Vincitori e finalisti del Contest letterario “Cortocircuito poetico”

“[…] Ingredienti rari/ combinazione di alchimia/ un tocco sottile/ raro frutto dolce sul piede/ quando tocca la mia bocca/ assapora la vita./ E il battito nel mio petto/ è la casa del desiderio/ è il tuo corpo che vive nel mio/ evocando tutti i sensi.” ‒ “La casa del desiderio” ‒ “Cortocircuito poetico”

Contest Cortocircuito poetico
Contest Cortocircuito poetico

Si è conclusa il 17 novembre 2024, a mezzanotte, la possibilità di partecipare al Contest letterario di poesia e racconto breve “Cortocircuito poetico” promosso da Oubliette Magazine e dall’autore Franco Carta.

La giuria del contest (Alessia Mocci, Carolina Colombi, Samuel Fernando Pezzolato, Franco Carta, Simona Trunzo, Giovanna Fracassi ed Antonietta Fragnito) ha decretato i 14 finalisti dai quali sono stati selezionati due vincitori per ognuna delle categorie in gara.

Il premio per ciascuno dei vincitori consiste nell’invio di una copia del libro “Cortocircuito poetico” di Franco Carta, edito nel settembre 2024 da Edizioni DrawUp.

Oggi, vi presentiamo tutti i finalisti ed i quattro vincitori ex aequo del Contest (due per ogni sezione).

Tutte le opere partecipanti al Contest “Versi di Sardegna terza edizione” possono essere lette cliccando QUI.

 

FINALISTI

Sezione A, poesia

Serenella Menichetti con “Il divano a righe”

Felice Serino con “Versi per Nina”

Roberto Marzano con “Quel dì che fossi”

Thea Matera con “Méloplaste”

Anna Rita Furcas con “Traspare”

Marcello Comitini con “Autunno in città”

Guido Burgio con “Non chiedermi mai”

Sezione B, racconto breve

Annalisa Scialpi con “Eden”

Antonella Chiego con “La bambina che non dormiva mai”

Annalisa Atzeni con “La vita è vento”

Igor Issorf con “Il sentire del cuore”

Grazia Fresu con “Alle sei di sera”

Luana Farina Martinelli con “Mi chiamo Aisha”

Giovanni Ferrari con “Killing Seeds”

 

OPERE VINCITRICI

Sezione A, poesia – Contest Cortocircuito poetico

Roberto Marzano con “Quel dì che fossi”

Quel dì che fossi da te troppo distante
cenere ardente sulla città imbrunita
‘sì desolato dal disertato amore
disseterei l’arsura alle grondaie.

Poeta affranto che cigola ai crocicchi
senza lo straccio di un vil lubrificante
inforcherei l’abbrivio alla ragione
che si dà ai matti seppure già rinchiusi.

Marcello Comitini con “Autunno in città”

Il cielo è una coperta di lana
grezza e pesante distesa
su un vasto cortile umido
che non sa come scaldare il gregge
che pullula tra il cemento
il vetro e l’acciaio delle sue pareti.
Così è la città guardata
dal più alto palazzo che la sovrasta
coi mille occhi di un pastore senza speranza.
Pecore e montoni che intrecciano
le pelli ma ognuno fugge
inseguito dagli impegni
e le mani non s’incontrano, si chiudono
a pugno in un silenzioso riserbo.
Nessun profeta consolerà il loro affanno.
Le sue mistiche parole sono
per coloro che vissero in altre epoche.
Chi gli passa accanto lo riconosce
solo da morto e lo dimentica.
Il cortile è affollato di gente
che non sa di vagare
dove la solitudine è non sapere
e vede nei riflessi illuminati delle vetrine
gli specchi dei propri sogni.

