pronunciato queste parole,
    Silvia mi guardò come una bambina
    in attesa di una risposta che non arrivò.
    Così, quando una di quelle minuscole stelle
    cadde vicino a lei,
    la prese gentilmente in mano.
    Una lacrima le scese sul volto.
    “Non credevo si potesse piangere per amore.
    Sapevo che si può piangere di tristezza
    e di gioia,
    ma non per amore,
    e non intendo dire per gli effetti dell’amore,
    ma solo per amore. Nient’altro”.
    Quando mise la stella sulla mia mano,
    un bisbiglio soave s’incise nel mio cuore.
    Un intarsio d’amore.
    Anche sul mio volto scese una lacrima.
    Un’unica lacrima.
    Sulla quale avrebbe potuto specchiarsi Dio.
    Quella piccola stella mi amava.
    Non saprei dire in che modo,
    eppure lo sentivo chiaramente,
    così chiaramente che in quel momento
    non c’era nient’altro.
    Il mondo era scomparso.
    Qualcosa di ineffabile prese forma nella mia anima.
    Un origami. Una luminaria eterna.
    Un fiore di luce.
    Un istante che convertì per sempre,
    i miei abissi.

  8. LEI

    Sta lì, immobile.
    Non vicino alla circonferenza.
    Proprio nel centro.
    Si guarda intorno, senza vedere.
    Canticchia tra sé e sé il ritornello di una canzone
    d’epoca indefinita.
    Nessun movimento.
    Solo le pupille ogni tanto si muovono.
    Il signore con il cane le gira attorno senza accorgersi
    della sua presenza.
    La signora con la veletta e le guance incipriate a passi lenti la saluta.
    Emilie con la sua borsa colma di frutta fresca,
    acquistata al piccolo chiosco di Mary, le sorride.
    Carolina si ferma a guardare i conigli nani.
    L’orologio del campanile segna le dodici e quaranta.
    Niente zucchero filato dice Patty a Jennyfer.
    Vociare di bambine con la collana di nocciole al collo.
    Elsa legge un messaggio sul cellulare e accende lo sguardo.
    Il campanile non ha più orologio.
    Al posto del chiosco di Mary,
    una curiosa installazione tridimensionale.
    No, non per lei.
    Sempre lì immobile,
    Con le mani nelle tasche.
    Tiene fermo il suo tempo.
    e ogni tanto ci gioca a dadi.

    Sezione A accetto il regolamento

  9. QUEL GIORNO, A SICHEM

    “Se vendevamo pesce, farina e miele, invece di stoffe, oggi ci andava meglio…”
    “E’ vero, Eli”, concordo.
    Erano arrivati degli uomini, circa un’ora prima. Dei giudei. Stavano facendo provviste, per loro e per il Rabbi che li guidava.
    Eli, mio fratello, si china a riporre una stoffa prima di riprendere a parlare.
    “Hanno lasciato il Rabbi al pozzo, era stanco, poverino…”
    “Dovresti avere più rispetto”, lo interrompo stizzito.
    Lui non fa una piega, afferra un dattero e comincia a succhiarlo, poi ne sputa l’osso sottile e ricomincia a parlare.
    “Oggi, al pozzo, ci andava la tua Ruth. Mi immagino la scena: lei, splendida quarantenne, che alza la veste mentre sale il gradino di pietra antica, gli lancia uno sguardo di ossidiana, poi china pudicamente il capo mentre scopre le braccia candide e afferra la corda e su e giù e su e giù con quelle mani curate, finchè il secchio colmo appare e lei lo prende, si avvicina allo straniero, lo sfiora, gli sussurra: hai viaggiato a lungo, se vuoi posso dissetarti…”
    “Dovresti avere più rispetto”, gli ripeto mentre il viso mi si imporpora.
    Lui non fa una piega.
    “Oppure, oppure” – sghignazza – “Il tuo Rabbi sarà stato così stanco e assetato…o così idiota… da non capire cosa è, la donna che ha di fronte e gli chiederà lui stesso da bere. Allora lei si avvicinerà all’uomo e gli chiederà con voce che incatena: “Perché tu, un Giudeo, chiedi da bere a me, una donna samaritana?” e rimarrà lì, labbra socchiuse dall’ultima a, ad un niente dalle sue…” Non ce la faccio più. Mi avvento su di lui, lo scaravento a terra.
    “Smettila! Tu non sai di chi parli! Non è solo un Rabbi, quell’uomo. Dicono che sia un profeta, un potente profeta! Raccontano che poco più di un anno fa, a una festa di nozze, abbia addirittura mutato dell’acqua in vino!”
    Lui spazzola la polvere dalla veste,
    mi guarda e di nuovo sghignazza.
    “Oh, che prodigio prodigioso! Se è tanto potente, che trasformi le pietre in pani…anzi, no, in armi e soldati per combattere i Romani. Che il Dio dei nostri padri ha lasciato violentassero la nostra terra… “
    Mentre parla si rialza, mi passa a fianco e uscendo strappa dai ganci la tenda dell’entrata.
    “… E mia figlia. Dodici anni, aveva, lo sai bene. Ed era innocente, lei “
    Il modo in cui dice lei mi fa voltare.
    Là, sulla soglia della bottega, Ruth.
    La mia Ruth. Avvolta dalla stoffa strappata da Eli e che il vento le drappeggia addosso, sembra una regina.
    Sta ansimando, ha il volto arrossato; e una strana luce negli occhi.
    Osservo appena mio fratello allontanarsi senza degnarla di uno sguardo, poi mi avvicino a lei, lei che senza parlare afferra le mie mani, le mette a coppa sul suo viso…
    Io alzo gli occhi nei suoi.
    Quei pozzi dove quante volte ero caduto, per scoprirmi, alla fine, più assetato di prima.
    Sento appena le sue parole. “Oh Jacob, Jacob quell’uomo il Rabbi, tutto, tutto!” farfuglia concitata, e io non capisco, ma che importa, perché ora mi stringe, come mai prima; poi l’acqua cade dagli occhi sulle sue gote, sulla pelle ancora liscia, quasi di bimba, e io le bacio e finalmente mi disseto.

    Sezione b, accetto il regolamento

  10. Sez. A

    “Rivelazione”

    sota a ti se viv la vita

    Auto cromate
    per folla cromata
    crisi cromata
    in gelo cromato.

    flemma
    e disperazione
    se sta mai coi man in man
    Sospiri sommessi
    folla repressa
    vita a scadenza
    di senso si fa senza.

    testa
    e maledizione

    anca mi a sun de Milan

    Dichiaro di accettare il regolamento.

  11. RITRATTO
    Sahara.
    Sei come
    La dignitosa nudità
    Di questa faccia.
    Pergamena dell’onda
    Bionda ermetica
    Di rovente amore,
    Hjmalaia setacciata.
    Spettri di carovane
    Solcano
    Le nostre rughe di sabbia.
    Sei come
    La soffocante spaziosità
    Di questo amore.
    Sciabolate di silenzio
    Contemplano miraggi,
    Uccelli d’acqua
    E un’aquila di mare
    Dalla testa Bianca.

    accetto il regolamento sez. a

  12. TI DIRO’…

    Quando fioriranno i dondolanti platani
    e sciorineranno in aria il loro profumo
    e il suo alone inonderà di letizia il mio cuore
    ti dirò…

    Quando le maestose querce
    svetteranno verso il cielo
    e le loro foglie saranno bagnate
    di sole e di luna
    e le stelle le faranno brillare nel mio cuore
    ti dirò…

    Quando gli olmi, dai loro immensi ombrelli
    di mille sfumature di verde,
    bisticceranno con le nuvole
    e ripareranno le bufere
    che si abbattono nel mio cuore
    ti dirò…

    Quando i tristi salici non piangeranno più
    e copriranno di gioia tutto ciò che mi circonda
    e regaleranno felicità a iosa al mio cuore
    ti dirò…

    Quando i sonnacchiosi pini son carichi di frutti
    e le pigne sembrano palloncini
    che stanno per scoppiarti in cuore
    ti dirò…

    Quando i cipressi stracceranno le nuvole
    e con le loro guglie toccheranno l’azzurro
    che splenderanno ai raggi abbaglianti del sole
    ti dirò…

    Quando gli ulivi d’argento urleranno di gioia
    e regaleranno pace, quiete e amore
    ad ogni angolo del mio assetato cuore.

    Ti dirò che…
    Te lo dirò.