 

Sezione B, racconto breve – Contest Cortocircuito poetico

Annalisa Scialpi con “Eden”

Quello che per molti è avventura per me è solo un soffiarsi il naso. Non è che devo essere per forza anticonvenzionale, ma la parola realtà non ha mai avuto per me, come per la maggiori parte dei miei ‘consimili’, lo stesso senso. Decisi che quel pomeriggio mi sarei pregustata l’avventura. E così, sopportando il traffico e l’annoso problema del parcheggio, con le auto incastrate in ogni angolo della città, riuscii finalmente ad avere ‘i piedi per terra’ e raggiungere la meta anche se, nel mio caso, è semplicemente un modo di dire. Entrai nella grande libreria, tronfia tra scatole di palazzi con la sua bella insegna rossa in vista. Trassi un respiro di sollievo. Oltrepassai il gendarme all’ingresso e notai che le poltroncine di solito disposte a semicerchio nel baricentro della grande sala erano occupate e messe in riga come soldati accanto ad altre sedie. Si attendeva la presentazione di un libro. Gironzolai un po’ tra gli scaffali, sbirciando la fila dei classici e compiacendomi di averne letto una fila intera. Madame Bovary era stato uno di quei romanzi, letto quando avevo appena quattordici anni, che mi lasciò addosso una tristezza incredibile. Poi vidi I demoni di Dostoevskij, Il ritratto di Dorian Gray e altri titoli già noti.

Mi sentivo a mio agio in quella libreria, come una dama di corte o una regina. Lì dentro avrei potuto essere quello che volevo, viaggiare in comunità esotiche o in paesaggi campestri o tra i miei demoni resi inoffensivi da mura di cinta di carta. O pellegrinare tra le mie strabilianti fantasie semplicemente rimanendo sul posto, composta e serena, invisibile come un pinscher. Questa, per me, era avventura! Presi un libro di Italo Calvino e andai al piano superiore, sperando di trovarci la mia poltroncina/astronave. La trovai, dirimpetto al reparto ‘libri per l’infanzia’, nella grande sala solo un po’ più rumorosa di quella in basso, per via del parquet in legno scricchiolante tra le luci accecanti. Aprii il libro, ma bastò poco per accorgermi del mio vicino di poltrona. Dalle scarpe semilucide che ondeggiavano con lo stinco che andava su è giù, indovinai che fosse un uomo. Non voglio vederlo, dissi. E annusai il suo odore, affinché parlasse per lui. Lo udii tossire. Era quella specie di tosse secca degli uomini di una certa età, piena di verità pesanti come se la carrucola della gola facesse un’incredibile fatica a tirarle fuori.

Feci di lui i pensieri più banali: forse è un uomo solo e viene qui per consolarsi. Forse non ha niente di interessante ed è solo un uomo che legge. Mi sentii sollevata da quel pensiero. Cosa c’era, in fondo, di interessante negli uomini? Fu subito dopo quella epifania che fui costretta a voltarmi: l’uomo mi fissava. Aveva gli occhi colori cenere e occhiali scuri che gli davano l’aria da intellettuale nutrito solo dalla manna delle idee. Non so quanto tempo rimasi a fissarlo in uno strato di trance. Era sempre così, quando mi distoglievano dalla mia ‘realtà’.

“Sa che per un attimo ho pensato che essere semplicemente uomini che leggono può essere interessante” gli dissi con lo sguardo. Lui abbozzò un sorriso con le sue labbra che parevano cerniere.
“Un tempo coglievo le mele dagli alberi” mi disse, come sapendo i miei pensieri.
“Interessante” dissi.
“Io invece ho sempre attraversato tunnel.”
Lo vidi sinceramente addolorato di quella risposta.
“Oh, avanti, non pensi che voglia fare la vittima” aggiunsi.
Nel frattempo la voce dell’autore che intercalava la sua presentazione con un ‘niente’ e raccontava di aver mangiato frittura di pesce, si era fatta più alta.
“Le va di prendere un po’ d’aria, qui non si sente niente” disse.
Accennai un sì, scendemmo ed io lasciai il mio libro sullo scaffale.
Fuori era già sera.
“Tunnel, interessante, disse l’uomo, gettandosi un cappottaccio sulle spalle.
“Ricordo solo molto vento” dissi, anticipandolo, mentre svoltavamo l’angolo come amici di sempre, o amanti, diretti chissà dove.
“Forse è un po’ come per lei, con le mele. Tirare giù qualcosa che sembra buono. Lei dall’alto, io dal basso. Non è così?”
“Già, le mele” disse, fermandosi accanto all’insegna di una trattoria che emanava una luce liquida.
“A volte penso che, riconciliandomi col serpente, sarei riuscito a…”
Si fermò, come colto da un’improvvisa illuminazione.
“Sarebbe riuscito a?” lo incalzai.
“Magari a riscrivere la storia del paradiso, ma mi rendo conto che è una sciocchezza. Non è che mi senta così piccolo da pensare di non riuscire a riscrivere la storia delle origini, ma è che… Non so. Col tempo ho imparato a perdonare il serpente. E persino le mele cadute. Quelle che non tollero sono quelle che rimangono attaccate ai rami.”
Lo guardai.
“Ma lei per caso sa qualcosa di quell’uomo di Nazaret. Mi pare che dicesse qualcosa di simile.”
Fu allora che nel suo sguardo balenò qualcosa di strano.
“E come faccio a saperlo se sono il suo progenitore…”
“Intende dire…”
“Sì, Adamo, proprio lui!”
Fu allora che mi tornò la memoria: la mela, la cacciata, la maschera che avevo dovuto indossare per fingermi pentita del mio gesto, i figli da partorire con dolore, i piatti sempre quelli da lavare, la famiglia borghese da tollerare e poi il tunnel nel quale entravo ogni volta per ritrovare quelle foreste dove c’era sempre vento e il vento era bello, perché era il linguaggio di dio.
Ci guardammo smarriti.
“Se tu sei Adamo allora vuol dire che io sono Eva. E che finalmente ti ho ritrovato.”
“Però non posso seguirti oltre” aggiunsi con una grande tristezza nel cuore.
L’uomo non capì e andò via molto triste, senza voltarsi ma senza neanche drammatizzare, perché l’umiliazione della cacciata dal paradiso terrestre lo aveva reso un gentiluomo.
Ed io non seppi mai quando avevo eletto a mio unico amante il serpente al quale ammiccai. E che ora risplendeva, magnifico e solitario, sull’insegna della trattoria ‘Eden’.

 

Grazia Fresu con “Alle sei di sera”

Tra poco sarò anch’io una di quelle donne di cui parlava Gabriel García Marquez in un vecchio articolo del 1982, una di quelle mogli felici che si suicidano alle sei di sera.

Non c’è niente in questa mia ultima giornata che sia diverso, se non impercettibilmente, da tutte le altre. Stamattina mi sono svegliata una mezz’ora prima di lui, abbiamo bevuto insieme il nostro consueto caffè e poi è uscito per andare al lavoro, che non è più quello di tanti anni fa. Oggi mio marito è un professionista affermato che esce alle nove e rientra quasi sempre alle ventuno, a meno che una cena d’affari non lo trattenga fino a notte, allora mi chiama per dirmi di andare a letto, mi dà la buonanotte in modo affettuoso ma a me non arriva niente dentro. Siamo sposati da trent’anni e abbiamo tre figli. Nessuno di loro vive più con noi, telefonano raramente e sempre in modo frettoloso e a volte uno di loro a turno viene alle feste comandate. Questa casa durante il giorno sembra una cattedrale abbandonata, ma scintillante come uno specchio. La pulisco ogni mattina al ritorno dal supermercato. Sta a tre isolati da qui, ci vado da una vita, tutti mi conoscono, mi sorridono, il gerente ancora mi corteggia dopo tanti anni, mi dice che sono sempre bella. Non so se mi facciano piacere i suoi complimenti, da troppo tempo non conosco cosa sia il piacere. Quando c’erano i bambini avevo una donna che mi aiutava, anche perché, oltre che di loro, dovevo occuparmi di quel marito che ambiva a un grande avvenire e si appoggiava a me per raggiungerlo. Riassumevo per lui i libri che doveva studiare, scrivevo al computer i suoi appunti, lo abbracciavo quando aspettava i risultati dei suoi sforzi. Che ci fossero dentro anche i miei di sforzi, a lungo non l’ho neppure considerato. Allora ero giovane, ma nonostante l’energia e la salute di ferro ero a volte stanca, convinta comunque che la felicità vivesse tra noi, una coppia con qualche problema economico ma tanti sogni e tre bellissimi figli, due maschi e una femmina che riempivano di risate le stanze e il giardino.