    Giovanna Li Volti Guzzardi – Melbourne
    accetto il regolamento sez. a

  13. DESERTI
    Lunghi giorni appassiti
    dentro lo scacco
    di viole inattuate.
    E l’orologio si carica d’autunno,
    un nuovo autunno di alberi infelici
    tra le foglie piovose
    e deserti di cielo.
    Quaggiù ogni volo è lento,
    la ruggine che invade gli occhi
    di blandizie infingarde,
    i desideri che si fanno menzogna
    sulle palpebre socchiuse al sonno,
    il giaciglio di spine
    di quest’amore acuminato.
    E ci rimane un mare sonoro
    che estrae dal mantello
    fiori irti di spuma.
    Il folle bisogno
    di tornare alla vita.

    Daniela Ferraro
    sez.A
    Accetto il regolamento del concorso

    1. MERAVIGLIOSO!
      Sono le ore 8,15. All’interno di una delle tante stazioni cancellate in Calabria e ridotte a solitarie sale d’aspetto dei pochi treni che ancora pazientemente vi fanno sosta, il signor V. F. timbra frettolosamente il biglietto comprato all’agenzia figgendo lo sguardo sui binari che vanno perdendosi in lontananza. Fa caldo…deterge con la mano la fronte imperlata di sudore, riallaccia con cura le scarpe da tennis infilate con troppa frettolosità. Bisogna calzare comodo, lo attendono ben tre cambi di treno prima di arrivare a destinazione laddove, una volta, si giungeva invece direttamente e comodamente seduti sfogliando il giornale del mattino assieme a solitari pensieri. Ancora uno sguardo sulla fumosa distesa dei binari nell’attesa di ravvisare la sagoma scura del treno stagliarsi all’orizzonte tra il bagliore di un sole sfacciatamente sempre più opprimente e accecante. Un’imprevista, improvvisa folata di vento che interrompe la calma piatta della stazione deserta, un foglio giallastro di carta che svolazza impazzito per qualche istante per poi arrendersi alle mattonelle consunte del marciapiede. Reca scritto in alto “Meraviglie di Calabria” con sotto l’immagine sbiadita di un santuario arroccato su una collinetta. Il signor V.F. si stringe nelle spalle torcendo dolorosamente il collo scarno ed arrossato per via di una rasatura troppo frequente quanto maldestra. Ci vorrebbe un caffè ma il bar è chiuso. Una volta bisognava fare la fila al bancone facendosi avanti a spintoni tra l’allegramente convulso parlottare degli altri viaggiatori. E lì c’era Lei, costantemente indaffarata nel porgere con una mano i caffè e con l’altra nel cercare di trattenere quel ciuffo nero ribelle che continuava, ostinato, a ricaderle sugli occhi. Quando le era vicino, poteva sentirne agevolmente il profumo. Era alla frutta, forse alla mela verde. Rimandava sempre, comunque, ad un qualcosa di fresco. Chissà come si chiamava…Non aveva mai avuto il tempo – né il coraggio – di chiederglielo” Il coraggio è solo per chi ha la cresta.”- Aveva solennemente declamato suo padre portando la mano, con rapida mossa, alla calvizie del capo teso e lucido come una palla da bowling – E lui, di coraggio, non ne aveva di certo. E neppure suo padre. Un profondo sospiro che rimane a mezza bocca interrotto dai primi colpi di tosse dell’altoparlante. Il signor V.F. afferra debolmente la valigia, sua fedele e paziente compagna sulla “via crucis” giornaliera da ripercorrere con santa e lodevole rinnovata tenacia. L’avere ottenuto, del resto, quel lavoro di rappresentante grazie all’interessamento di un arguto zio prete era stata una vera e propria manna dal cielo. “I primi mesi lavorerai quasi gratis ma – e qui aveva levato le lunghe mani nodose verso l’alto, in atteggiamento sacrale – bisogna pazientare. Dio tutto vede e a tutto provvede” “Si avvertono i signori passeggeri che il treno delle ore 8,22 è stato soppresso”. I pensieri che smettono di correre interrompendosi, attoniti, nell’urto contro un imprevedibile ostacolo. E’uno scherzo? No. “Si avvertono i signori passeggeri che il treno delle ore 8,22 è stato soppresso”- Ripete la voce con impersonale malignità.- E adesso? Il lampo improvviso del ricordo di quando gli era scappato l’unico treno sotto il naso lasciandolo lì, da solo, capelli ritti e braccia spalancate come un patetico spaventapasseri in mezzo ad un campo di stoppie. Il risolino impertinente di due ragazzi affacciati al finestrino del treno mancato, i loro sornioni saluti tra il fumo e gli sbuffi in fuga. “Si stava meglio quando si stava peggio”. Un gruppetto di inebetiti, mancati passeggeri gli blocca momentaneamente il passaggio: qualcuno scuote il capo, qualcuno borbotta in modo incomprensibile, la pelle traslucida tra i fitti rivoli di sudore. Un sempre più crescente senso di malessere, quasi di “mal d’Africa”, eppure il grande cartello sospeso all’ingresso della stazione reca su scritto “S*** Calabro”.
      “Meraviglioso…” Le mani che corrono alla nuca per trattenerne l’esplosione in una miriade di lapilli infuocati…e la valigia, caduta pesantemente per terra, spalanca le due grandi labbra in una grottesca risata. “Meraviglioso!”.
      Daniela Ferraro
      Sez.B
      Accetto il regolamento del concorso

  14. SEZ A ACCETTO IL REGOLAMENTO

    IL VOLTO DEL CANCRO

    Non ho più quei grandi occhi nocciola
    ne finti amici vicino
    ad un tratto son sola,
    quell’eterno sorriso da bambina
    è del tutto scomparso stamattina.
    Mi son guardata allo specchio
    e ho abbassato lo sguardo,
    mi è mancato il coraggio
    del cancro son diventata l’ostaggio.
    La mano tra i capelli
    che scivolano giù per terra
    come dei sottili ramoscelli,
    il volto da rughe marcate segnato,
    labbra sottili, pochi denti e fiato affannato.
    Non sento più le mie gambe,
    ma un sudore ghiacciato,
    il corpo trema ed è molto agitato.
    Non sono più io,
    porto una maschera nuova,
    terrore dolore e troppa paura
    fragile dentro e fuori tanto dura.
    Ho i crampi, all’improvviso vomito,
    un segnale inquietante,
    mi ritrovo per terra agonizzante.
    In ospedale danno la sentenza perfetta,
    non c’è appello ma solo amarezza,
    non c’è più il tempo di un saluto ai miei cari,
    ma solo una foto all’ indomani
    su uno dei tanti giornali locali.
    Non c’è un protocollo né un salvavita,
    ti dicono ad un tratto che la tua vita è finita,
    mi raccolgo in preghiera, che Dio mi dia ascolto,
    se ho fatto peccato che mi sia tolto,
    aumenta la febbre mi batte forte il cuore,
    nemmeno un guerriero sopporta tanto dolore,
    lui fa troppo male, si chiama tumore.
    La spia rossa ora nella stanza lampeggia,
    all’improvviso un forte rumore riecheggia,
    lo sguardo atterrito del personale
    mi fa capire sono al finale.
    Il volto del cancro è quello mio,
    quello che uso per dirvi addio.