Da anni alla casa ci penso da sola, se non dovessi pulirla e ordinarla passerei troppe ore a pensare e da un certo punto in poi ho capito che pensare in questo deserto mi fa male. Prima riuscivo anche a leggere, avevo una biblioteca ben fornita di romanzi, poi ho cominciato a regalarli non per mancanza di tempo ma di desiderio. Non riuscivo più a perdermi tra quelle pagine e a credere in quelle storie, non che fossero romanzi rosa a lieto fine, no, erano titoli di scrittori importanti con tutte le allegrie, i drammi, le tragedie della vita. Non mi interessava ormai neppure quel lato oscuro dell’umanità di cui alcuni sapevano parlare con straordinario talento e che nella giovinezza mi aveva tanto affascinato. Ora per distrarmi mi concedo qualche serie televisiva, mi piacciono quelle in costume che mi trasportano in epoche lontane, mentre pranzo, dopo essermi apparecchiata sul tavolo del salotto con i piatti di porcellana e le posate buone, perché nonostante tutto amo ancora la bellezza delle cose e la loro eleganza che in parte mi salva dal truffaldino caos del mondo. La sera, mentre lo aspetto per cena, qualche vecchia canzone mi aiuta ad arginare la malinconia che cala con le ombre.

A volte esco con le amiche, viviamo quasi tutte nel quartiere, andiamo al bar della Piazza a bere la cioccolata calda d’inverno e la birra fresca d’estate o a comprarci qualcosa di bello nei negozi del centro. Sappiamo tanto l’una dell’altra, sappiamo riconoscerci quell’abisso nello sguardo che quando ci siamo conosciute non avevamo. Due di loro si sono trovate un amante per sopravvivere al vuoto delle loro vite, nessuna folle passione, solo uno con cui andare a letto ogni tanto nella penombra ambigua di una stanza di motel. Io non potrei, non ho mai potuto. Mi piace fare l’amore, non scopare, mi piace farlo su un prato come la prima volta o sul mio letto mentre i bambini giocano sull’altalena e insieme io e lui cerchiamo di stare attenti se i loro piccoli passi si avvicinano, mi piace farlo in una città d’arte con la finestra aperta su una Piazza antica e il brusio della gente che passeggia godendosi la primavera e poterlo guardare negli occhi e ridere con lui e sentirmi scivolare tra le sue braccia come nel mare d’estate, umida e abbagliata. Non è per moralismo che non ho un amante ma perché nessuno mi ha più dato quell’emozione necessaria perché una storia cominci.

Per questo siamo io e la casa, io e lei da troppo tempo.

Alle cinque sono uscita e in profumeria mi sono comprata un rossetto di un viola acceso, un colore che non ho mai portato, al ritorno ho indossato il vestito di quel Natale bellissimo, tutti insieme, che ancora ricordo. Mi disegna il corpo, il suo velluto azzurro m’illumina la pelle. Nella mia camera c’è un grande specchio dove posso guardarmi, ai piedi del letto. Mi sdraio, prendo dal cassetto il flacone dei sonniferi e lentamente comincio a inghiottirli. Ci vorrà giusto una mezz’ora perché facciano effetto e allora saranno le sei, le sei esatte, le sei di Garcia Marquez, le sei delle mogli felici.

Domani i conoscenti parleranno del mio gesto incomprensibile, quello di una donna che ha avuto tutto dalla vita. Solo le mie amiche non diranno niente, le mie amiche che hanno come me il cuore gelato, le mie amiche che sanno.

 

Alle nove l’uomo arrivò, parcheggiò la macchina, entrò.

La casa era immersa nel buio e silenziosa.

 

***

 

I vincitori del volume “Cortocircuito poetico” saranno contattati via e-mail per l’invio del premio.

Complimenti ai vincitori, finalisti e partecipanti del Contest “Cortocircuito poetico”

 

Partecipa al nuovo Contest letterario cliccando QUI.

2 pensieri su “Vincitori e finalisti del Contest letterario “Cortocircuito poetico”

  1. Ringrazio la giuria per la preferenza accordata ai miei versi e porgo a lei (e per conseguenza alle due autrici) i miei complimenti per aver scelto due racconti davvero interessanti: l’uno (della Scialpi) per la ricchezza di immagini e per l’originalità dell’ambientazione, l’altro (della Fresu) per la profonda analisi dei sentimenti e per l’uso sapiente di un linguaggio scorrevole e quindi immediatamente coinvolgente.

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