  15. Era sempre una grande festa
    ***
    Era una giornata non troppo calda. Seduto sulla mia poltrona preferita mi guardavo un documentario alla televisione, dove mostravano delle meravigliose immagini di persone di ogni età, impegnate nella vendemmia in una minuscola valle circondata da colline. Anche se non conoscevo il posto apprezzavo la sua bellezza. Quanto avrei desiderato esserci anch’io tra quelle persone, prendere tra le mani quei meravigliosi grappoli d’uva, tagliare il picciolo che li sosteneva alla vite e depositarli nell’apposito cesto.
    Stanco chiusi gli occhi e cominciai a ricordare quando ragazzino insieme ai miei amici ci divertivamo a fare quel lavoro che avevo visto in televisione.
    Eravamo abituati a giocare sempre insieme, nella grande cascina dove vivevamo. Quando nei primi giorni d’autunno i nostri genitori ci chiedevano di aiutarli nella vendemmia. Certo non era un gran ché di filari, due o tre sul lato destro del nostro orto, al fianco di sedano, rape e verza. L’uva ricadeva in grappoli dalla vite, quasi da obbligarci a piegarci per raccoglierla.
    Per noi quello non era un lavoro, ma un vero divertimento, quell’uva tra le mani per noi era come uno strumento di piacere.
    Specialmente il giorno dopo, quando ci proponevano di entrare in grandi recipienti, dove a piedi nudi schiacciavamo senza nessuna pietà quei grossi grappoli d’uva che, con regolarità gli uomini versavano al loro interno. Come impossibile dimenticare il colore rosso, quasi come fosse sangue, mischiato all’inebriante profumo di mandorle che emanava l’uva schiacciata. Non so se per i vapori dell’uva che noi respiravamo, o altro, per tutto il tempo che le nostre esili gambette si muovevano, il sorriso abbondava sul nostro viso.
    Non eravamo cosi felici però la sera, quando si cominciava ad avere problemi di prurito alle gambe. Anche se i nostri genitori cercavano di alleviare questi inconvenienti con delle pomate, non bastava, le nostre gambe parevano essere state punte da migliaia di zanzare.
    Fortunatamente il sonno dava qualche tregua a questo nostro grattare e al mattino quei tristi momenti erano dimenticati.
    Era bello vedere poi, giorno dopo giorno, quelle botti posizionate in fila sotto il portico, nell’attesa che quel meraviglioso nettare avesse quella consistenza ideale per essere estratto.
    Quando finalmente il contadino più anziano, dopo avere annusato più volte e assaggiato il contenuto delle botti, anche su insistenza dei compagni che aspettavano con ansia il vino nuovo, dichiarava che si poteva estrarre, si preparava una grande festa nella cascina.
    Eravamo tutti presenti quel giorno, mentre le donne pulivano continuamente le damigiane, dove gli uomini avrebbero versato il vino.
    Dopo circa due mesi dalla spremitura, forse era ancora troppo presto per estrarlo, ma gli uomini oramai da troppo tempo senza vino, erano ansiosi di assaggiare quello che le loro viti e il buon Dio avevano dato.
    Si notava subito dai loro volti e commenti, se quell’anno la vendemmia era stata buona, e devo dire che mai li abbiamo visti lamentarsi.
    L’unica cosa che non riuscivamo a capire erano ogni anno le solite frasi:
    “Forse l’anno scorso il vino aveva un grado in più, e un po’ più secco.”
    Oppure:
    “Quest’anno è mosso, ideale anche per le signorine.”
    Certo a quei tempi non capivamo cosa volessero dire con quelle parole, ci sarebbe bastato assaggiare quel vino un po’ spumeggiante, che avevano nei bicchieri e che muovevano con regolarità quasi automatica della mano, Purtroppo ci veniva regolarmente rifiutato, alludendo che eravamo ancora troppo piccoli per bere del vino.
    Questo ci creava sempre più la voglia, o forse il piacere di riuscire a fregarli nel cercare di bere quel benedetto vino, che noi avevamo pigiato. Purtroppo questo assaggio non avvenne mai.
    Certo, alcuni giorni dopo anche a noi davano da assaggiare del vino che usciva nuovamente da alcune di quelle botti, ma era molto più chiaro, aveva un colore rosa pallido e profumava di ciliege. Non sapevamo il perché, di questo cambio di profumo e colore.
    Questo l’abbiamo scoperto alcuni anni dopo.
    Quei furboni di contadini dopo avere estratto tutto il vino, chiudevano il foro della botte, muovevano i grappoli oramai striminziti al suo interno e la riempivano nuovamente, ma questa volta non con dell’uva pigiata, ma con dell’acqua, e questo ci pareva strano, molto strano. Solamente il Signore era riuscito a trasformare l’acqua in vino, e noi eravamo certi che quei contadini non sarebbero riusciti a eguagliarlo.
    L’acqua mischiata agli acini rimasti nelle botti, dopo alcuni giorni di permanenza insieme davano nuovamente del vino, anche se molto più chiaro.
    I contadini però, non lo chiamavano più vino, ma un nome abbastanza strano:
    “Isenò” *in dialetto.
    *Acqua sporca. Italiano.
    Vino leggero, dicevano, ideale da bere per i ragazzi e le donne.
    Oramai da tempo questo non succede più nella nostra cascina.
    Anch’io, adesso che ho una certa età, ho una bella cantina, dove numerose bottiglie di vino Rosso e bianco, provenienti dalle zone di uno dei laghi più belli d’Italia, il Garda, fanno bella mostra di sé nelle apposite scansie.
    Per ricordare i vecchi tempi insieme ai miei amici, ogni autunno ci riuniamo per festeggiare con un pranzo, quasi sempre piatto unico, spiedo con polenta, accompagnato da un buon bicchiere di vino, alla salute di tutti, presenti e defunti.

    Giuseppe Loda
    Sezione -B
    Accetto il regolamento

  16. PIGOLIO DEI NATI TRA LE FRONDE
    “Se riesci a comporre un verso
    che soddisfa un contadino
    devi esserne contento.
    Un fabbro non lo capirai mai.
    Il più difficile da accontentare è il falegname.”
    Olav H.Hauge: “Versi”

    Un disordine di fogli, di capelli, di campane lontane.
    Ecco cosa immaginare all’ombra del grande noce,
    tanto vecchio da piegarsi in capriole stanche
    sopra il grano piantato invece in file ordinate.
    Le nuvole che cadono sopra di noi non fanno rumore:
    solo piccoli cerchi distratti, come cadessero in un mare.

    Tutto sappiamo passare perché tutto ha inizio e fine.
    E al vento e al sole s’accompagnano ebbri i silenzi,
    il pigolio dei nuovi nati tra le fronde, il crescere
    delle radici tra i sassi, sorridendo noi delle incomprese cose.
    Certi siano i giochi già fatti, spiate le stagioni, le nudità.
    Certi le onde vadano a squamarsi sempre da un’altra parte
    e ci sia tutto il tempo di cui abbisogniamo per raccogliere
    e avidamente consumare l’esistenza in sibili, in sogni,
    nelle assenze che dimentichiamo, nei fremiti della resa.
    Allorché chicchi da sgranare matureranno all’ombra
    di un grande noce, sotto cui, bambini, si giocava
    e voci ordivano i giorni che sarebbero venuti.

    *accetto il regolamento del contest* sez. a

  17. Il profumo della felicità

    E ti appartengo
    in quell’ultimo bacio
    che hai regalato
    alle mie labbra.
    E trattengo
    con unghie e denti
    quel sospiro
    che aveva il profumo
    della felicità.

    © Daniela Giorgini – Sezione A – Accetto il regolamento

  18. Sto andando in pezzi

    La nave era vasta
    e cavalcava il vasto oceano.
    Io osservavo le onde oscene
    e dicevo: oh oh!

    Sto andando in pezzi,
    scendendo tra le piaghe del sale
    con i miei ettari di legalità
    e nessuno me lo perdonerà.

    Per calmare i passeggeri
    hanno allestito uno spettacolo,
    mentre io vado giù,
    decapitata come Medusa.

    Tutto è molto tranquillizzante,
    se non per il fatto che sto andando in pezzi
    e una gamba è già lì sul fondale,
    piantata come quella di un manichino.

    E ora sento
    che potrei immaginare un finale,
    qualcosa che non sia stato detto,

    per esempio che laggiù potrei trovare
    oltre alla mia gamba, le mie unghie laccate
    accanto alle conserve di sorrisi di signora
    dal cervello disfatto.

    Ed è anche probabile che non affonderò
    tra i vecchi ingombri,
    ma che il mare mi risputerà come seme di mela.

    Ma ora sto andando in pezzi,
    scendendo tra le piaghe del sale
    con i miei ettari di legalità
    e nessuno me lo perdonerà.

    sez. a accetto il regolamento

  19. Elegia del giardino smarrito

    Un giardino smarrito
    vive oltre l’ultimo sentiero,
    nel luogo più remoto
    dove tace ciò che altrove è rumore.

    Le foglie brillano come trasparenti lampade,
    accese dal riflesso dell’attesa,
    e l’aria trattiene il fiato
    come chi arriva in silenzio.

    Non c’è un passo quotidiano a turbare il suolo,
    regna una quiete che sembra radicata.

    Presenza che basta a se stessa.

    V’è una grazia disadorna tra i rami,
    un pensiero che non giunge alla bocca,
    un’idea incompiuta che attende la sua forma.

    E il giorno non osa piegarsi a questo spazio:
    resta sospeso al margine del mondo,
    accennando appena il suo passo,
    perché sa che qui nulla qui deve mutare.

    Nel giardino smarrito,
    persino il tempo è straniero:
    ciò che fiorisce non muore,
    ciò che cresce trattiene i suoi frutti.
    E chiunque lo attraversi, non trova,
    né porta via.

    Angela Maria Malatacca – Sezione A – Accetto il regolamento

  20. VECCHIAIA

    Non dirmi cretino
    se osservo due fili di chioma
    abbracciate al cuscino
    nevoso biancore
    sopra due occhi di miele

    E’ lento il respiro
    in silenzio ci sbeffeggia la sveglia
    è passato tanto tempo
    il grigiore assottiglia la speranza

    Non dirmi cretino
    se la notte rimiro una foto
    tra il verde-giallo di un prato
    un volto, le chiome, i tuoi occhi

    Dimmi pure cretino
    ma non voglio svegliarmi
    scoprendo sul tronco un ramarro
    come fossile scordato dal tempo

    Io questa notte
    ti voglio eterna
    nel segreto della pace
    del silenzio che non si scioglie

    sez. a accetto il regolamento

  21. Tramonto d’amore.

    Il tempo scorre
    sulle paure del mio essere mortale
    rimpiango giorni senza affanni
    ubriaca di verità che al contempo
    come spada ferisce e innalza alla gloria
    la nebbia si dirada alla tua luce
    gocce di luna dipingono la tua immagine
    il tuo “ti amo” rompe il silenzio
    mi rende bellissima
    la tua gravità mi rende satellite
    dell’angelo non hai solo il portamento
    da semi Dio mi insegni l’amore
    leghi a te i miei capelli
    mentre plasmi le tue braccia
    a mia nuova prigione.
    Fuggire o desistere
    perdermi in te
    è dilemma di sopravvivenza
    e la mia arsura aumenta.
    Mentre mi disseti gentile
    al calice del tuo amore
    le tue labbra sigillano le mie:
    non ho più voglia di capire.
    Quel “ti amo” mi fa strada
    mentre inizia il tramonto più bello
    carpisco il calore dell’ultimo raggio di sole
    nel viaggio che mi ha condotto a te.
    Sez A – Accetto il regolamento
    Laura Dessi

  22. Lazzaro

    Sei nuovamente fra noi, nati
    con la caparbia voglia di non morire
    che ti chiedono come hai vissuto – sì
    vissuto – tra tafani e vermi nel buio illimitato
    se hai vagato come un uccello
    in cieli liquidi e sconosciuti
    se scricchiolava la sabbia sotto i tuoi passi
    se la notte era velluto verde
    se una luce brillava di angeli azzurri
    o di folgori nelle tempeste
    se ripensavi alla tua vita passata
    o se tutto era spento come la realtà
    innegabile di un sasso.
    Il tuo corpo lo ha preso in mano Cristo
    e l’ha rilanciato nel fiume turbolento della vita
    a rivedere i goffi albeggiare
    il monotono scorrere dei giorni
    le notti affollate di incubi .
    Ora che sei nuovamente fra noi
    nell’urgente tenerezza della carne
    non puoi che soffrire
    il ribollire del tuo sangue
    nell’incessante ondeggiare dei desideri.
    La mente che non smette di sognare spera
    di suturare la ferita della morte con l’oblio.
    Se chiudi gli occhi non senti
    il sapore della nuova vita e l’aspro
    futuro di una nuova morte?
    Non hai paura di tornare tra le sue braccia?
    Braccia! O il nulla da cui
    sei stato provvisoriamente liberato?
    – – – – –
    Sez. A
    Accetto il regolamento
    Marcello Comitini

  23. THE BEAUTY AND THE BEAST

    Tra le parole del chiacchiericcio degli astanti agli altri tavoli della veranda del ristorante, sul piccolo corso d’acqua, si udivano intervallati dalle note di una musica rilassante, i rumori del vino scorrere nei calici, delle posate stridere sulle ceramiche, del traffico che mollemente passava come la coda di un pitone lambendo il locale adiacente al ponte.
    I cristalli di valore e le posate garbatamente posizionate al loro posto, geometricamente intorno ai piatti, ricordavano che anche l’etichetta avrebbe fatto parte del conto alla fine della cena. Si sentivano voci dalla erre moscia altolocate e sprezzanti, discussioni distanti dalla realtà della maggior parte delle persone mortali, mignoli alzati su tazzine porcellanate.
    Intorno a loro le vie che portavano in centro erano affollate, lambivano i contorni della basilica palladiana, facendo scorrere come biglie su un piano inclinato le persone immerse nel sabato sera alla ricerca di un locale dove cenare o bere qualcosa. La bellezza li attorniava e dava adito all’idea che chi vive immerso in una bellezza del genere ha comunque una speranza. “La bellezza salverà il mondo” diceva Dostoevskij. Eppure ultimamente sembrava che la bellezza non bastasse più ad elevare e ad uscire dagli schemi, a sparigliare le percezioni rassicuranti della mediocrità. Vivere nella bellezza diventava scontato e la scontatezza faceva imbruttire. Il fiume scorreva placidamente, riflettendo le luci natalizie, portandosi appresso le risate della gente sul ponte, i rumori dei loro passi e la loro felicità. Era lì da un’eternità a svolgere quel compito e nessuno ci faceva caso. Perché pensare di dover vivere come palline su un piano inclinato? Perché non fermarsi a guardare la corrente portare la propria immagine a valle? Mentre tutte queste strane domande gli passavano per la testa, come un elenco della spesa, si chiese perché era lì, sulla veranda del ristorante, sul ponte di pietra, sul piccolo corso d’acqua che assorbiva e rifletteva l’immagine di quei momenti.
    Alzò lo sguardo e la guardò negli occhi, rideva di gusto e non si chiese se stesse ridendo di qualcosa che era successo, di qualcosa che quasi inconsciamente aveva detto o semplicemente di lui. Quando lei rideva faceva allegria e il fiume portò la loro immagine giù verso il mare come un messaggio di felicità.

    Giovanni Ferrari
    Accetto il regolamento, sez. b

  24. Boccascena e il mantello d’Arlecchino

    Persa. Non provava altra sensazione. Pensandoci meglio, si sentiva anche oppressa, claustrofobica, come rinchiusa in un bunker grigio, con le fredde luci dei neon. Era davanti allo specchio, chiudendo un occhio alla volta, fissando l’iride. Le sembrava che una fosse più chiara dell’altra. Immaginazione. Forse un po’ di strabismo di Venere. Sensuale. Si perse tra le pagliuzze ocra che, diventando immense, la ingoiavano e la risputavano inevitabilmente sul freddo vetro. Persa.
    Era invidia. La sua, aveva qualche screziatura gialla. Persa.
    Quanto avrebbe voluto provare invidia buona, semplice ammirazione, ma non esiste l’invidia buona. E rise amaramente, pensando a chi si barrica dietro alle parole e cerca uno scudo per proteggersi dalla verità. Bruciava, eccome, avere perso. Una bella colata di acido proprio nello stomaco, lenta e crudele.
    L’invidia è la carie delle ossa, ne puoi sentire l’odore, immaginare il colore imputridito sapendo che è lì, insolente. É uno dei sette vizi capitali, mica fuffa, una dichiarazione di inferiorità, comprovata dal fallimento personale. Ed io, ho fallito.
    Persa.
    Che altro avrebbe potuto fare? Raccomandazioni, cena e annessi con uno dei giurati, si era perfino fatta la mastoplastica riduttiva e ritocchini vari su indicazioni del suo agente. Ma non era bastato.
    Che altro volete? Ditemelo? Il talento c’è, lo so che c’è, quindi? Cosa mi manca? Perché non io?
    Un conato di vomito la piegò sulla tazza del WC, spruzzando aceto e bile ovunque. La pelle si stava squamando, bastava toccarla e perdeva piccole scaglie luminescenti.
    Più magra di così? Lo posso fare. Certo che posso.
    Si asciugò la bocca e andò in cucina scrollando i video sul cellulare. Prese un bicchiere e lo riempì d’aceto, bevendolo tutto d’un fiato. Quasi non sentiva le budella contorcersi mentre osservava le altre, quelle che erano state prese.
    Lacrime acide, collose e minuscole, le scesero sul viso e lì, rimasero.

    accetto il regolamento, sez. b

    1. Un racconto dallo stile molto originale la cui narrazione è resa con pennellate fredde e asciutte che intrecciano sentimenti contrastanti, pur delineando compiutamente l’unicità della condizione psicologicamente drammatica di colei che si sente rifiutata (nonostante i compromessi con la propria dignità) da quel mondo a cui aspira.

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